FEDE E SEQUELA

Quella che riportiamo di seguito è la corposa relazione con cui il teologo Josè Maria Castillo ha ricordato il vescovo Alberto Iniesta scomparso nel 2016, nel corso di un convegno a lui dedicato e  svoltosi a Madrid nel marzo scorso. Castillo prende spunto dall’esperienza di Iniesta per rilanciare la necessità di una chiesa rinnovata.

LA CHIESA CHE VOGLIAMO E DI CUI ABBIAMO BISOGNO

Ricordo di Alberto Iniesta

José M. Castillo

Ricordiamo qui Alberto Iniesta. E la chiesa che egli volle e di cui noi abbiamo bisogno. Ma questo ricordo sarà riuscito, se teniamo presente che ricordiamo Alberto e la sua gestione come vescovo di Vallecas mentre stiamo vivendo “una crisi” e un “imbroglio”. E facciamo questo ricordo mentre ci rendiamo conto che la crisi sta diminuendo, però l’imbroglio non diminuisce.

Inoltre, la cosa peggiore è che non pochi dei nostri vescovi danno l’impressione che o non si rendono conto dell’imbroglio che stiamo tollerando; o (il che sarebbe più grave) se ne rendono conto, ma, ben oltre alcune esortazioni superficiali e generiche, con le quali alcuni prelati affrontano un argomento di tanta gravità, la preoccupazione apostolica di tali pastori – almeno per quel che dicono – sembra che si concentri sui temi sui quali pongono la maggiore enfasi: il sesso, l’identità di genere, l’omofobia, i potere ed i privilegi della chiesa, sebbene queste cose non si dicano mai così, come sono e come suonano.

1. Alberto Iniesta

Alberto Iniesta è stato, senza dubbio nè esagerazione, uno degli uomini più esemplari che abbiamo avuto in Spagna, nella nostra storia recente del XX secolo. Il suo progetto dell’Assemblea di Vallecas, nel marzo del 1975, quando stava agonizando la dittatura franchista nel nostro paese, fu una intuizione che anticipò i sogni della democrazia, che, con dubbi e indecisioni, i politici e i chierici di quegli anni gestirono, nella transizione che sfociò nella Costituzione del 78.

Detto in poche parole, l’Assemblea di Vallecas fu, non solo un “progetto di Chiesa”. Ma oltre questo, fu un “progetto di società”. Una società nella quale il popolo prende la parola. E prende soprattutto la capacità di decidere. Per risolvere i problemi più gravi che riguardano tutti i cittadini. Soprattutto, i problemi che ci impediscono di essere cittadini liberi, che vivono in una società ugualitaria e giusta.

Conobbi Alberto Iniesta nell’Aprile del del 1971. In quell’aprile, prima dell’ “Assemblea Congiunta Vescovi-Sacerdoti”, si celebrò a Ginevra un Incontro dei Consigli Presbiterali d’Europa, al quale parteciparono più di duecento sacerdoti. La rappresentanza spagnola, presieduta dall’allora vescovo di Malaga, Angel Suquìa, era composta da un gruppo di sacerdoti, tra i quali c’eravamo Alberto Iniesta e io.

E precisamente a Iniesta e a me si diede l’incarico di presentare la relazione sulla chiesa di cui avevamo bisogno. Un lavoro che dovemmo fare in pochi giorni. Fu allora che rimasi impressionato dalla genialità, umanità e dalla profonda spiritualità di Alberto Iniesta. Un uomo che voleva solo il bene della Chiesa, per il bene della società.

Stando così le cose, ciò che più mi impressionò nella mie molte ore di convivenza e conversazione con Alberto Iniesta, a Madrid, a Ginevra, nell’ottobre 1971 (a Roma), nel Sinodo Mondiale dei vescovi, il cui tema fu il “sacerdozio” e “la giustizia nel mondo”, ciò che più mi impressionò –ripeto – fu la convinzione più ferma, che aveva Alberto Iniesta: la chiesa ha bisogno, in modo impellente, di una riforma di fondo, non si tratta di una “riforma dottrinale”, ma piuttosto di una “riforma di vita”, nella “gestione del governo”, e nella “partecipazione del popolo” nella assunzione di decisioni.

Come c’era da attendersi – e da temere – nè il sistema religioso del Vaticano, nè il sistema politico di Franco, potevano permettere la impostazione pastorale, partecipativa e democratica di Iniesta. Di conseguenza, accadde ciò che era da temere. All’ultima ora, alla vigilia dalla Assemblea di Vallecas, da Roma venne la proibizione di dare alla chiesa quella nuova svolta, che era il primo passo di una riforma e un rinnovamento a fondo, non solo della chiesa, ma piuttosto persino della società.

Inoltre, tutto quello si eseguì nella maniera più tagliente e (io aggiungerei anche) più crudele in cui si poteva eseguire. Alberto Iniesta fu chiamato urgentemente a Roma. E – per quanto dopo si potè sapere -, a Iniesta, non solo si proibì, in forma ultimativa, la celebrazione dell’Assemblea, ma piuttosto il buon Alberto fu ( e si sentì) offeso e umiliato dal Cardinal Prefetto della Congregazione dei Vescovi. Offeso e umiliato fino al punto di vedersi affondato e reso incapace, per anni, in un monastero cistercence, dove si ritirò per affrontare una profonda depressione. Finchè ormai, in età di pensionamento, ritorno alla sua diocesi di origine, Albacete, per terminare i suoi giorni in pace, studio e preghiera.

2. La chiesa di cui abbiamo bisogno: torniamo alle origini.

Che chiesa volle Alberto Iniesta? Perchè la chiesa che volle Alberto Iniesta, risultò essere intollerabile, assolutamente inaccetabile, per il sistema politico della dittatura e per il sistema religioso del Vaticano?

La risposta facile, convenzionale, che hanno queste domande, è conosciuta. Ed è, per questo, la risposta che sempre diamo. La chiesa, che si cercava mediante la Assemblea de Vallecas, nel marzo del 1975, non era adatta, non potè essere adatta o andar bene al regime dittatoriale del franchismo, nè al Codice di Diritto Canonico della Chiesa cattolica. Per questo quel tentativo ebbe la fine che ebbe. L’insuccesso di un progetto che molti rimpiangiamo.

È possibile in questo momento tornare a tentarlo? Si deve farlo. Ma c’è bisogno di tempo e pazienza. Dopo 30 anni, bloccando il rinnovamento che iniziò col Vaticano II, la chiesa sta vivendo una situazione di sconcerto.

Perchè questo sconcerto? Quando abbiamo un papa, Francesco, che vuole liberare il papato dalla pompa e dalla ieraticità che mai volle Gesù, la ostentazione e la menzogna che il Vangelo condanna, in questa situazione, un settore preciso dell’episcopato, invece di rallegrarsi e unirsi al papa Francesco, ciò che stanno facendo coloro che si sono legati a questo settore dei cardinali, vescovi e chierici, è porre difficoltà al papa. E così, aumentare lo sconcerto in determinati settori della chiesa.

Che fare, stando così le cose? Andremo direttamente all’origine. E alla cosa più originale della Chiesa. Tutto cominciò, come sappiamo, con l’annuncio, che realizzò Gesù, della “Buona Novella”, cioè, la venuta del Regno di Dio (2). É vero che chi fondò e governò le prime “assemblee” cristiane (“ekklesiai”) fu Paolo. Ma anche è vero che, se Paolo potè fondare e governare quelle “chiese”, lo fece perchè prima di lui e della sua esperienza sulla via di Damasco, era esistito Gesù di Nazareth, il suo messaggio, la sua forma di vita e la sua morte in croce.

3. La “fede” e la “sequela”

Se si analizza chiaramente l’origine primitiva della chiesa, ciò che richiama l’attenzione, in questo processo incipiente di “fondazione” della chiesa, c’è che i vangeli (specialmente i sinottici) non pongono al centro di questa origine primitiva della Chiesa, la “fede” (“pistis”, pisteuo”) dei discepoli di Gesù, ma piuttosto la “sequela” (“akolouteo”) che quei discepoli accettarono per condividere la loro vita con la vita che fece Gesù. Basti pensare che, nei vangeli sinottici, mentre la fede si elogia 36 volte, della sequela di Gesù si parla 56 volte. Cioè, la “sequela” compare 20 volte più della “fede”.

Ma l’importante non è la quantità di volte che si menziona la fede o la sequela. La cosa eloquente, in questa questione capitale, è il significato rilevante che i racconti evangelici danno alla sequela di Gesù. E ciò che quella sequela rappresenta nella vita. In effetti, secondo i sinottici, quando Gesù iniziò a riunire il primo gruppo dei discepoli e le prime moltitudini di gente, che andavano con lui e lo ascoltavano, in nessun racconto si dice che Gesù li proponesse il tema della fede, come domanda, come esigenza, come condizione per stare con lui, per vivere il progetto che egli presentava loro. E ancor meno. In nessuna parte i vangeli dicono che la fede fosse la condizione per stare con Gesù e per essere suo discepolo.

Ciò necessita di qualche spiegazione. Nei vangeli sinottici, si parla della fede nei racconti di guarigione, quando Gesù risolve le situazioni di sofferenza degli infermi o delle persone escluse. A queste persone, Gesù dice sempre la stessa cosa; “la tua fede ti ha salvato”, cioè, “la tua fede ti ha guarito”. É la fede-fiducia, la fede che coloro che si fidano di Gesù, vedendo in lui la soluzione della sofferenza di questo mondo. Ed è importante rendersi conto che è proprio così, secondo i vangeli, anche nel caso di persone che, senza dubbio, avevano altre religioni e altre credenze, come accedde con il centurione romano (Mt 8,5,13 par), con la guarigione della donna cananea (Mc 7,24-30 par) e nella guarigione del lebbroso galileo (Lc 17,11-19) (3).

Tuttavia – e in contrasto con ciò che ho appena indicato – ciò che la teologia non ha tenuto debitamente in conto è che, quando i vangeli affrontano il problema fondamentale di coloro che possono o non possono stare con Gesù, la soluzione della risposta a questo problema è la sequela di Gesù, tanto per i “discepoli” (Mc 1,16-20; Mt 4,12,17; Lc 4,14-15), come per il “popolo” (“òchlos”) (Mt 4,25; 8,1). Per questo, la prima cosa che fece Gesù fu chiamare i discepoli alla sequela (Mc 1,16-20; Mt 4, 12-17; Lc 5,11; cf Gv 1, 37-43). Gesù non iniziò con chiedere a quegli uomini una “professione di fede” o la accettazione di un “credo”. No. La prima cosa fu una parola: “seguimi”.

Orbene, se questo è effettivamente così, resta chiaro ciò che con tanta lucidità disse Juan Bautista Metz: “Solo seguendo Cristo i cristiani sanno di chi si sono fidati e chi li salva”. Il che, a sua volta, significa qualcosa che è molto più forte. “Il sapere cristologico non si costiuisce nè si trasmette primariamente mediante concetti, ma piuttosto con il racconto della sequela”(4).

Ciò significa qualcosa che sicuramente giammai abbiamo pensato: Gesù e il suo Vangelo, non lo conosciamo – nè ci relazioniamo con lui – per mezzo di credenze o atti religiosi, ma piuttosto seguendo Gesù. Cioè, Gesù lo conosciamo nella misura in cui abbandoniamo tutto ciò che sia necessario abbandonare, per poter condividere la forma di vivere, le convinzioni e il progetto di vita di Gesù. Basti ricordare che, secondo i vangeli, Gesù pronuncia solo una parola: “Seguimi” (“akolouthei moi”) (Mc 2,14 par).

Questo è tutto (Bonhoeffer). É ciò che disse Gesù a un “pubblicano”, un peccatore, uno uomo dalla vita scandalosa. Un uomo al quale Gesù non chiese se “credeva” o “non credeva”. Nè “in cosa credeva”. Nè se “si pentiva” della sua vita cattiva. A Gesù, a quanto pare, non interessava nulla di ciò che tanto è solito interessare ai confessori, ai predicatori.

Ma cè di più. Quando Gesù chiama qualcuno perchè lo segua, Gesù non propone “per che cosa” chiama, nè presenta un determinato “progetto”, un “ideale”, un “programma” di vita, alcune “condizioni” (5). Anche qualcosa di più forte: secondo i racconti delle chiamate alla “sequela” (Mt 8, 21-22; Lc 9, 59-60; Mc 10, 17-22; Mt 19, 16-22; Lc 18, 18-23) Gesù esige la “spogliazione totale”, cioè “abbandonare tutte le sicurezze” o condizioni di sicurezza nella vita: nè famiglia, nè denaro, nè lavoro fisso, nè casa, nè salutare la propria famiglia, neppure seppellire il proprio padre (Mt 8,22) (6).

Ciò significa che essere cristiano (o appartenere alla chiesa) equivale a diventare un “carismatico itinerante”? Deve essere la chiesa “un movimento di auto-emarginati”? Coloro che intendono seguire Gesù, per ciò stesso, non hanno altro rimedio che vivere secondo i modelli di una “condotta deviata”? (8) . E’ ciò possibile e raccomandabile?

4. Gesù solo, come “sicurezza”

Qui tocchiamo la questione capitale. Non solo per comprendere il vangelo. Oltre a questo, per comprendere la Chiesa. Mi spiego: è evidente che ciò che Gesù esige, quando lo dice a chi pretende di essere credente: “Seguimi” , in realtà ciò che gli dice è che abbandoni la sua casa, la sua famiglia, il suo lavoro, il suo denaro, le sue osservanza religiose (fino al culmine di tali osservanze, la sepoltura del padre). E tutto questo, senza offrire, a chi è chiamato, nè un programma, nè un progetto, nè una missione, nè alcune condizioni, niente. Che significa questo? E’ questo ragionevole e realizzabile? Se siamo consequenti con la chiamata di Gesù a “seguirlo”, solo una cosa rimane in piedi, nella vita di chi è chiamato: “Gesù solo”. E questo, che significa e che rappresenta?

Ciò che qui è in gioco è il problema della “sicurezza” nella vita. Senza pensarlo, tante volte; senza renderci conto di ciò che più ci angustia e più desideriamo, in fondo, sempre abbiamo programmato il problema della nostra sicurezza nella vita. La casa, la famiglia, il denaro, la professione, il prestigio, la salute, lo stato sociale, l’istituzione alla quale apparteniamo, la politica, il diritto, l’economia, le relazioni che manteniamo con gli altri, la religione…. tutto ciò è un insieme di cose tanto importanti, perchè ci danno sicurezza nella vita. O, se non abbiamo queste cose, ci sentiamo nella insicurezza e nella solitudine. Questo ci suona patetico, per la paura che ci provoca.

Ciò supposto, la insistenza di Gesù nella chiamato a “seguirlo” ci viene a dire che CREDIAMO IN GESU’ SE PONIAMO SOLO IN GESU’ LA NOSTRA SICUREZZA. In definitiva, se poniamo la nostra assoluta “sicurezza” (Sicherheit) e “sollievo” (Geborgenheit) (9) nella convinzione che stiamo con Gesù, viviamo con lui e come lui. Perchè solo quando la nostra vita si progetta così, allora è QUANDO SIAMO VERAMENTE LIBERI. Il fatto è, in fondo, che il problema che ci pone il Vangelo è il problema della libertà. Per questo Gesù insiste nella libertà in queste situazioni e davanti a queste realtà, non perchè queste cose – come è logico – siano cattive, ma piuttosto perchè queste cose hanno tanta presenza e tanta forza nella nostra vita, che ci limitano o persino ci privano della libertà.

5. Il fondo del problema

Stiamo toccando il fondo del problema più grave e più pressante, che deve affrontare la chiesa. É il problema che era evidente quando Alberto Iniesta convocò l’Assemblea de Vallecas. E ben sappiamo la dura risposta che Iniesta dovette sopportare, tanto dal potere politico, come dal potere religioso. Perchè entrambi i poteri sono tanto brutalmente intolleranti in situazioni come quella che presentò Alberto Iniesta?

Perchè, per i poteri che dominano e sostengono il sistema che ci regge, è determinante mantenere la disuguaglianza. Un disuguaglianza che i poteri economici, i poteri politici, i poteri giudiziari e i poteri religiosi potenziano, matengono e consentono. Da lì, tra le altre cose, i “silenzi sociali” (10), che questi poteri mantengono nelle questioni più determinanti delle disuguaglianze.

Tutti questi poteri sono inter-determinati in modo tale che, perchè continuino a funzionare con la efficacia che a loro interessa, quella efficacia non si consegue se non a forza di di produrre e potenziare le disuguaglianze. Siano quali siano le teorie, che ciascuno abbia o difenda, per mantenere gli interessi di quelli che comandano, non c’è altro rimedio che mantenere le disuguaglianze economiche, politiche, giuriche e religiose. Per esempio, in economia: quasi la metà della ricchezza mondiale è nelle mani dell’1% della popolazione. In politica la cosa risulta chiara quando è un fatto che l’uomo politicamente più potente del mondo è Donald Trump. In diritto-giustizia, non c’è da dar molte spiegazioni dopo ciò che stiamo vedendo e vivendo in Spagna, a causa del comportamento di alcuni tribunali e dei suoi giudici, daccordo con ciò che permette loro il vigente diritto penale e processuale. In religione, ciò che più è forte è la violenza, il terrorismo, e nella chiesa cattolica, il vigente Codice di Diritto Canonico che trascina la violenza totalitaria del Medioevo fino ai tempi attuali, quando noi ci gloriamo di vivere il “terzo illuminismo”.

Orbene, stando così le cose, tutto questo ci ha portato fino ad una situazione, che sicuramente non potevamo immaginare: quando abbiamo raggiunto il progresso tecnologico e scientifico più elevato, precisamente ora è quando viviamo nel mondo più insicuro. Stiamo distruggendo il pianeta terra, stiamo uccidendo e lasciando che muoiano milioni di esseri umani ogni anno, abbiamo moltiplicato la sofferenza nel mondo, ci sentiamo minacciati per innumerevoli pericoli, sono ormai troppi i giovani che si vedono senza futuro, i paesi più ricchi alzano muri di separazione, etc, etc.

La conseguenza, che inevitabilmente è derivata da questo stato di cose, è che tutti noi – sicuramente senza che ci rendiamo conto di ciò che ci accade – siamo stati invasi da due esperienze paralizzanti e distruttive: la insicurezza e la paura. Quasi nessuno parla di ciò a fondo. Quasi nessuno osa pensare sul serio ciò che vive nella sua più segreta intimità. Ma sospetto che la insicurezza e la paura sono il peso e il carico che tutti portiamo sulle spalle. E sono causa inconfessabile dei “silenzi sociali e altre astuzie” con le quali, non solo i poteri ci nascondono la realtà, ma piuttosto ugualmente con le quali i deboli fuggono dalle complicazioni e così si perpetuano le situazioni di sofferenza in cui viviamo.

6. La chiesa che vogliamo e di cui abbiamo bisogno.

Ora si comprende meglio la Chiesa che vogliamo e la chiesa di cui abbiamo bisogno. Ho spiegato come nacque il primo germe della chiesa, e nei vangeli risulta che i racconti delle origini della chiesa sono racconti di chiamati alla sequela di Gesù. Questo vuol dire che la “sequela” di Gesù è costitutiva dell’essere stesso della chiesa. Come è ugualmente costitutivo della cristologia.

Daltra parte, sappiamo che ciò che mettono in evidenza i racconti di “sequela” è la chiamata allo spogliarsi dei supporti fondamentali che ci danno sicurezza: denaro, lavoro, istituzioni, stato sociale, religione. Gesù chiese a quegli uomini – i primi apostoli – la “spoliazione totale”. Non per motivo di “ascetica”, come lo interpretarono i monaci a partire dal III secolo. Meno ancora, per il “disprezzo del mondo” e di tutto ciò che ci da felicità e godimento della vita, come lo intese la spirirtualità medievale. Non per ottenere la pace personale e interiore, il “Dharma”, secondo la tradizione buddista laica (11).

Ciò che Gesù vide come specifico e determinante, per la chiesa e per i cristiani, è il superamento della paura e della insicurezza. Perchè solamente così, possiamo integrare nella nostra vita il “progetto di vita” che ci portò Gesù e che esigette Gesù, se vogliamo veramente far presente il vangelo nella nostra società. E mai i credenti in Cristo dovranno dimenticare che per tracciare il cammino che supera la paura e la insicurezza, “Gesù accettò la funzione più bassa che una società possa attribuire: quella del delincuente giustiziato” (12). Senza dubbio, a ciò si riferiva Gesù quando disse loro, non solo ai discepoli, ma piuttosto “a tutti” (Lc 9,23): “se uno vuole venire con me, rinneghi se stesso e si carichi la sua croce e allora mi segua” (Mc 8, 34; Mt 16, 24; Lc 9, 23). Oggi non è possibile interpretare queste parole di Gesù come una chiamata “per vivere ai margini” (13) della vita e della società. Seguire Gesù è caricarsi della propria croce. Ma che significa questo e cosa è ciò che esige?

Nella società della “corruzione” e della “disuguaglianza”, che genera la “paura” e la “insicurezza”, seguire Gesù, credere in Gesù, vivere nella chiesa, non è una esigenza di eroismo e singolarità che ci spingerebbero a dover andare, come una specie di fuggitivi, ai margini della vita, come esclusi sociali.

Non si tratta di questo. La esigenza di Gesù era del tutto ragionevole. É ciò che dovrebbe essere la cosa comune per tutti i cittadini. Stiamo parlando semplicemente “di essere cittadini onorati e onesti, che compiono i loro doveri civici e, se c’è qualcosa in cui i cristiani si differenzano dagli altri”, dovrebbe essere per la loro sensibilità davanti alla sofferenza ed alla disuguaglianza che impone il disordine stabilito”

7. La chiesa come fattore di cambiamento

La chiesa “che vogliamo e di cui abbiamo bisogno” è la grande Comunità dei credenti in Gesù, che produce questo progetto di vita, lo coltiva, lo fomenta, lo mantiene. Però qui ciò che importa è comprendere bene ciò che vogliamo dire quando parliamo della “Grande Comunità” É evidente che , nei vangeli, la presenza e la importanza dei dodici (“discepoli” o “apostoli”) si evidenzia nella vita e nel progetto di Gesù. Però, tanto certo come questo, è che, nella Tarda Antichità (nei primi secoli della chiesa), il cristianesimo fu un fattore di cambiamento decisivo.

Un cambiamento , non solo religioso, ma anche sociale. Inoltre, questo si realzzò non solo per la dottrina che insegnavano i vescovi, ma piuttosto soprattutto per il modo di vivere che ebbero i cristiani, nella crisi dell’Impero già prima di Costantino (sec IV) (14). In cosa e per cosa il cristianesimo fu un “fattore di cambiamento”?

Durante il secolo II e anche il III, il cristianesimo ancora era in gran parte (sebbene con alcune eccezioni) un “esercito di diseredati” (15). Ma è anche certo che il cristianesimo, oltre le sue promesse per l’altra vita e le sue pratiche religiose, possedeva un senso comunitario più forte di tutto quanto offrivano gli altri gruppi misterici di quel tempo, soprattutto “per la forma comune di vita, come accertatamente avvertì Celso”(16)

Sappiamo con certezza che a quei tempi di miseria, carestia e fame, la chiesa offriva tutto il necessario per costituire una specie di sicurezza sociale: si prendeva cura di orfani e vedove, attendeva agli anziani, ai disabili e a quelli che mancavano di mezzi di vita (17). E, più che niente, offriva un sentimento di gruppo che il cristianesimo di allora era in condizioni di alimentare. La chiesa consisteva, soprattutto, in comunità di accoglienza nelle quali la gente si sentiva protetta per diritti che la società non le offriva.

Oggi, quando ci stiamo rendendo conto che si può venire fuori dalla “crisi” economica, mantenendo grandi settori della popolazione nella “truffa” crudele di coloro che si vedono affondati nella più bassa disuguaglianza, comprendiamo meglio ciò che spiegò mirabilmente il professore E.R. Dodds. Mi riferisco all’orrore del sentimento di abbandono che può sperimentare qualsiasi essere umano in mezzoo ai suoi simili.

Dovettero essere molti quelli che sperimentarono questo abbandono, nella tarda Antichità: i barbari umanizzati, i contadini giunti nelle città in cerca di lavoro, i soldati licenziati, quelli che vivevano di rendita rovinati dall’inflazione e gli schiavi diventati liberti. Per tutta questa gente, entrar a far parte della comunità cristiana doveva essere l’unico mezzo per conservare il rispetto verso se stesso e per dare qualche senso alla propria vita. Ed è dentro la comunità cristiana che si sperimentava il calore umano e si aveva la prova che qualcuno si interessava di noi, in questo mondo e nell’altro (18)

Per questo, esattamente per questo, il cristianesimo fu un agente decisivo della trasformazione della cultura e della società. Gli storici meglio documentati lo ha detto senza giri di parole, spiegando ciò che rappresentò “la caduta dell’Impero romano” : “il cristianesimo fu in un certo senso una forza foriera di uguaglianza e promotrice di una progressiva democratizzazione. Insisteva perchè tutto il mondo, indipendentemente da quale fosse la sua posizione economica e sociale, aveva un’anima ed un valore uguale nel dramma cosmico della salvezza, e alcuni dei testi evangelici suggerivano, che le ricchezze di questo mondo potevano costituire un ostacolo per la salvezza” (19)

La chiesa che umanizzò l’Impero, persino essa stessa si lasciò corrompere dalla forza perversa dei poteri, delle ricchezze e dei privilegi, quella chiesa che vogliamo e di cui abbiamo bisogno, fu la grande comunità che faceva uguaglianza nel popolo, nella società e tra i cittadini. La chiesa di coloro che non si consideravano soddisfatti dalla fede cristiana, ma piuttosto che, insieme alla fede e per la forza di quella fede, vivevano alla sequela che Gesù esigette dagli apostoli, dai discepoli e dal popolo in generale, secondo i numerosi racconti evangelici che ci hanno conservato questa “memoria pericolosa”, che noi resistiamo a ricordare. E soprattutto, la memoria che noi ci sforziamo di attualizzare, rendere viva e presente in questa chiesa nostra di oggi.

8. Conclusione

La mia conclusione è chiara. Ci sono due modi di intendere la chiesa e di vivere in essa. La chiesa della “sottomissione” e la chiesa della “necessità”. Che significano questi due modi di intendere e vivere la chiesa? Quando ciò che è importante e decisivo nella chiesa è il potere di quelli che comandano, la chiesa non ha più rimedio che essere chiesa di sottomissione. Quando ciò che è importante e decisivo nella chiesa è la sofferenza del mondo e nel mondo, la chiesa non ha più rimedio che essere la chiesa della “necessità”.

La chiesa del “potere”, sottomette i suoi fedeli. Questa è la cosa principale per essa. E utilizza i grandi temi della teologia per sottomettere: la fede, i sacramenti, la morte, l’inferno, la morale, la predicazione, la liturgia , il diritto canonico, la catechesi, la spiritualità, tutto serve ed è efficace per tenere la gente sottomessa. E il governo ecclesiastico è un grande esercizio di sottomissione. Si sottomette il pensiero e la capacità di pensare, si sottomette la volontà e la capacità di decidere, si premia il sottomesso, si castiga il disobbediente. E tutto il governo della chiesa si organizza secondo questo imponente imbroglio di potere e sottomissione.

La chiesa della “necessità”, si affanna, lavora, lotta, per ciò di cui maggiormente ha bisogno la gente: palpare e vivere il fatto che tutti, essendo “differenti” nei fatti evidenti che viviamo e tocchiamo, tuttavia siamo uguali in dignità e diritti, perchè la chiesa non si gestì, nè nacque dal potere, ma piuttosto si gestì e nacque dal vangelo.

Il vangelo nel quale leggiamo che la cosa più importante, per Gesù, non fu mantenere e imporre il suo potere, ma piuttosto rimediare alla sofferenza, rispondere a ciò di cui necessita la gente, che è alleviare, rimediare, sopprimere le sue molte sofferenze. Per questo, Gesù curò i malati, perdonò i peccatori, alleviò il giogo che ci impone questo mondo e le sue leggi, non obbligò nessuno a niente nè esigette obbedienza a nessuno.

Su questa base nacque la chiesa. E da questa base, Gesù ci insegnò, non solo nè principalmente la importanza della fede, ma piuttosto, insieme alla fede e prima della fede, la sequela di Gesù. Per questo, la “chiesa di sottomissione” produce schiavi. Mentre la “chiesa della necessità” produce persone libere. Tenendo sempre in conto che solamente la persone veramente libere possono superare e vincere la paura e l’insicurezza. I due grandi lacci che ci impediscono di essere agenti di cambiamento in questa nostra società, la società della crisi e della truffa. Ciò che ci spinge costantemente ai “silenzi sociali” complici, che perpetuano la sofferenza che stiamo sopportando e che aspetta le generazioni che verrano dopo di noi. A meno che ci impegnamo, con il potere dello Spirito e la luce del vangelo, a recuperare la capacità di essere fattori di cambiamento che caratterizza la chiesa di Gesù, il Messia e il Signore.

Note

  1. Un buen análisis de aquella prohibición y su significado, en Pastoral Misionera, 3 (1975). El 27 de abril de aquel mismo año (1975), se celebró en El Escorial, una asamblea en la que participaron más de 100 comunidades de base para analizar el significado de la prohibición de la Asamblea de Vallecas. Cf. R. Díaz Salazar, Iglesia Dictadura y Democracia, Madrid, Ediciones HOAC, 1981, 282.
  2. Conc. Vaticano II, Lumen Gentium, 5, 1.
  3. J. Alfaro, “Fides in terminologia bíblica”: Gregorianum 42 (1961) 476-477.
  4. Johann Baptist Metz, La fe, en la historia y la sociedad, Madrid, Cristiandad, 1979, 66-67.
  5. Dietrich Bonhoeffer, Nachfolge, München, Kaiser, 1982, 28-29. Por influjo de los Jasidim y de los
  6. Fariseos, el último servicio a los muertos había sido enaltecido a la cima de todas las buenas obras. Martin Hengel, Seguimiento y Carisma. La radicalidad de la llamada de Jesús, Santander, Sal Terrae, 1981, 21.
  7. Gerd Theissen, El Movimiento de Jesús. Historia social de una revolución de valores, Salamanca, Sígueme, 2005, 35-37.
  8. O. c., 36.
  9. Diestrich Bonhoeffer, o. p., 29
  10. Joaquín Estefanía, Abuelo, ¿cómo habéis consentido esto?, Barcelona, Planeta, 2017, 136-138.
  11. Kotaró Suzuki, “El Buda histórico y el Buda eterno”: Teologías en entredicho, Fundación UIMP (Universidad Internacional Menéndez Pelayo), Campo de Gibraltar, 2011, 59-68.
  12. Gerd Theissen, El movimiento de Jesús. Historia de una revolución de valores, Salamanca, Sígueme, 2005, 33.
  13. Warren Carter, Mateo y los márgenes. Una lectura sociopolítica y religiosa, Estella, Verbo Divino, 2007, 499.
  14. E. R. Dodds, Paganos y cristianos en una época de angustia, Madrid, Cristiandad, 1975, 173-179.
  15. E. R. Dodds, o. c., 175. Cf. Justino, Apol., II, 10. 8; Atenágoras, Leg., 11. 3: Tácito, Orat., 32, 1; Min. Felix, Oct., 8, 4; 12. 7; Orígenes, C. Celsum 1, 27. Aunque esto podía decirse igualmente, en buena medida, de los paganos.
  16. Cf. Orígenes, Contra Celsum, 1, 1.
  17. Cf. Hendrik Bolkestein, Wohltätigkeit und Armenpflege im Vorchristlichen Altertum, Utrecht, Ootoek, 1939. Y sobre todo, Allmecht Dihle, Die Goldene Regel, Göttingen, Vandenhoet & Ruprecht, 1962, 61-71; 117-127. Cf. E. R. Dodds, o. c., 178, n. 109.
  18. E. R. Dodds, o. c., 179.
  19. Peter Heather, La caída del Imperio Romano, Barcelona, Crítica, 2008, 164.

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One Reply to “FEDE E SEQUELA”

  1. Sequela, come accettazione piena per amore dove la convinzione ha riempito mente e corpo e l’amima suggerisce la certezza di avere “visto”e ascoltato Cristo il Dio vivente che apre alla fede “fiducia”nonchè il credo per il sempre:l’eternità intravista nella sequela quindi seguire l’amore come fuori da ogni ragione perchè l’unica via è Cristo.La chiesa che cerca se stessa tornando a Cristo non il fondatore ma il creatore.

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