La relazione che segue dal titolo “Mons. Michele Mincuzzi e il suo episcopato leccese. Un ricordo nel centenario della nascita” è stata tenuta a Lecce nel giugno 2013 dal prof. Fulvio De Giorgi, ordinario di storia dell’educazione all’Università di Modena e Reggio Emilia. Don Mincuzzi divenne vescovo ausiliare di Bari nel 1966, poi vescovo di Ugento nel 1974 e dal 1981 al 1988 arcivescovo di Lecce. Vescovo “sociale”, mentore di don Tonino Bello, il suo breve episcopato leccese esprime l’arrivo delle idee conciliari al Sud d’Italia. Anticipiamo qui due frasi della relazione.
La prima esprime l’assoluta novità di quel periodo: “Nella mia esperienza di pugliese, che ha studiato in Toscana, vive in Lombardia e lavora in Emilia-Romagna, ho conosciuto diverse esperienze di Chiesa locale. Sono stato anche membro, di nomina arcivescovile, del Consiglio Pastorale Diocesano di Milano, ai tempi del caro e indimenticabile card. Martini. Posso dire, in coscienza, che in nessuna di queste esperienze ecclesiali ho respirato quella vera e salda libertà di parola che avevo respirato, e a pieni polmoni, nella Chiesa di Lecce.”
La seconda il senso di un episcopato così diverso dal prima e dal dopo: “Il significato e il valore di quell’esperienza ecclesiale degli anni ’80 stanno nel fatto che essa ha dato la prova, nel vissuto, di una condizione di possibilità. Come ebbe a dire Mincuzzi nel 1986: “Verrà un tempo nel quale si dirà: i leccesi nella fine degli Anni ’80, si avviarono verso il Duemila senza compromessi, passando dal calcolo, dal conformismo alla profezia, dalla stagnazione alla conversione. È la previsione di ogni leccese di buona volontà. Ed io ci sto in mezzo per unire, incoraggiare e servire”. Ecco: quell’episcopato ci fece sperimentare che è possibile una vita ecclesiale senza compromessi, nella conversione dal conformismo e dalla stagnazione alla profezia. Qui rimane il suo senso, in una visione di fede.”
Fulvio De Giorgi
Eccellenze reverendissime, amiche ed amici carissimi,
permettetemi di ringraziare, innanzi tutto, l’arcivescovo Domenico (D’ambrosio) per avermi consentito di riprendere, dopo 25 anni, la parola in un evento ecclesiale promosso dalla Chiesa di Lecce, mia Madre.
Devo, preliminarmente, appellarmi alla vostra amica comprensione. Non intervengo a motivo della mia professione di storico, non avendo condotto ricerche nuove e particolari sulla biografia di mons. Mincuzzi. Non credo, peraltro, che questo, oggi, si voglia. Forse, l’unico titolo per il quale mi è stato chiesto questo ricordo commemorativo è dato dal fatto che sia stato uno dei più giovani tra i collaboratori dell’Arcivescovo, come segretario del Consiglio Pastorale: mera considerazione anagrafica, della cui fragilità sono ben consapevole. Molti di voi portano, sicuramente, nel cuore gemme di ricordi personali di mons. Mincuzzi. Ecco perché vorrei subito ridimensionare le vostre aspettative su questo mio intervento, che certamente vi lascerà un retrogusto di insoddisfazione, del quale semplicemente vi chiedo scusa fin d’ora.
Vorrei partire da quel giorno di Grazia che fu il 5 aprile 1981, con la messa d’ingresso di mons. Mincuzzi. La Cattedrale era ovviamente gremita. Venivamo da un episcopato trentennale di mons. Minerva dalle linee chiare e molto nette. Tali prospettive pastorali erano state avvicinate a quelle dell’allora vescovo di Genova, card. Siri: giudizio che, anche in sede storiografica, si può generalmente confermare, senza con questo voler sminuire le differenze che pure vi furono. Mons. Mincuzzi non era uno sconosciuto: pochi, in realtà, conoscevano bene la sua esperienza barese; molto note erano, invece, le sue più recenti prese di posizione nel basso Salento, per il problema dell’acqua, dell’emigrazione, dell’agricoltura. Veniva dunque con una fama di “Vescovo sociale”. I segni esteriori con i quali si presentò – la semplicità della mitria, della croce pettorale, del pastorale – ci diedero subito un’aria di novità nel segno post-conciliare. Ma naturalmente le attese si concentravano sull’omelia programmatica. Ci aspettavamo un discorso teologico sull’episcopato, ma pensavamo che sicuramente avrebbe aperto degli squarci sociali ed eravamo curiosi di sentire come e con quali espressioni. L’omelia fu tutt’altro: spirituale e pastorale. Mentre procedeva, un brivido d’emozione ci percorreva e andava man mano crescendo. Colpiva soprattutto quella comunicazione senza filtri, non in terza persona, ma diretta, che mirava, con la forza del Vangelo, al cuore di ciascuno. Concluse l’omelia con queste parole: “Ci attendono prove, come Società e come Chiesa e non le supereremo se non nella lotta e nella contemplazione: come Gesù nella prova del deserto. Chi vorrà superare le prove si prepari a credere nell’impossibile, nell’utopia che è la viva, sconcertante e dolcissima Persona di Gesù. È nel suo Nome che diamo inizio al nostro cammino di speranza verso la Pasqua che in ogni vittoria sull’egoismo scandisce il progresso della nostra storia di salvezza”. Molti di noi avevano le lacrime agli occhi.
Capita qualche volta, nella storia della Chiesa, che ci siano momenti, come quello che stiamo vivendo ora con papa Francesco, che tra Pastori e gregge si squarcino orizzonti di verità e autenticità e la forza del Vangelo irrori e permei completamente la comunicazione, sciogliendo i cuori più duri e, comunque, donando gioia spirituale, con spontaneità.
1. In quell’omelia, molti lo ricorderanno, mons. Mincuzzi chiese di non rinchiuderlo in una prigione dorata. Disse: “Non sopporto l’isolamento e non temo di perdere autorità, prestigio, chiedendo amicizia, fiducia, confidenza, lealtà di linguaggio, rispettando la libertà di sbagliare senza il panico dell’intervento superiore. […] Non faccio dell’autobiografismo, espressione di autosufficienza. Ho bisogno di tutti, ma ho bisogno soprattutto della vostra affettuosa amicizia. […] Detesto ogni forma di sopraffazione clericale e sono sicuro della vostra condivisione, comune ai preti e ai laici, soprattutto a coloro che hanno responsabilità pastorale”.
Se dunque vogliamo veramente ricordare, in mondo ‘mincuzziano’, l’episcopato leccese di mons. Mincuzzi, non possiamo ricordare solo lui: non possiamo restringerci ad un biografismo, espressione di autosufficienza. Quell’episcopato non si riassume nella figura, nel magistero e nell’opera dell’arcivescovo: è stato, nelle sue luci e nelle sue eventuali ombre, un’opera collettiva. Non voglio dire un’armonica sinfonia, un coro unanime: nell’autenticità delle relazioni ci furono confronti, dialettiche, discussioni, non facili da comporre, talvolta faticose. Ma era uno spazio comune di vera partecipazione, un laboratorio effervescente. E il ruolo dell’arcivescovo fu soprattutto nel segno di una maieutica pastorale, che aiutò ciascuno a tirar fuori quello che aveva dentro, a scommettere sulla parte migliore di sé, ad esprimersi liberamente e poi a camminare insieme, con il gusto della creatività.
In alcune riflessioni di sintesi sul suo episcopato leccese, sviluppate dopo il suo ritiro, mons. Mincuzzi ha affermato: “Ho puntato sull’autonomia e ho combattuto l’attesa del comando dall’alto: ho rispettato la libertà; ho lavorato in solidarietà; ho riconosciuto i talenti di ciascun operatore pastorale: prete, religioso e laico. Non ho assunto atteggiamenti da capo, di colui che sa tutto. […] I momenti salienti non sono stati fermati con lapidi; non ho gradito che si parlasse di me, anche con le foto. Soprattutto ho voluto bene a quanti, in qualsiasi modo, collaboravano. […] In siffatto clima era possibile progettare e sperimentare un tipo di pastorale più avanzato. […] Demmo inizio ad un dialogo per adattare alla situazione diocesana i tempi nuovi della catechesi”. “Parlo al plurale perché eravamo un gruppo affiatato e convinto”.
Naturalmente non ho il tempo e la possibilità di dare veramente a questo ricordo un respiro di ricostruzione collettiva e plurale dei tanti apporti individuali. Ma consentitemi almeno di evocare questo ineludibile profilo, cercando, in un soffio, di farne riaffiorare la nostalgia. Se chiudo gli occhi, sento accanto a me don Michele, con la testa reclinata e poggiata su una mano, che mi guarda ad occhi socchiusi. E vedo la sala davanti a me riempirsi di tante altre presenze. Ecco, in fondo, due vigili figure che scrutano tutto l’uditorio: don Ugo De Basi, con la faccia rossa e un po’ china, e appena dietro di lui, con un velo di signorile mestizia, don Franco Mannarini. Ed ecco, seduto in prima fila, soddisfatto, bonario e sicuro, mons. Protopapa. Accanto a lui e pure lui in talare, ma sprofondato nella sedia e nei suoi pensieri, quell’animo candido e purissimo di don Raffaele De Simone. E ancora accanto, un po’ trasognato, il canonico Pinto. Al centro della sala alcuni parroci: distinguo, nel suo misurato portamento da diplomatico pontificio, don Temistocle De Leo e, vicino a lui, più animato e accalorato, don Donato Rizzo. Nel lato estremo della fila, ride e mi strizza l’occhio don Vito De Grisantis, cosa mi vorrà dire? Oh, certo, capisco: vedo, dietro di lui, che è venuto a trovarci don Tonino Bello e, dunque, stasera ci si vedrà a Santa Rosa per parlare della Casa della Pace. Tra le ultime file noto che discutono a bassa voce tra loro don Sandro Dell’Era, calmo e competente, e, con la sua massiccia mole e il sorriso buono, don Oronzo Marzo. Sempre infondo, con in mano libri e riviste, don Gaetano Quarta. Mentre mi guarda, in modo ironico e un po’ scettico, don Alessandro Spagnolo, in camicia non proprio d’ordinanza e con il colletto sbottonato. Eppure, manca qualcuno: dove sei don Sandro Rotino? A ecco ti alzi un po’, ti fai vedere e mi punti gli occhi sbarrati, muovendo la testa: mi chiedi questo testo per il Bollettino Diocesano. No, don Sandro: è poca cosa, lasciamo stare…
Riapro gli occhi e ci siete pure voi, cari amici. Sì, questo è stato l’episcopato di Mincuzzi: meno vescovo e più fedeli. O, forse, presenza del vescovo più discreta, eppure potente nel suscitare generosità, collaborazione, amicizia.
2. Il piano più propriamente personale, della ricostruzione biografica, non è meno segnato da una prospettiva multipla di presenze. Nel delinearsi della personalità umana, spirituale e pastorale di mons. Mincuzzi contarono i vescovi Mimmi e Nicodemo, contarono molti laici, mi limito a ricordare Giovanni Modugno e Aldo Moro, contarono molti religiosi e molti preti, anche qui ricordo solo don Giovanni Rossi e mons. Ferdinando Baldelli.
Ma vorrei soprattutto richiamare un tratto della sua biografia che lo segnò profondamente, in modo permanente e inconfondibile. Egli fu un prete educato, formato, dai laici. Mi colpisce il fatto che quando egli rievocava la sua “formazione sacerdotale” si riferiva non solo e non tanto al Seminario o alla Gregoriana, quanto soprattutto al primo periodo del suo ministero pastorale, nel fuoco di relazioni laicali forti. Diceva: “Sono un Vescovo che dal 1938 al 1960 direttamente ha ‘condiviso’ le speranze e le sofferenze del mondo del lavoro industriale e bracciantile agricolo, come cappellano di fabbrica, di porto, della Comunità dei braccianti e come assistente provinciale delle ACLI. È una esperienza pastorale che ha modellato la mia vita di cristiano e di prete. La lunga esperienza mi ha dato il gusto della libertà, della solidarietà, della giustizia, del cambio per il progresso e la qualità sempre più alta della vita personale e della vita associata”. Questa formazione, avuta dai laici, gli diede uno stile relazionale diretto, schietto e virile, senza quelle forme cerimoniose e un po’ untuose o forzatamente amicali, che il laico distingue subito in tanti chierici.
Lo esprimeva bene la sua stretta di mano, che vorrei definire molto laica e poco episcopale. Nel 1944 parlava delle sue esperienze fra i lavoratori e diceva: “Affettuose strette di mano si scambiano fra le proteste degli operai, che temono di sporcare le mie. Protesto anch’io facendo capire di aver piacere di sporcarmele almeno a contatto delle loro. […] Quanto valgono questi fraterni saluti. […] Ricordo che una volta arrivai in gran fretta all’adunanza di un gruppo di giovani spazzini, che si preparavano alla Prima Comunione. Non detti la mano come al solito. Uno mi chiese meravigliato: Don…, non ci dai la mano stasera?!”.
Attenzione: quando dico stile laico, non alludo a portamenti secolarizzati e mondani. Mi riferisco all’autenticità sacerdotale: quella del sacerdozio comune, sul quale veramente si gioca l’universale chiamata alla santità di tutti i battezzati e che permea, in modo evangelicamente radicale, relazioni sinceramente paritarie, ben avvertite come tali.
Se questo era il suo stile, l’indirizzo di fondo della sua vita e del suo ministero si può dire la “rivoluzione cristiana” o, come preferiva esprimersi al tempo dell’episcopato leccese, il radicalismo evangelico, che poi vuol dire sequela cioè Primato totale di Cristo Liberatore. Naturalmente, essendo questo radicalismo non uno slogan teologico astratto ma una precisa modalità di vita incarnata nella storia, assumeva spesso inflessioni meridionali e meridionalistiche. Nell’ambito degli studi di storia della Chiesa oggi disponibili, Mincuzzi è ricordato soprattutto per questo: una delle pochissime voci di meridionalismo pastorale nel Novecento.
Negli anni della giovinezza di Mincuzzi, a parlare di “rivoluzione cristiana” era stato soprattutto don Primo Mazzolari. Quando Mincuzzi fu spiritualmente a capo di quell’innovativa esperienza della Comunità dei Braccianti, egli vi impresse subito un innervamento evangelico nel segno della “rivoluzione personalista e comunitaria” di Mounier. Era un’iniziativa veramente di rivoluzione cristiana, tanto più nel Mezzogiorno del tempo: non poteva, dunque, non entrare in contatto con le iniziative mazzolariane. Ed in effetti sul n. 6 della prima annata della rivista “Adesso”, uscito il 31 marzo 1949, don Mazzolari pubblicava, in una nuova rubrica intitolata La rivoluzione cristiana è in marcia, uno scritto di Mincuzzi. Nella nota redazionale che lo introduceva, sicuramente stesa da don Primo, dopo aver richiamato qualche tratto della visione mazzolariana si diceva: “Ognuno può […] immaginare con quale gioia ‘Adesso’ scopre e indica i segni concreti della nostra validità rivoluzionaria, che da un momento d’inquietudine sbocca in piena azione, che può tenere il confronto con qualsiasi altra: che se non è vasta né rapida, certa è la sua durata, stabile la sua costruzione e veramente su misura dell’uomo. Come primo documento, trascrivo i punti più notevoli di un’appassionata confidenziale relazione del Cappellano maggiore della Comunità dei braccianti, don Mincuzzi, che rifà la breve storia della Comunità ravvivandola con la legittima ansia del suo spirito veramente apostolico”. Lo scritto, dunque, di Mincuzzi, con una integralità rivoluzionaria cristiana che forse, come in Mazzolari, rasentava qualche ingenuo integralismo utopico, presentava quello che veniva appellato “sogno [che] va realizzandosi”, in questi termini: “La categoria organizzata in forma di comunità di lavoro è al tempo stesso confraternita religiosa, famiglia operaia, scuola, emporio di servizi (spaccio, ambulatorio, artigianato, assistenza ecc.) impresa economica. È una piccola ‘città’ di lavoratori: la città dei braccianti del Mezzogiorno”. E come impianto ideale di fondo precisava: “Il problema fondamentale della distribuzione della ricchezza, posto in maniera violenta dal comunismo alla coscienza cristiana, non può essere risolto solo dalla lotta sindacale, che, per essere condotta spesso con forze impari, scatena l’odio violento dell’impotenza. Alla complessa organizzazione capitalista bisogna opporre una salda e compatta organizzazione economica non capitalista, perfettamente aderente alle esigenze non solo dell’economia, ma dell’uomo e del bene comune”.
E come in Mazzolari così in Mincuzzi gli aspetti di etica sociale e di pastorale sociale si intrecciavano con spunti spirituali e riflessioni ecclesiologiche. Nel 1946, a 33 anni, scriveva: “Mi ha profondamente impressionato un giudizio di Gramsci sul Clero meridionale paragonato al Clero settentrionale, che per Gramsci è più vicino al popolo, mentre quello meridionale ne è staccato e spesso per ragione di contrasto d’interessi agrari. A parte la ragione addotta, il rilievo è verissimo nella sua severità”. Non credo che, nel 1946, molti preti italiani avessero letto Gramsci e meno ancora con l’apertura critica, certo oppositiva ma senza pregiudizi, che don Michele mostrava.
Il radicalismo evangelico, dunque, si traduceva, durante l’episcopato leccese, in una visione pastorale cristologica e cristocentrica, chiaramente e limpidamente conciliare e, aggiungerei, montiniana. Nell’omelia di ingresso a Lecce, Mincuzzi chiariva: “Nel mio sigillo è riportato il verso di un inno liturgico, caro a Paolo VI: Te, Christe, solum novi. Conosco te soltanto, o Cristo. Sapete bene che non è una conoscenza chiusa di Cristo, ma è affermazione del primato di Cristo, Primogenito di una moltitudine di fratelli, il Risorto, la totale risposta alla totalità delle domande che interessano il destino dell’uomo, ieri, oggi, in ogni decisione, sempre. La nostra carta d’identità è il Cristo impresso dallo Spirito Santo nei nostri cuori. Il Vescovo sì, la Chiesa sì, ma prima e radicalmente, in tutto e per tutto c’è Gesù Cristo Risorto presente nella comunità cristiana in modo che il suo posto non possa essere occupato da chicchessia. Noi, Chiesa: pastori, laici, religiosi, con l’insieme delle nostre istituzioni, siamo segno di Cristo, anche se talvolta non sempre trasparente ed eloquente. Non siamo i sostituti di Gesù […]. Siamo segno radicale di Gesù”.
3. Questo indirizzo di fondo della sua vita e del suo ministero, sacerdotale ed episcopale, fiorì, dunque, nella Chiesa di Lecce, tra il 1981 e il 1988, in un modello pastorale, con alcune caratteristiche peculiari. Anche in questo caso, nell’impossibilità di una ricognizione articolata e di un’analisi a tutto tondo, mi limiterò a tre sottolineature, cercando di individuare le piste più importanti e a cui lo stesso mons. Mincuzzi assegnava la priorità.
Dal primato di Cristo derivava una prima fondamentale scelta, assolutamente non ovvia e direi pure, in confronto agli episcopati coevi ma anche successivi, non consueta. Lascio la parola allo stesso mons. Mincuzzi nell’omelia d’ingresso: “La scelta di fondo, però, che è soltanto preceduta dalla scelta di Gesù come senso e salvatore della vita, è la scelta della libertà di opinione nella Chiesa. La Chiesa, comunità di fede e di amore, se non gode della necessaria libertà di manifestare con lo stile e il metodo proprii di una comunità […], non cresce; vive anzi in uno stato di permanente minorità. […] Parlatemi con franchezza […]. Io mi impegno ad accettarvi. […] Ho nulla di tanto prestigioso che possa incutere timore. Conto sul carisma dell’insieme, proprio del vescovo”. Qui bisogna chiarire un facile equivoco, in cui si cade perché non si riesce neppure a concepire questa libertà. Sembra talvolta che essa si riduca alla domanda, effettuata dopo una comunicazione a senso unico, ‘qualcuno ha qualcosa da dire?’. Si concepisce la libertà come una graziosa concessione e si confonde il dialogo con un monologo che parla di dialogo. Si scivola così quasi fatalmente nella condizione in cui chi segnala un problema diventa lui il problema. Mincuzzi intendeva esattamente l’opposto. Intendeva la libertà di opinione come un difficile e alto, ma assolutamente necessario, obiettivo pastorale, per cui lavorare molto e agire conseguentemente e coerentemente. La intendeva come la via maestra per mettere a fuoco i problemi, gli errori, le cose da cambiare: per una Ecclesia semper reformanda. Nella mia esperienza di pugliese, che ha studiato in Toscana, vive in Lombardia e lavora in Emilia-Romagna, ho conosciuto diverse esperienze di Chiesa locale. Sono stato anche membro, di nomina arcivescovile, del Consiglio Pastorale Diocesano di Milano, ai tempi del caro e indimenticabile card. Martini. Posso dire, in coscienza, che in nessuna di queste esperienze ecclesiali ho respirato quella vera e salda libertà di parola che avevo respirato, e a pieni polmoni, nella Chiesa di Lecce.
Naturalmente questa scelta aveva conseguenze impegnative. Uno dei primi atti di Mincuzzi fu di chiedere ad alcuni laici di parlare, senza peli sulla lingua, a tutto il presbiterio leccese, di come avrebbero desiderato i loro preti: singolare inversione di ministero omiletico. Quando poi il vescovo presentò una prima bozza di progetto pastorale e un gruppo di giovani, forse con velleitaria baldanza ma senza polemica arrogante, propose un contributo scritto che sostanzialmente ribaltava quella bozza stessa, quei giovani non furono censurati e neppure ignorati, ma furono coinvolti subito e in prima fila in un lavoro di rielaborazione. Nell’avvicinarsi di un’importante scadenza elettorale, il vescovo convocò i laici che avevano responsabilità pastorali e comunicò che dal papa erano riservatamente giunte indicazioni di voto stringenti, ci fu allora una persona – che è qui presente – che disse, animandosi e alzando la voce, ma senza presunzione o cattiveria, che il papa non poteva e non doveva ingerirsi in faccende elettorali: il vescovo, certo interiormente soffrendo, non zittì quella voce critica e non mutò l’amica apertura nei suoi confronti. In un’assemblea ecclesiale, convocata sui problemi sociali della città, ci fu un altro laico che ventilò l’ipotesi di non votare più la DC, ma di proporre, con autonoma responsabilità laicale, una lista civica di ispirazione cristiana. Qualche giorno dopo, quel laico fu convocato in episcopio e il vescovo gli disse che da Roma, proprio a proposito di quell’ipotesi, gli era giunto un preoccupato monito. Il laico offrì subito le sue dimissioni dall’incarico che ricopriva. Ma il vescovo le respinse sorridendo, dicendo che ci pensava lui a coprire le spalle ai suoi collaboratori.
La libertà di opinione non significava infatti per nulla un deflettere del vescovo dalle sue responsabilità di governo, quasi devolvendole in un fumoso democraticismo. Significava che le decisioni del vescovo erano una sintesi, da una parte, della sensibilità spirituale sua propria e, dall’altra, dello sforzo di interpretare la voce profonda del suo popolo. Nell’omelia della messa crismale del 1982 diceva: “I vostri occhi fissi su di me mi turbano, mi comunicano quella santa inquietudine che provoca la presenza e la parola di Gesù in me e al tempo stesso, paradossalmente, quegli occhi fissi su di me, apostolo di Gesù, sono per me, come una forza: i vostri occhi fissi su di me dicono amicizia, disponibilità, unità nella volontà corresponsabile non solo per recuperare i tempi, ma per andare con passo spedito, deciso verso i tempi del compimento”.
Da qui la sua energia evangelica, fiera davanti a qualsiasi potente, fermamente decisa rispetto al potere, fosse esso politico, militare o economico. Una volta, mentre preparavamo la Giornata delle Forze Disarmate, mi raccontò un episodio accadutogli al tempo del suo episcopato barese, quando, per la grave malattia di mons. Nicodemo, lui, vescovo ausiliare, resse quell’importante e vasta diocesi. Era fissata in duomo una di quelle messe che sono collegate a delle ricorrenze civili e, nella cattedrale, aveva preso posto un picchetto militare armato. Mincuzzi, mentre si preparava alla celebrazione, chiamò in sacrestia le autorità militari presenti e chiese che, per un’evidente coerenza evangelica, il picchetto fosse disarmato. Gli ufficiali resistettero e insistettero, protestando che si era sempre fatto così, che c’era una consuetudine, che non si poteva ledere l’onore militare. Alla fine Mincuzzi tagliò corto, dicendo: “Qui dentro il generale sono io. O disarmate il picchetto o io non celebro la Messa”. E le armi furono deposte.
Una seconda linea pastorale di fondo fu la sua critica strutturale al clericalismo. Memorabile, in questo senso, e commentata per anni, fu l’omelia nella sua prima messa crismale: “Vi dico nella mia responsabilità di Vescovo: è tempo che il tanto ingiustificato clericalismo e pur tuttavia duro a morire incominci a vedere una più chiara inversione di tendenza. So che è poco gradita la parola cruda che però non è offensiva: clericalismo. È perché il vostro spirito ne sia colpito e quasi ferito. D’altra parte la parola fu ripetuta nel Concilio […] Occorrono scelte urgenti e coraggiose e dilazionalibili fino ad un certo limite, oltre il quale c’è il nostro isolamento, il pericolo della sopravvivenza”. E, l’anno dopo, ribadiva: “Il clericalismo è di sua natura accentratore, monopolizzatore, piramidale. Il clericalismo è (e ci dispiace quando ce lo dicono) potere. E come ogni potere ha paura ed è portato a quantificare. La paura, che è l’opposto della fede, porta alla diffidenza, alla disistima, alla solitudine; porta a confidare nei mezzi terreni, nell’astuzia, nell’organizzazione, nelle alleanze compromettenti. Il clericalismo è tendenzialmente conservatore, cioè antistorico, antibiblico […]. Il peggio si verifica quando contagiamo i laici con il nostro clericalismo. Il clericalismo è pieno di saccenteria, è individualismo, è parrocchialismo come difesa del feudo, è temporalismo, è (scusatemi se lo dico: sono in definitiva prete anch’io) una figura anacronistica, regressiva, che si presta alla caricatura”. Questa chiamata alla conversione fece subito breccia in molti laici. Qualche fatica e qualche lentezza si registrarono nella risposta del clero. Occorre tuttavia segnalare le differenze generazionali: anche per l’attenzione che il vescovo riservava al giovane clero, con una pedagogia di accompagnamento fraterno.
Del resto egli spronava anche i giovani laici ad assumersi in prima persona le proprie responsabilità battesimali, senza aspettare di essere imboccati dai preti: perché proprio così si sarebbe collaborato meglio col ministero presbiterale. Ricordo il primo incontro, diciamo, ufficiale che ho avuto con lui. Facevo parte della Commissione Diocesana di Pastorale Giovanile. Ci incontrammo e gli dicemmo: “Questa Commissione non ha un Prete come responsabile e i parroci non ci prendono sul serio. Ci nomini per favore un Prete che ne sia a capo”. E lui ci rispose: “Il motto dei giovani della FUCI è Fede, Scienza, Patria: in sigla Effe, Esse, Pi. Ma i fucini dicono che F.S.P. non vuol dire: Fede, Scienza, Patria; ma Fate Senza Preti”.
Sono stato molto in dubbio se riferire questo episodio, perché il rischio, sempre in agguato, è di scadere nell’aneddotico o nel mero ricordo personale, importante per sé ma non per una visione più generale ed essenziale. Ho pensato però che in tale episodio si intravede un tratto dell’indirizzo pastorale profondo di Mincuzzi, il quale per contrastare il clericalismo vedeva, infine, un impegno bifronte: lavorare per una maturità adulta del laicato, come molti dicevano e dicono, ma contestualmente lavorare per una maturità adulta del clero, spesso invece data per scontata e quasi per automatica. E nel complesso possiamo dire, stando alla letteratura pastoralistica più aggiornata, che tale indicazione fondamentale di Mincuzzi, che è poi quella del Concilio, conservi ancor oggi un’intatta cogenza e un’evidente attualità. Anche se non viene espressa in modo così esplicito e diretto e senza giri di parole.
Una terza ed ultima linea pastorale, tra quelle che a me sembrano le principali, si esprimeva in un modello ecclesiale, evocato nella messa crismale del 1985: “È dal Concilio che si parla di Chiesa povera, di Chiesa di poveri, di Chiesa per i poveri”. È il modello evangelico e conciliare ripreso da Papa Francesco: annunciare la buona Novella ai poveri. Mons. Mincuzzi osservava: “L’evangelizzazione dei poveri come l’amore vicendevole dei cristiani è un segno perché il mondo creda: è un segno dei tempi ultimi, dei tempi messianici. L’evangelizzazione dei poveri non dà alla Chiesa il prestigio come dà la cultura, l’organizzazione efficiente, non dà una maggiore forza contrattuale. Eppure è la via scelta da Dio per l’avvento del suo Regno […]. Spesso la evangelizzazione non richiede molte parole, ma gesti, cioè la condivisione, con l’abbassamento fino alla loro povertà di cultura, di denaro, di socialità, di linguaggio, senza discriminazioni fra nostri e avversari, fra educati, remissivi e arroganti, chiacchieroni, fra veri e falsi poveri, fra buoni e pericolosi. L’evangelizzazione dei poveri è pericolosa in senso positivo: finisci con la detestazione di tutto ciò che provoca o non combatte le forme macroscopiche di povertà, le forme sociali. Finisci con l’incarnarti nella situazione del povero, passi dalla sua parte e sei socialmente rovinato: al minimo ti diranno che sei un fissato, un illuso e più in là un sovvertitore”.
Come aveva detto nell’omelia della consacrazione episcopale di don Tonino Bello, “Non si può dare la priorità all’evangelizzazione nei piani pastorali se non si riparte dagli ultimi, evangelizzandoli e liberandoli”.
L’evangelizzazione dei poveri, dunque, postulava una Chiesa povera, dalla radicalità mite, sorridente, dialogante, aperta, controcorrente con dolcezza: una Chiesa di minoranza, senza le angosce da assedio o le cupezze da malato terminale. Nel suo testamento spirituale, steso in un ritiro nell’ottobre 1991, Mincuzzi scriveva: “Gesù mi hai mandato al mondo per guidare una minoranza che nella sua radicalità di fede e di amore chiama al Regno la moltitudine”. E proprio di questo tratto egli faceva, intenzionalmente, l’eredità spirituale che lasciava a tutti coloro che gli avevano voluto bene, a tutti noi: “ho amato, ho difeso i poveri. Ho lasciato questa eredità: l’amore di Dio porta all’amore ai piccoli, ai deboli, ai sofferenti. E la nuova evangelizzazione è la evangelizzazione dei poveri (secondo la Parola di Dio). […] evangelizzare i poveri nella fraternità, nella giustizia, nell’amore”.
4. Ma allora, in conclusione, penso che non sia eludibile una domanda. Quali sono – se cerchiamo di discernere la storia della salvezza e ne leggiamo i segni – quali sono il significato e il valore del breve episcopato di mons. Mincuzzi, incuneato tra due lunghi episcopati, così diversi dal suo? In qualche modo fu la domanda che lo stesso mons. Mincuzzi propose nella messa crismale del 1982: “Vi tocca aver pazienza con me e semmai chiedervi perché il Signore mi ha mandato a voi”.
Sarebbe a mio avviso non solo minimale e svalutativo, ma proprio in sé errato, cercare di stabilire cosa abbia lasciato quell’episcopato di duraturo, quali scelte siano state irreversibili, insomma decifrare in cosa – storicamente – abbia vinto. No, non è questa la cifra mincuzziana autentica, non è la cifra evangelica, che se mai nella piccolezza, nella debolezza e nella sconfitta, ritrova la sua forza e la sua vera, paradossale vittoria. Non dobbiamo chiederci, pertanto, se e in che misura l’episcopato di Mincuzzi abbia aperto un cammino: nella logica della fede ciò tralucerà, nella sua verità, solo alla fine della storia. Il significato e il valore di quell’esperienza ecclesiale degli anni ’80 stanno nel fatto che essa ha dato la prova, nel vissuto, di una condizione di possibilità. Come ebbe a dire Mincuzzi nel 1986: “Verrà un tempo nel quale si dirà: i leccesi nella fine degli Anni ’80, si avviarono verso il Duemila senza compromessi, passando dal calcolo, dal conformismo alla profezia, dalla stagnazione alla conversione. È la previsione di ogni leccese di buona volontà. Ed io ci sto in mezzo per unire, incoraggiare e servire”. Ecco: quell’episcopato ci fece sperimentare che è possibile una vita ecclesiale senza compromessi, nella conversione dal conformismo e dalla stagnazione alla profezia. Qui rimane il suo senso, in una visione di fede.
Il significato e il valore di quell’episcopato stanno, dunque, nell’aver lasciato una possibile unità di misura. Quando talvolta pensiamo che la vita ecclesiale sia inevitabilmente avvitata nel clericalismo, nella ripetizione routinaria di schemi ottocenteschi, quando portiamo un contributo stanco e spento, già preventivamente rassegnato all’irrilevanza rispetto alle linee calate dall’alto, ebbene allora ci dobbiamo ricordare che c’è stato un momento in cui non è stato così. Non è retorica, sogno, illusione o letteratura: noi quel momento lo abbiamo vissuto, noi lo testimoniamo. E quel momento ci rimane confitto nel cuore e ci giudica. E giudica te, Chiesa di Lecce. Quell’episcopato, allora, ti rimane come dono, che ti parla ancora e su cui – se vuoi – puoi confrontare e misurare il tuo passo.
Congedandomi, non mi resta che chiedere perdono a voi e a don Michele se, nonostante le mie intenzioni, sia scivolato in qualche tratto, non giustificato, di eccessivo agiografismo. Certamente non mi potevate chiedere di mettere tra parentesi l’affetto, sempre vivo e riconoscente. Ho comunque cercato di considerare la figura, l’opera, l’episcopato di Mincuzzi e lo stesso Michele Mincuzzi, uomo, nel loro profilo evangelico, prendendo il Vangelo – come lui diceva – come vita e perciò come la vera biografia del cristiano: una biografia in persona Christi. Perché è indubbio che continuamente il suo dito si levò a indicarci il Signore e sarebbe stupido continuare a guardare il suo dito ed ignorare il Signore.
E perciò, quasi in una professione di fede, termino con le sue parole semplici, ma di sconfinato amore per il Signore Gesù: “Gesù è l’uomo che va dritto verso la meta, Gerusalemme, ove si compirà la sua missione per gli altri; Gesù è l’uomo libero anche dalle più venerate e inveterate tradizioni, libero dall’opinione corrente, dal giudizio piccolo borghese, bigotto, moralistico; Gesù è l’uomo che va contro corrente con coraggio, perché ha un compito da attuare per gli altri; Gesù è l’uomo che si commuove di fronte ai gigli del campo, agli uccelli, ai bambini, alle prostitute, agli ammalati, ai nevropatici, alla gente sbandata e affamata; Gesù è l’uomo che conosce le amicizie profonde, tenaci che creano la comunità: i dodici, i discepoli, le donne che gli vanno dietro, perché hanno scoperto un amico vero; Gesù è colui che perdona e dà la propria vita per coloro che gli vogliono male e per coloro che hanno lasciato tutto per Lui. […] Gesù, il Figlio di Dio, sceglie di passare da una condizione infinitamente superiore ad una condizione vergognosamente, indegnamente inferiore, quella di schiavo. […] Ciascuno nella sua condizione o accetta Gesù, tutto Gesù o meglio lasciar perdere. Gesù è Gesù; è un maestro di vita, che prende tutto”.
In alto i nostri cuori!
(Lecce, 17 giugno 2013)
E qui consentitemi una breve parentesi di carattere locale, ma non di scarsa importanza e della quale ho conoscenza personale diretta. Nel giugno del 1985, dunque prima della Sollicitudo rei socialis,i Vescovi della Metropolia di Lecce, su impulso di mons. Mincuzzi, pubblicarono un documento collettivo sui possibili pericoli ecologici del progetto della centrale a carbone di Cerano. Tale documento, pubblicato sul Bollettino Diocesano di Lecce, del maggio-giugno di quell’anno, ma anche, poco dopo, sulla rivista a raggio nazionale “Appunti di cultura e di politica”, provocò una mobilitazione che condusse al referendum consultivo del 1987. Mons. Mincuzzi intervenne ancora sulla questione il 3 aprile 1986 sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” e il 9 maggio 1987 su “Rosso di sera”. Ma quel che più conta sottolineare è che il documento collettivo dei Vescovi della Metropolia di Lecce non era solo la segnalazione di un problema particolare, ma affrontava la questione ecologica nel suo complesso con una profonda visione teologica, citando appunto Teilhard de Chardin. Vi erano stati allora un documento dei vescovi tedeschi nel 1981 e uno, più modesto, dei vescovi svizzeri nel 1982: il documento dell’episcopato salentino del 1985 fu dunque il primo documento episcopale collettivo in Italia, ben prima di quello della Conferenza episcopale lombarda del 1988, che peraltro aveva un approccio antropocentrico e senza quell’ampio respiro teilhardiano del pronunciamento leccese. E però il documento lombardo viene ancora ricordato[1], mentre il testo salentino è ingiustamente dimenticato.
[1] Cfr. S. Morandini, La dimensione ecologica dello sviluppo nella riflessione delle Chiese, (http://www.fttr.it/fttr/allegati/316/Chiese e Creato – prof. Morandini.doc).
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