LA CULTURA DEL PARADOSSO E LA DOPPIA FEDELTA’

Dostoevskij e Italo Mancini

Antonio Greco

Fëdor Dostoevskij1: l’11 novembre avrebbe compiuto 200 anni. Ma è ancora vivo e attuale. La critica letteraria ha sottolineato nei suoi romanzi la passione per la bellezza; la critica filosofica la sua passione per l’uomo; la critica teologica un modo particolare di amare Dio; la critica politica il suo grande interesse per la radice di qualsiasi potere. La lettura dei suoi romanzi ci fa sperare e apre uno squarcio sul futuro di questo nostro grigio presente.

Siamo interessati a rileggere una pagina di letteratura mondiale, La leggenda del Grande Inquisitore, perché ci svela la ricerca interiore che noi stessi, forse a nostra insaputa, stiamo facendo e perché non finisce mai di inquietarci il gioioso dramma del rapporto tra la nostra libertà e il potere politico. Lo facciamo aiutati da Italo Mancini2 e da Franco Cassano3. Queste non sono le due sole interpretazioni. É lunghissimo l’elenco di coloro che in modo anche magistrale si sono cimentati con questa pagina “eterna”. Non serve che lo dica io: basta vedere non solo la quantità, ma anche la qualità delle interpretazioni letterarie, teatrali e cinematografiche in proposito. La ragione di questo interesse è la forza con la quale vengono sollevate alcune questioni fondamentali dell’esistere. (I GRANDI INQUISITORI DI OGGI, Dostoevskij e Franco Cassano sarà pubblicato nei prossimi giorni)

Di Dostoevskij letterato ho avuto una conoscenza-infarinatura scolastica e universitaria fino agli inizi degli anni ’80. Ho un debito di riconoscenza a don Italo Mancini per avermi introdotto alla conoscenza del pensiero cristiano di Dostoevskij e per aver collegato questo pensiero ai modi e alle forme in cui viene vissuto nel tempo, particolarmente dopo il concilio Vaticano II, il cristianesimo nella chiesa italiana. “Di forme cristiane se ne incontrano almeno tre, e tutte hanno alle spalle travagliate storie di pensiero e di azione; fra loro non sono sempre conciliabili, e la mia scelta, la più scomoda, cade sulla forma detta cristianesimo del paradosso, accanto o di fronte o contro, la forma del cristianesimo della presenza, la più aperta alla cultura mondana, e quella, più alta e quasi agostiniana, detta cristianesimo della mediazione, che suppone il riconoscimento della dignità dell’ideologia e la lettura della analogicità delle verità eterne4, sosteneva Mancini.

Nel lontano 2 aprile 1982 don Italo Mancini era a Brindisi per tenere una lezione la mattina al clero diocesano e il pomeriggio ad esponenti della pastorale giovanile. A quest’ultimi tenne una lezione sul tema: “Cultura giovanile e prospettive pastorali5. Precisò subito che per lui il termine “pastorale” significava, per un cristiano, “il modo di vivere insieme agli altri”. Erano i tempi di una aspra contrapposizione tra i sostenitori della cultura della presenza (Comunione e Liberazione) e quelli della cultura della mediazione (Azione Cattolica Italiana). La lezione di don Italo fu una sorpresa per molti. Dopo aver esposto in modo rigoroso e affascinante gli aspetti positivi e i forti limiti della cultura della presenza e della mediazione (sia pur con differente grado di severità e di distanza tra le due), propose una terza via: la cultura del paradosso, come la forma di cristianesimo più evangelica e conciliare. E concluse la sua lezione magistrale con un invito ai giovani presenti di prendere il romanzo “I fratelli Karamazov” di Dostoevski e rileggere la Leggenda del Grande Inquisitore.

Il Romanzo “I fratelli Karamazov”

É l’ultimo romanzo di Dostoevski, scritto un anno prima di morire.

Si contrappongono l’odio tra padre e figli e la purezza e la fede di una creatura innocente.

Fiodor Karamazov ha tre figli: Dmitrij, Ivan e Alëša. Ha anche un figlio illegittimo, l’epilettico Smerdjalov, che tiene in casa come un servo. Fiodor è un vecchio libertino cinico e dissoluto, poco amato dai figli. Dmitrij, detto Mitja, lo odia perché è innamorato di Gruscenka, una bella mantenuta che il vecchio grazie al suo denaro vuole fare sua. Ivan invece è un raffinato intellettuale e filosofo dell’ateismo. Il più giovane Alioscia è novizio nel convento di padre Zosima, che lo guida sulla via della perfezione spirituale, ma lo obbliga a ritornare nel mondo che ha bisogno della sua carità cristiana.

Il vecchio padre Karamazov, buffone e malvagio per i tre figli, viene trovato ucciso. Tutti i sospetti cadono su Mitja, difeso solo dalla generosa Gruscenka. Anche Ivan crede nella colpevolezza del fratello, fino al giorno in cui Smerdjakov gli confessa di essere lui l’assassino, plagiato dalle teorie atee dello stesso Ivan, che sostiene che “se dio non esiste tutto è possibile”.

Subito dopo la confessione, Smerdjakov si impicca. Ivan non può provare al processo la verità delle sue rivelazioni. Mitja viene condannato ai lavori forzati. Ivan cade in preda al delirio intellettuale.

Alëša con la sua purezza, purtroppo senza poter far niente, guida un gruppo di ragazzi raccolti in fraterna solidarietà, verso una vita migliore.

Questa, in sintesi, la trama del romanzo.

La leggenda del Grande Inquisitore: un racconto in tre atti.

Siamo nel quinto capitolo della seconda parte de «I fratelli Karamazov» di Dostoevskij.

Il nichilismo di Ivan

Sono in una bettola e, tra rumori di bicchieri e di piatti, Ivan e Alëša parlano di Dio. Lo spunto è dato dalla cronaca riportata dai giornali e, in particolare, ricorrendo a cruenti, efferati fatti di cronaca, Ivàn realizza una galleria degli orrori su bambini, di cui si serve per giungere ad un interrogativo: “perché tanto dolore innocente, perché hanno fatto questo a degli innocenti, dio perché?”. E con forza incalzante, a partire dallo scandalo del male fatto a un bambino, pone il problema filosofico di Dio e del senso del mondo.

Di fronte al male alcuni filosofi6 chiamavano in causa Dio secondo le quattro alternative che sono diventate classiche: “O Dio vuole eliminare i mali e non può” e in tal caso sarebbe “impotente”, “cosa incompatibile con Dio”; “o può e non vuole” e sarebbe “malvagio”, “cosa da escludere per un Dio”, “o non può e neppure vuole”, “cosa che lo renderebbe meschino”; “o vuole e può ma non lo fa” “cosa che lo renderebbe un folle”.

Il male c’è nel mondo. Impossibile negarlo. Ed è scandaloso perché c’è Dio, sostiene Ivan. L’unica via saggia d’uscita per questo problema è la mossa filosofica dell’ateismo e del nichilismo: questo mondo, così pieno di male, senza Dio è più sopportabile: “Preferisco che le sofferenze rimangano invendicate. Rimarrei piuttosto con il mio dolore invendicato e con il mio sdegno insaziato, anche se avessi torto! Troppo poi si è esagerato il valore di quell’armonia, l’ingresso costa troppo caro per le nostre tasche. E, perciò, mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso. E, se sono un galantuomo, ho l’obbligo di restituirlo il prima possibile. E così faccio. Non è che non accetti Dio, Alëša, ma Gli restituisco nel modo più rispettoso il mio biglietto».

«Questa è ribellione», disse Alëša sommessamente e a capo chino.

«Ribellione? Non avrei voluto sentire una parola simile da te», replicò Ivan con ardore. «È impossibile vivere nella ribellione, mentre io voglio vivere. Dimmelo tu, ti sfido, rispondimi: immagina che tocchi a te innalzare l’edificio del destino umano allo scopo finale di rendere gli uomini felici e di dare loro pace e tranquillità, ma immagina pure che per far questo sia necessario e inevitabile torturare almeno un piccolo esserino, ecco, proprio quella bambina che si batteva il petto con il pugno, immagina che l’edificio debba fondarsi sulle lacrime invendicate di quella bambina – accetteresti di essere l’architetto a queste condizioni? Su, dimmelo e non mentire!»

«No, non accetterei», disse Alëša sommessamente.

«No, non posso accettare questa idea. Fratello», prese a dire Alëša all’improvviso con gli occhi che brillavano, «hai appena detto: c’è in tutto il mondo un essere che possa e abbia il diritto di perdonare tutto? Ma quell’essere esiste, e può perdonare tutto, tutto, qualunque peccato si sia commesso, perché egli stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto. Ti sei dimenticato di lui

«Ah, parli dell'”Unico senza peccato” e del sangue suo! No, non l’ho dimenticato, … Lo sai, Alëša, non ridere, ma io ho composto un poema, circa un anno fa. Se tu potessi perdere insieme a me ancora una decina di minuti, te lo racconterei, puoi?»

«Tu hai scritto un poema?»

«Il mio poema s’intitola “Il Grande Inquisitore”: è una cosa un po’ assurda, ma voglio raccontartela».

E inizia a raccontare.

La leggenda

La scena iniziale è quella di una piazza della Siviglia del XVI secolo ai tempi dell’Inquisizione, in un’estate infuocata, in cui anche le notti, attraversate dall’odore del lauro e del limone, non concedono respiro. In quella stessa piazza, il giorno prima, erano stati bruciati, su ordine dell’Inquisizione, più di cento eretici. In quella piazza si aggira una folla misera, che affronta la sua sofferenza e che non ha mai cessato di attendere che sia realizzato il messaggio di Cristo povero, pur avendo trascorso nell’attesa di quella nuova incarnazione ben quindici secoli. Ma proprio in quel giorno Cristo ritorna mescolato fra la folla. Questa lo riconosce e gli chiede miracoli. Cristo prima dà la vista a un cieco e poi riporta in vita una bimba di sette anni morta. Ma in questo momento entra in scena il Grande Inquisitore, un vecchio di quasi novant’anni. Riconosce Cristo e dà ordine di portarlo in prigione. La folla, intimorita e ormai abituata a obbedire, lascia passare le guardie che arrestano il Cristo. É proprio al culmine di questa sivigliana notte senza respiro che il Grande Inquisitore si reca a far visita al suo prigioniero.

Il processo a Gesù e il suo silenzio

Nel processo a Gesù, che l’ateo Ivan Karamazov va immaginando, l’accusatore è il Grande Inquisitore, l’imputato è Gesù.

Durante tutto il suo lungo discorso il cardinale Inquisitore si rivolgerà a Cristo con il tu, ma non farà mai il suo nome, così come Cristo non replicherà mai al monologo del suo interlocutore. É questo straordinario e sorprendente rovesciamento dei ruoli a rendere fosca e angosciosa la notte: Cristo è prigioniero non di un potere avverso od estraneo alla religione cristiana, ma di un prelato che deriva la propria autorità dalla sua predicazione, dalla verità in essa rivelata. Cristo ha quindi sbagliato.

É soprattutto sulla concezione della fede proposta da Cristo nei Vangeli che l’inquisitore ha un rimprovero durissimo da muovere: consegnando la fede ad un atto di libertà, Cristo ha proposto agli uomini un compito del tutto superiore alle loro forze. Gli uomini, dice il vecchio prelato, non sono fatti per la libertà perché non ne sono all’altezza.

Per dimostrare l’astrattezza velleitaria di una fede fondata sulla libertà l’inquisitore ricorda a Cristo le tre tentazioni che Satana gli aveva proposto durante il suo soggiorno nel deserto: quella della conversione delle pietre in pane, quella di tuffarsi nel vuoto per far sì che gli angeli accorressero in volo per salvarlo, e infine quella dell’offerta del potere del dominio sul mondo. Ebbene Cristo, ricorda l’inquisitore, aveva rifiutato tutte le tentazioni perché aveva ritenuto che cedere ad esse avrebbe significato conquistare gli uomini, non sollecitarli alla libera scelta della fede, usare una forma di potere e non rivolgersi alla loro coscienza. Quel rifiuto delle tentazioni indicava agli uomini una via verso la fede molto esigente, non facilitata dal tessuto del prodigio dei miracoli, una via legata al possesso di una grande e coraggiosa spinta spirituale. Ebbene, questa concezione alta ed esigente della fede, ribadisce l’inquisitore, del tutto sproporzionata rispetto alla reale capacità dell’uomo. La fede richiesta da Cristo è in realtà rivolta solo ad una minoranza di essi, a «dodicimila per ciascuna generazione», quelli capaci di sopportare «decine d’anni di affamato e nudo deserto, nutrendosi di locuste e di radici». Ma questi uomini «più che uomini afferma con brutalità il vecchio, erano Iddii».

Noi, afferma l’inquisitore (e qui il riferimento alla chiesa e a quella cattolica storica romana è ovvio), ci siamo preoccupati non di costoro, di questi eletti, di questi uomini dalle doti spirituali superiori, ma di tutti gli altri, di quelli che non sono dotati delle loro capacità, ci siamo preoccupati della stragrande maggioranza degli uomini. Il ruolo della Chiesa in questa rappresentazione nasce da una visione dura e spietata dell’uomo, da una ricognizione delle sue debolezze, dalla convinzione che egli sia incapace di vivere con la libertà. Dalla libertà, sostiene l’inquisitore, l’uomo ricava solo incertezza, cerca beni diversi, vuole sicurezza, certezze a cui appoggiarsi; vuole «il miracolo, il mistero e l’autorità», esattamente quei beni che Cristo ha rifiutato nel deserto; vuole il pane terreno e non quello celeste, «va in cerca non tanto di Dio quanto dei miracoli». «Libertà e pane terreno a sufficienza per ciascuno non sono concepibili insieme, poiché giammai, giammai-afferma con infinito cinismo il vecchio- non sapranno farsi le giuste parti fra loro», visto che gli uomini «non potranno mai essere liberi perché sono deboli, pieni di vizi, inconsistenti e sediziosi».

Cristo ha quindi sbagliato. “Tu, lo rimprovera il vecchio, non volesti asservire l’uomo col miracolo, e bramavi una fede libera, (…) e non già le servili effusioni dello schiavo al cospetto del potente, che una volta per sempre lo ha terrorizzato”. E così facendo hai “giudicato troppo altamente gli uomini che, in fin dei conti, sono degli schiavi, seppure con la costituzione del ribelle”. La Chiesa non ha fatto altro che partire da questo limite, dal disegno di colmare questo vuoto, e ha provveduto a colmarlo. Essa ha restaurato la forza del mistero, del miracolo e dell’autorità, dice il grande vecchio inquisitore. Così facendo essa li ha «liberati dal grave affanno e dai tremendi tormenti che accompagnano ora la decisione libera e personale». Certo, si tratta di un inganno, e sulla chiesa pesa il compito di serbare questo segreto, ma essa è sostenuta dalla consapevolezza di averlo fatto per la felicità degli uomini e su loro richiesta.

Anch’io ti avevo seguito, dice il vecchio, ma poi «mi sono allontanato dagli orgogliosi e sono tornato fra gli umili per la felicità di questi umili. Quello che ti dico, si avvererà e il nostro regno sarà edificato. Te lo ripeto: domani vedrai il docile gregge che a un mio piccolo cenno si lancerà ad ammucchiare carboni ardenti al rogo sul quale ti farò bruciare per essere venuto a disturbarci. Perché se mai c’è stato qualcuno che meritasse più di tutti il nostro rogo, quello sei tu. Domani ti farò bruciare. Dixi“».

«Ma questa… questa è un’assurdità!», gridò Alëša arrossendo. «Il tuo poema è un inno di lode a Gesù, non una denigrazione… come volevi che fosse. E chi ti crede, quando parli della libertà? È forse questo, questo il modo di intenderla? Non è questa la concezione che ne ha la Chiesa ortodossa… Quella è Roma e neppure l’intera Roma, è la parte peggiore del cattolicesimo, gli inquisitori, i gesuiti!… (…) «Il tuo inquisitore non crede in Dio, ecco in che consiste tutto il suo segreto!»

Il bacio, tra accusa e silenzio

«Come va a finire il tuo poema?», gli domandò poi all’improvviso Alëša con lo sguardo basso, «o è finito così?»

«Vorrei dargli questa conclusione: quando l’inquisitore termina di parlare, aspetta per un po’ di tempo che il prigioniero gli risponda. Gli pesa il silenzio di lui. Egli si è accorto di come il carcerato lo abbia ascoltato con attenzione, tranquillamente, guardandolo dritto negli occhi e, evidentemente, senza alcuna intenzione di replicare. Il vecchio avrebbe voluto che quello gli dicesse qualcosa, per quanto amara e tremenda potesse essere. Egli invece si avvicina lentamente al vecchio e lo bacia piano sulle esangui labbra di novantenne. Ecco, è questa tutta la sua risposta. Il vecchio sussulta. Un leggero fremito gli contrae gli angoli della bocca, egli va alla porta, la apre e gli dice: “Va’ via e non tornare più… non tornare più… mai, mai più!” E lo lascia andare “nelle scure piazze della città”. Il prigioniero scompare».

«E il vecchio?»

«Il bacio gli brucia nel cuore, ma il vecchio rimane fedele alla sua idea».

«E tu insieme a lui, vero?», esclamò Alëša con accento addolorato. Ivan scoppiò a ridere.

Le tante domande sulla Leggenda

Il testo della Leggenda di Dostoevskij è attraente, magnifico e attuale. Affascina ma anche spaventa.

Queste pagine non cessano di porre domande.

Dostoevskij, l’autore, da quale parte sta? Dalla parte del Grande Inquisitore o dalla parte del silenzioso Cristo? (nel colloquio tra i due è vero che il Cristo rimane silenzioso ma spesso ci si dimentica che nella leggenda due parole escono dalla sua bocca e sono: “Talità kum7: ragazzina alzati in piedi). Quale significato dà l’Inquisitore al bacio di Cristo? Se il vecchio rimane fedele alla sua idea, vuol dire che il bacio del Cristo non incide sulla sua scelta di bruciarlo o di liberarlo dopo avergli detto di non tornare più?

Alle domande seguono le certezze: il nichilismo di Ivan, il suo “se Dio non c’è, tutto è permesso” perché non c’è più né il bene e né il male, non è solo teoria o puro filosofare. Sarà questa visione a influenzare il figlio Smerdjalov e a spingerlo all’omicidio del padre malvagio proprio perché tutto è permesso.

Il Grande Inquisitore dà voce a questa opinione che felicità e libertà non siano compatibili. O l’una o l’altra. É il dramma della libertà, del dover continuamente scegliere. E il mondo, regolato da una ratio economica, dove tutto è incanalato verso la felicità degli uomini, deve pagare il prezzo altissimo di rinunciare alla libertà.

La interpretazione di Italo Mancini

La lettura della Leggenda fatta da Mancini ha un forte e originale sapore teologico. Già nella relazione tenuta a Brindisi nel 1982 affermava: ”Ecco il dramma del cristianesimo. Sono tutte e due vere le figure, perché anche il domenicano portava una sua verità, che è il nostro stare all’interno della storia. Però almeno come agonia dell’animo, dobbiamo sentire che quello che è stato detto, che viene detto, che viene fatto, non è pari all’amore straordinario, sconvolgente, ermeneuticamente violento dell’amore di Cristo8.

In un testo del 1989, “Tornino i volti9, in un modo più sistematico e arricchito, Italo Mancini riprende la lezione fatta a Brindisi anni prima e chiarisce il suo inserimento della Leggenda e del pensiero di Dostoevskij nella “cultura del paradosso”.

Chiamatelo come volete, cristianesimo evangelico, paradossale, agonico, terribile, tragico, radicale, impossibile dal punto di vista umano, e non è facile avere un nome espressivo di tutto, anche se non è difficile individuare una forma minoritaria e spesso ghettizzata che lo attraversa da capo a fondo, ma ricordate che senza questa radicalità che ripresenti l’inaudito e lo straordinario non sorgerà un nuovo risveglio del senso”10.

E fa un lungo elenco di esempi di un cristianesimo radicale, cioè ripreso alle sue radici, in pagine ricche di riferimenti ma davvero molto intense e altamente suggestive.

Quel cristianesimo che la lettera a Diogneto chiama “paradossale”, diverso dal modo comune di pensare…

Quel cristianesimo che il testamento di Francesco di Assisi chiama vivere secondo la forma Evangelii …

Quel cristianesimo che Pascal chiama agonico …

Quel cristianesimo che il giovane Lukàcs di L’anima e le forme diceva tragico …

Quel cristianesimo che Manzoni (…) sviluppa nel mutismo di Dio …

E prima di concludere con, “quel cristianesimo che Karl Barth (…) ha inteso come “infinita differenza qualitativa”… Mancini fa riferimento anche a “quel cristianesimo che Dostoevskij esprime con la sua logica dei doppi pensieri, per cui sembra costitutivo quello che Lev Tolstoj scriveva alla cugina Tolstoja: fede e incredulità si agitano nella mia anima come il cane il gatto dentro uno sgabuzzino. Il cristianesimo della leggenda del Grande Inquisitore per cui quello che fu l’originario messaggio di Gesù, vincitore della tentazione di ridurre tutto alla questione del pane, alla pretesa miracolistica, e alla questione della potenza, sembra che non possa essere vissuta (parola del Vecchio Inquisitore!) da una chiesa che intende stare in mezzo alla gente e vuole il suo consenso, come pure deve, onde di nuovo una logica dei doppi pensieri, tanto è vero che il Gesù ritornato sulla terra, e sentito Dio dal cuore della gente, bacia sulle labbra esangui l’ottantenne vegliardo che intanto sussurra convinto: domani manderò al rogo anche te”11.

Si pensi all’«immane potenza del negativo» che configura il senso dialettico proprio di Hegel e si vedrà come ha ancora ragione Dostoevskij nel non potere e non volere ridurre e conciliare la triplice essenza dell’essere Karamazov, «l’essere lussurioso di Mitja, l’essere cerebrale di Ivàn e quello innocente di Alësa. Le spaccature passano dentro ogni uomo non avranno mai Aufhebung (n.d.r.: abrogazione, cancellazione) che tenga: la opposizione reale non si lascia mangiare”12.

Chi ha letto e soggiornato con Dostoevskij non potrà essere dialettico”, conclude Italo Mancini per escludere la cultura della presenza e quella mediazione che hanno portato la chiesa italiana a un sonno profondo.

La chiesa Italiana ha fatto in fretta a dimenticare Italo Mancini, un uomo, un cristiano radicale, un intellettuale che ha posto la questione cruciale per il cristianesimo italiano ed europeo: istituire un rapporto credibile e fedele tra la fede e il mondo diventato adulto, mediante una doppia fedeltà, o come direbbe Dostoevskij, “una logica dei doppi pensieri”.

1 Fëdor Dostoevskij: Mosca 1821-San Pietroburgo 1881.

2 Italo Mancini è stato un presbitero, filosofo, teologo, storico della filosofia e accademico italiano. É nato a Schieti il 4 marzo 1925 ed è morto a Urbino il 7 gennaio 1993. 30 sono le sue pubblicazioni e 10 le sue opere postume.

3 Franco Cassano: è stato un sociologo e politico italiano. Professore ordinario di Sociologia e Sociologia dei Processi culturali e comunicativi all’Università degli Studi di Bari, all’attività accademica affianca quella di saggista ed editorialista. É il teorico del “pensiero meridiano”. É nato ad Ancona il 3 dicembre 1943 ed è morto a Bari il 23 febbraio 2021.

4 Italo Mancini, Tornino i volti, Marietti, 1989, pag. X.

5 La relazione dattiloscritta, non rivista dall’autore, nell’ Archivio per l’Alternativa “Michele Di Schiena” a Brindisi.

6 Fu in particolare Pierre Bayle (1647-1707), filosofo e scrittore francese, prima protestante, poi cattolico, poi di nuovo protestante a dare ampia diffusione alla problematica secondo le quattro alternative, già utilizzate da Lattanzio (sec. IV-V d.C.) contro gli epicurei, attraverso il suo Dizionario storico-critico, che nelle sue cinque edizioni fu letto e studiato in tutta Europa.

7 Mc. 5, 41.

8 “Cultura giovanile e prospettive pastorali”, Dattiloscritto, 2 aprile 1982, pag. 20.

9 Op. cit.

10 Op. cit., pag. 39.

11 Op. cit. pagg. 37-39.

12 Op. cit. pagg.18-19.

Pubblicità

One Reply to “LA CULTURA DEL PARADOSSO E LA DOPPIA FEDELTA’”

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: