RACCONTI DI PECORE CHE NON VOGLIONO RESTARE PECORE

Conoscere la realtà è conoscere le narrazioni perché siamo esseri prevalentemente “narrativi”. La narrazione è per sua natura riduzionistica, non dice tutta la realtà ma parla, dice, più di ogni altra forma, ciò che prevalentemente siamo e stiamo vivendo.

Proponiamo due racconti.

Nel nord Italia, a Pallanza, dal 1979, dei battezzati (laici e preti) non rinunciano a pensare da adulti in un mondo in rapida e profonda trasformazione e a confrontarsi con le sfide della cultura di oggi. Da poco muoiono i due preti “conciliari e sinodali”. Con “la nomina di un nuovo parroco, qui catapultato senza alcun coinvolgimento della comunità”, subentra il dirigismo clericale e si vuole ripristinare la sudditanza laicale. Giancarlo Martini, che da anni svolge, tra l’altro, un lavoro preziosissimo di rassegna stampa giornaliera e gestisce un blog molto documentato: www.finesettimana.org, ci racconta “la nuova situazione da incubo”.

All’estremo opposto d’Italia, a Palermo, dal 1984, operava l’esperienza di “San Saverio”: “termine comprensivo di realtà giuridicamente distinte ma operativamente convergenti: la rettoria della chiesa “materiale”; la comunità cristiana e i gruppi ospitati nei locali della chiesa; il centro sociale auto- gestito con le sue diverse articolazioni interne per settori: doposcuola, spazio donne, spazio anziani e così via…”. Il prete “conciliare”, che ha dato avvio a questa esperienza, va in pensione nel 2019.

Quello che accade in quest’ultimo anno con il “nuovo prete” ce lo racconta Augusto Cavadi.

Di situazioni similari ce ne sono tante sparse in tutta Italia, anche vicino a noi. Con le stesse dinamiche: esperienze che tentano di rompere gli schemi clericali e gerarchizzati di una comunità e avviano percorsi partecipativi, ma quasi sempre esse danno fastidio alla prassi autoritaria ecclesiastica. Da subito sono sopportate. Si spingono ai margini, fino a quando chi la anima è un prete illuminato che tiene duro. Quando questo viene chiamato dal Padre Eterno o non c’è più, si “normalizza” e si chiude.

Il cammino sinodale della chiesa italiana è iniziato con “la fase narrativa”. Ci chiediamo: chi farà emergere queste dure narrazioni ed altre similari che dal concilio ad oggi sono state emarginate, molte dimenticate, tante disperse da pastori che non tollerano che alcune pecore non vogliono restare pecore?

La Redazione di Manifesto4ottobre

Pallanza: finisce una lunga esperienza viva sinodale

“I laici battezzati nella chiesa non contano nulla”

Per capire ciò che sta avvenendo nella comunità della quale faccio parte e alla quale ho cercato di offrire il mio contributo bisognerebbe conoscere un poco il nostro cammino, un cammino iniziato da don Giacomini negli anni del concilio e poi accompagnato e stimolato soprattutto da don Giuseppe Masseroni, che aveva lavorato insieme a don Giacomini, e che ha presieduto a lungo le celebrazioni dell’eucaristia a S. Stefano e che è morto nell’aprile del 2019. Il cammino della nostra comunità si è caratterizzato per la centralità data all’ascolto e alla lettura della bibbia (da oltre 20 anni animo un incontro settimanale sulle letture scritturistiche della domenica), per l’importanza data alla celebrazione dell’eucaristia domenicale che è diventata sempre più progressivamente una celebrazione dell’intera comunità, con particolare attenzione al rinnovamento del linguaggio delle preghiere anche di quelle eucologiche (colletta, offertorio, prefazio, dopo la comunione… don Giacomini aveva lavorato molto su questo terreno durante gli anni 70, lavoro ripreso da don Giuseppe e proseguito poi da me), con il prender la parola da parte dei laici (ogni domenica una persona dell’assemblea offriva un proprio contributo a commento della parola di Dio), con il sentirsi davvero accolti e con la pratica dell’ospitalità caratterizzata dalla presenza di diversi migranti. Sono state liturgie ricchissime di umanità, profondamente legate alla vita (da 13 anni predispongo una edizione cartacea settimanale della rassegna stampa che viene messa a disposizione dei presenti). Davvero nella nostra esperienza la liturgia era uscita dal cono d’ombra ed era vissuta dai presenti come momento significativo per tutti, come una celebrazione della buona notizia del vangelo (in due editoriali apparsi sul sito dei Viandanti ho cercato di illustrare il senso del nostro cammino). Gran parte delle persone della nostra piccola comunità sono poi molto impegnate in associazioni che si prendono cura delle persone in difficoltà, dai carcerati, ai profughi, ai malati psichici, al trasporto di persone disabili, al favorire un commercio equo e solidale ecc.
Come sappiamo il culto dei cristiani è la lavanda dei piedi, senza la quale, come dice Paolo, la celebrazione della cena del Signore diventa la nostra condanna.
Oltre a questo, la nostra comunità (grazie ai preziosi stimoli di don Giacomini) si è sempre caratterizzata per l’importanza data al momento della riflessione per ripensare il senso del credere oggi, a partire dagli “incontri dei Finesettimana”, come appare dal nostro sito
www.finesettimana.org
I nostri guai sono iniziati alla morte di don Giuseppe, perché il parroco di allora si rifiutò di obbedire al vescovo di Novara (Brambilla) che gli aveva chiesto di non leggere il testamento  spirituale di don Giuseppe ai suoi funerali (in quel testamento, che venne letto durante i funerali, tra altre cose, si chiedeva ai preti di non stare bardati attorno all’altare, ma di stare tra la gente, invitando anche il vescovo a fare altrettanto qualora fosse stato presente). Il vescovo rimproverò il parroco di non essere capace di fare il suo mestiere, incapace di imporre la sua volontà. Di qui l’azione di ritorsione (secondo la mia interpretazione dei fatti), ritardata dall’esplosione dell’epidemia. E da due mesi, con la nomina di un nuovo parroco qui catapultato senza alcun coinvolgimento della comunità, viviamo una nuova situazione, da incubo.
In questi ultimi due mesi tutti i preti che in qualche misura hanno accompagnato il cammino della nostra comunità sono stati allontanati o destituiti dalla loro funzione di parroco. Il nuovo parroco, prima ancora di insediarsi e prima di conoscerci ci ha fatto pervenire una lettera del vescovo nella quale si proibisce l’uso di preghiere eucologiche diverse da quelle ufficiali. Ha telefonato a don Piergiorgio Menotti (un prete novantenne) per dirgli che era esonerato dal presiedere l’eucaristia nella nostra parrocchia (come se ci fossero oggi così tanti preti in circolazione).
Durante un incontro avuto con il nuovo parroco, a lungo richiesto, 20 persone della nostra piccola comunità hanno raccontato quanto importante fosse stato per loro l’essere sollecitati a prendere tra le mani il vangelo, a rifletterci e a offrire a tutti durante la celebrazione dell’eucaristia un proprio pensiero. Per me è stata davvero un’esperienza emozionante. Il parroco al termine ha comunicato che la bella esperienza fatta non può più continuare, perché gli unici titolati a prendere la parola sono i preti. L’unico spazio riservato ai laici è la preghiera dei fedeli…
I laici battezzati nella chiesa non contano nulla e a loro si può togliere senza problemi la parola.
Il risultato è che da un mese le celebrazioni dell’eucaristia sono sempre più aride e deserte. Per il cammino della nostra comunità sembra che non ci sia più spazio nella parrocchia.
Sento vivamente la responsabilità di non dissipare il molto che abbiamo ricevuto, e sono infinitamente grato per l’esperienza bellissima che mi è toccato in sorte di poter vivere qui per 50 anni.
Sono molto pessimista, ma essere pessimisti non vuol dire rassegnarsi o non avere speranza. Mi è difficile però capire che fare ora in questa situazione.

Giancarlo Martini*

Presidente dell’Associazione culturale “don Giacomini” di Pallante (VB) e referente del gruppo di “Fine settimana” di Verbania (VB)che aderisce alla Rete dei Viandanti



San  Saverio all’Albergheria di Palermo:

chiude una delle comunità più vive del Mezzogiorno

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 40 del 13/11/2021

Nel 1984 un giovane docente della Facoltà teologica di Sicilia chiese e ottenne la ‘rettoria’ di una splendida chiesa tardo-barocca nel cuore del centro storico di Palermo. Il cardinale Salvatore Pappalardo non ebbe esitazioni: la chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria (il quartiere del mercato storico Ballarò), abbandonata da anni, era adiacente a un Pensionato gestito direttamente dall’Università degli studi e si prestava a diventare una sorta di cappella cattolica per docenti e studenti. Ma per don Cosimo Scordato, il nuovo rettore, l’aggettivo “cattolico” – che ha finito col designare una delle tante confessioni cristiane diffuse nel mondo – etimologicamente significherebbe “inclusivo dell’intero”, universale, planetario. Da qui la decisione che il tempio affidatogli diventasse la casa di tutti: una volta a settimana il luogo della celebrazione eucaristica secondo il rito cattolico (ma ospitando, secondo le circostanze, fratelli di confessione protestante o ortodossa); per gli altri sei giorni uno spazio a disposizione della città (assemblee sui problemi del quartiere, mostre di pittura e di fotografia, presentazione di libri, concerti musicali, tavole rotonde…). Così, in pochi anni, la chiesa di San Saverio diventava un punto di incontro per credenti in senso religioso e non-credenti (preferibilmente designati come diverso-credenti). Se nei primi mesi sembrava di assistere a scene dal film di Nanni Moretti La messa è finita – con due o tre vecchiette nella grande chiesa deserta – ben presto persone da tutta la città, anzi da tutta la provincia, vi confluivano attratte dallo stile accogliente della piccola comunità nascente e dalle omelie, leggere nel tono ma rigorose e impegnative nei contenuti, del presidente dell’assemblea celebrante. Persone omosessuali, divorziate, ex-preti ed ex-suore… chiunque trovasse chiuse le porte di altre chiese, trovava un sorriso e una mano tesa: un invito a confidare nella comprensione divina e nella solidarietà fraterna e sororale. Intorno alla chiesa fiorirono iniziative di ogni genere: da un centro sociale aconfessionale e apartitico a una trattoria gestita da una cooperativa di giovani, da un’agenzia di viaggi a una gelateria, da una scuola popolare di teatro a mille altre iniziative di cui parlarono giornali e televisioni di varia nazionalità. Non mancarono neppure libri (di o con Cosimo Scordato) che, via via, raccontavano le vicende del “San Saverio” (termine comprensivo di realtà giuridicamente distinte ma operativamente convergenti: la rettoria della chiesa “materiale”; la comunità cristiana e i gruppi ospitati nei locali della chiesa; il centro sociale auto- gestito con le sue diverse articolazioni interne per settori: doposcuola, spazio donne, spazio anziani e così via): da Fare teologia a Palermo. Intervista a don Cosimo Scordato sulla “teologia del risanamento” sull’esperienza del Centro sociale “San Francesco Saverio” all’Albergheria (Augustinus, 1990) a Uscire dal fatalismo. Un’esperienza di pastorale del “risanamento” (Paoline, 1991); da Le formiche della storia. Un itinerario collettivo di liberazione all’Albergheria di Palermo (Cittadella, 1994) a Libertà di parola (Cittadella 2013); da Dalla mafia liberaci o Signore. Quale l’impegno della Chiesa? (Di Girolamo, 2014) a Un Dio simpatico. Sguardo teologico sul contemporaneo (Il pozzo di Giacobbe, 2018).

Con l’autunno del 2019 don Cosimo Scordato, ormai settantenne, si è dimesso da rettore della chiesa di san Francesco Saverio, mantenendo solo la titolarità di una chiesetta vicina (San Giovanni Decollato) che – sorta come una specie di succursale nel medesimo quartiere – negli ultimi anni ha acquisito, grazie a operatori laici come Massimo Messina e la sua squadra di volontari/e, una propria identità autonoma di spazio sociale e culturale poliedrico. Alla festa di compleanno, fra altri ospiti all’insaputa del festeggiato, mons. Nunzio Galantino e Francesco De Gregori. Nessuno prevedeva, e tanto meno si augurava, che il successore “canonico” di don Scordato fosse un suo clone. Ma nessuno prevedeva, e tanto meno si augurava, che la successione avvenisse nel segno della discontinuità. L’arcivescovo don Corrado Lorefice ha nominato un prete quarantenne, incaricato di occuparsi della pastorale giovanile diocesana, non estraneo alle opportunità offerte da Internet e, dunque, propenso a dialogare soprattutto con il mondo universitario. Purtroppo, però, a dispetto di ogni altra possibile affinità, anche in questo caso è emersa la frattura terribile, all’interno della Chiesa cattolica, fra due “paradigmi” inconciliabili. Il nuovo rettore, infatti, è – del tutto legittimamente – interno alla logica ratzingeriana: esponente convinto e battagliero di una chiesa gerarchica, verticale, attentissima al rispetto letterale della “dottrina” e ancor più delle “rubriche” liturgiche, preoccupata di contaminarsi con la mentalità “peccatrice” della modernità “secolarizzata”. In poche parole: interno a quella ecclesiologia pre-conciliare che papa Bergoglio sta tentando di convertire all’originaria ispirazione evangelica.

Ma intanto, a due anni dal pensionamento del “vecchio” rettore, il bilancio del “nuovo” è scoraggiante: i membri della comunità – sorpresi e umiliati da rimproveri («È finita l’epoca del “tu” confidenziale al presbitero: ho studiato cinque anni teologia e non mi giro neppure se non mi si appella con il “Lei”»), sottrazione di responsabilità («Le chiavi di tutti i locali della rettoria sono in mio esclusivo possesso»), azzeramento di fiducia («Non devo certo dare conto ai fedeli delle entrate e delle uscite finanziarie»), pesanti ingerenze sulla prassi liturgica consolidatasi («A messa non possiamo perdere troppo tempo con i canti: la gente ha fretta»), rifiuto di qualsiasi confronto pubblico (nonostante la richiesta della comunità e dello stesso arcivescovo) – si sono via via assentati all’appuntamento domenicale, disperdendosi in altre chiese o abbandonando la partecipazione alle celebrazioni eucaristiche.

La vicenda non meriterebbe particolare attenzione se non avesse valenza simbolica, quasi a mo’ di metafora: paradossalmente spetta a vescovi, presbiteri e fedeli laici – oggi al di là della soglia dei settant’anni che si sono formati ai tempi del Concilio Vaticano II – criticare il clericalismo difeso, e praticato, da generazioni più giovani di trent’anni, formatisi nel clima controriformistico di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.

Sappiamo tutti – tranne quanti si lasciano accecare volontariamente dalle illusioni – che ogni esperienza umana, specie se bella e autentica, implica una data inesorabile di scadenza. Ma per le comunità come per gli individui c’è modo e modo di morire. Quando è il pastore a disperdere il gregge – soprattutto perché le pecore non vogliono restare pecore – il rammarico e l’amarezza sono più gravi di quando la responsabilità ricade su lupi estranei e nemici.

Per il presente c’è poco da fare: ogni vescovo deve accontentarsi di fare il pane con la farina a disposizione (anche se resta un po’ strano constatare che diversi preti conservatori e tradizionalisti smettono di essere tali solo quando si tratta di obbedire ai pastori: sono, insomma, sì difensori del principio di autorità, ma a intermittenza). Non così per il futuro: se candidati al presbiterato dimostrano di non avere l’elasticità psicologica per rapportarsi alla pluralità dei fedeli (e manifestano la presunzione di voler insegnare come vivere a persone che hanno il doppio dell’età anagrafica e della saggezza acquisita), pur in regime di penuria di “vocazioni”, non andrebbero ordinati. Si potrebbe aggiungere che, una volta ordinati presbiteri (o presbitere!), dovrebbero essere incaricati/ e di guidare solo comunità che, avendoli/e conosciuti/e per un periodo sperimentale, ne condividessero la mentalità teologica e lo stile pastorale (come avviene in molte chiese sorelle di confessione evangelica). Ma qui si aprirebbe tutto un altro discorso.

Augusto Cavadi*

Filosofo e saggista, Augusto Cavadi dirige a Palermo la “Casa dell’equità e della bellezza” (www.augustocavadi.com)  

tratto da Adista Segni Nuovi: n° 40 del 13/11/2021.

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