TONINO BELLO, UOMO DA NON DIMENTICARE

Don Tonino Bello era morto da alcuni mesi e la rivista CONTESTO, percorsi di alternativa, rivista culturale dell’associazione “Chico Mendes” con sede in Brindisi (che ha pubblicato 18 numeri dal settembre 1992 al dicembre 1995) ospitava questa riflessione sul vescovo di Molfetta di Angelo Colucci, per molti anni parroco della diocesi di Brindisi e Ostuni e assistente della Gioventù Operaia Cristiana (GIOC).

Mi si chiede di scrivere di don Tonino Bello, vescovo.

Non intendo tessere un ennesimo elogio funebre. Sia perché sono passati ormai sette mesi circa dalla sua morte. Sia perché ne ha già avuti tanti, anche troppi forse, e magari da persone che da vivo non l’ hanno certo apprezzato ed elogiato. E sia anche perché pure il mio rischierebbe di essere un vero e proprio “coccodrillo” dato che, pur avendo sempre ammirato la sua facilità di parola, il suo stile inconfondibile e pur avendo apprezzato le sue scelte coraggiose, non nascondo di aver attribuito a volte una dose di teatralità alla sua “oratoria” e una componente di ostentazione ai suoi gesti  più clamorosi. Non posso neppure comunicare una  mia “testimonianza” su di lui, magari arricchita di “fioretti edificanti”, perché non sono tra coloro che hanno avuto la fortuna di frequentarlo e di “godere” della sua amicizia.

Ho solo ascoltato un suo intervento alla marcia di Pax Christi di Reggio Calabria nella notte di capodanno 1988. Non sono neppure tra quelle migliaia di persone che hanno vissuto la intensissima esperienza dei suoi funerali. E me ne rammarico.

Ho comunque seguito sempre con attenzione il suo ministero e le sue vicende attraverso la stampa, ma soprattutto ho letto con molto interesse ed ho gustato con intenso godimento estetico e spirituale la sua originalissima prosa poetica. Ed è sulla figura di uomo, di cristiano e di vescovo  che emerge dai suoi scritti che si basano le considerazioni che propongo alla riflessione dei lettori di CONTESTO.

IL SOGNATORE

La prima impressione che ho sempre ricavato dai suoi discorsi e dai suoi scritti è stata quella di trovarmi di fronte a dei racconti di sogni. Lo stesso stile così traboccante di immagine e di simboli tradisce la radice onirica delle sue parole. Ho sempre avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad un instancabile ed incorreggibile “sognatore”.

Un “vescovo” sognatore. Un vescovo che si estasiava dinanzi ai grandi “sognatori” della storia (soprattutto biblica) e continuava a sostenere per il mondo e per la chiesa di oggi, la necessità  di uomini ‘capaci di sognare a occhi aperti. Ritorna di frequente nei suoi scritti l’appello a non  perdere l’abitudine a sognare. Una sua lettera a Giuseppe. L’ebreo figlio di Giacobbe comincia proprio così: 

Carissimo Giuseppe, la domanda la giro a te che te ne intendi: se cioè, la razza  dei sognatori sia utile all’umanità oppure va combattuta, proprio per quella carica di  fuga che il sogno sembra favorire (1).

E proprio dalla vicenda di Giuseppe, famoso sognatore e interprete di sogni, trae la conclusione che  

Non bisogna sparare sui sognatori. Perché, a dispetto di ogni realismo scientifico, che pretende di far tenere ad ogni costo i piedi per terra, coloro che oggi  camminano con la testa per aria saranno gli unici ad aver ragione domani (2).

A gennaio ’93 quando ormai mostrava visibili sul corpo i segni del tumore che lo stavano consumando, dopo aver guidato la marcia dei 500 pacifisti su Sarajevo  ed aver partecipato alla marcia di Pax Christi la notte di capodanno,  così si esprimeva rispondendo alle domande di ADISTA:

Bisogna abituarsi di più a sognare, a sognare a occhi aperti; i sogni  ad occhi aperti si realizzano sempre. Siamo troppo chiusi nelle nostre prudenze della Carne, non dello Spirito, per cui sembra che siamo i notai dello status quo, e non i profeti  dell’aurora che irrompe, del futuro nuovo, dei cieli nuovi, delle terre nuove (3).

I SOGNI

            Elencare ed analizzare lai innumerevole serie di sogni che hanno affollato le  notti e i giorni di questo vescovo richiederebbe tempo, spazio e… penna di cui onestamente non dispongo. Ritengo comunque ‘che tutti i sogni di don Tonino possono ricondursi a due fondamentali: “L’ULIVO” per il mondo e “IL GREMBIULE” per la chiesa. Queste pagine vogliono essere il  tentativo di offrire ai lettori di Contesto la possibilità di contemplare con me questi sogni attraverso le stesse parole con cui egli li ha ripetutamente ed efficacemente espressi.

  1. IL RAMO D’ULIVO

Il primo grande sogno di don Tonino è stato appunto un mondo nuovo dove “non sono le armi l’unico strumento per risolvere i conflitti internazionali e i conflitti tra i  popoli” (4). Questo suo grande sogno genera in lui la certezza che “le armi hanno ormai il tempo contato. Quando lo sforzo di coloro che si impegnano per la pace avrà smascherato fino in fondo la gazzarra dei mercanti di armi, allora senz’altro sarà sbrecciata questa catena che collega il business degli affari con la guerra”(5).

Questo sogno e questa certezza non nascono da una rimozione o da una visione idilliaca della realtà. AI contrario si innestano proprio su una chiara e lucida coscienza della situazione attuale del mondo. Egli ha ben presente e sente rodersi dentro

            la reviviscenza continua dell’idra maledetta della guerra, a cui tagli una testa e gliene spuntano cento altre che si placa nel Golfo Persico e divampa nei paesi Balcani per poi tornare convenzionali, che mostra di svuotare gli arsenali della morte mentre sotto sotto continua a militarizzare la scienza e la ricerca (6).

A questo sogno e a questa certezza non si accompagna l’ingenua illusione che basta “vaticinare” per essere ascoltati. Egli sa benissimo che i faraoni di oggi “non sono più disponibili a dare ascolto ai profeti del sottosuolo… Gli interpreti dei sogni ci sono ancora oggi. Ma sono ridotti a funzione di  grillo parlante” (7).

Ciò nonostante, il suo sogno e la sua certezza non si traducono in  evasione e disimpegno anzi, pur ripetendo con convinzione che la vera pace viene dall’alto egli non si stanca mai di  ricordare a sé stesso e agli altri che

 se è vero che la pace è l’insieme dei beni messianici dobbiamo fare della pace il nostro annuncio fondamentale. Non l’accessorio delle nostre esuberanze omiletiche. Non la frangia marginale dei nostri discorsi. Non l’appendice del nostro impegno cristiano (8).

Il pacifismo di don Tonino non è il pacifismo generico, astratto, retorico dei politici e perfino dei militari.

Diciamocelo francamente: la pace la vogliamo tutti, anche i criminali; e nessuno è così spudoratamente perverso, da dichiararsi amante della guerra. Ma la pace perseguita da una lobby di sfruttatori è la stessa perseguita dalle turbe degli oppressi? La pace delle multinazionali coincide con quella dei salariati sottocosto? La pace voluta dai dittatori si identifica con quella sognata dai  perseguitati politici?(9).

La pace vera è un dono di Dio. Viene dall’alto. E’ Ia pace che la Chiesa è chiamata a proclamare e promuovere. Ma neppure la Chiesa è sempre credibile quando parla di pace. Non si può scommettere neppure sulla pace proclamata dagli uomini di chiesa se si limitano

a chiedere la pace in chiesa e poi non muovere un dito per denunciare la corsa alle armi il loro commercio clandestino… Per impedire la crescente militarizzazione del territorio. Per smascherare la logica di guerra sottesa a tante scelte pubbliche e private. Per indicare nelle leggi dominanti del mercato i focolai della violenza. Per accelerare l’accoglimento di criteri che favoriscano un nuovo ordine internazionale. Per tracciare i percorsi concreti di una educazione autentica alla pace. Per esporsi magari anche con i segni paradossali ma eloquenti dell’ obiezione di coscienza, in  tutte le sue forme e sui crinali della contradizione (10).

Le parole di pace non sono credibili  se non si traducono in scelte concrete e precise. L’uomo autenticamente pacifico  non disdegna “le scelte di campo, le prese  di posizione, le decisioni coraggiose, le testimonianze  audaci, i gesti profetici”(11).

            E don Tonino ha corredato il suo pacifismo di numerose ed inequivocabili scelte. La  pace sognata da don Tonino non è la pace “armata” dei teorici della deterrenza. Non esige solo l’eliminazione delle armi  chimiche e nucleari. Non condanna solo il  commercio clandestino delle armi ma anche il commercio palese e la stessa produzione delle armi. E’ la pace che nasce dal comandamento evangelico  dell’amore e quindi  radicalmente “disarmata”.  Di qui l’ineludibile scelta della nonviolenza.

E’ giunta l’ora in cui occorre decidersi ad arretrare (arretrare o spingere?)  la difesa della pace sul terreno della non violenza assoluta… La nonviolenza è la strada che Gesù Cristo ci ha indicato senza equivoci (12). La scelta nonviolenta di Cristo  non solo deve ripercuotersi nella nostra  prassi ma deve anche risuonare  sule nostre labbra. Senza tanti “se”, senza tanti “ma”  (13).

La scelta della nonviolenza assoluta si traduce in prese di posizione coraggiose e controcorrente. Don Tonino è stato uno  dei più  tenaci oppositori dell’ intervento mlitare in Irak scatenando così “la sufficienza dei dotti, l’ ira dei potenti, lo scandalo dei più, il compatimento dei superficiali, l’ indifferenza della massa”(14). Quando già era in atto l’embargo nei confronti dell’Irak, e si profilava, tra il consenso ed il plauso generale, l’intervento armato sponsorizzato  dalle Nazioni Unite così scriveva:  

E’ forse meno iniqua la violenza quando il suo monopolio si trasferisce dalle  sovranità nazionali a quelle internazionali, così come è avvenuto con la recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza? O, per caso, una guerra sponsorizzata dall’ ONU si potrebbe fregiare  come giusta, riprendendosi così un aggettivo da cui una lunghissima  riflessione morale la stava ormai dissociando? O il disco verde, anche se rilasciato all’unanimità dai plenipotenziari della terra, libererebbe la coscienza di tutti dal rosso del sangue innocente ? (15).

L’impegno per la pace non è mai a buon mercato. Porta alla croce. 

Veri pacifisti sono i martiri della pace.

Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime, di incomprensione e di sangue. La pace è il nuovo martirio a cui oggi la chiesa viene chiamata…. E come nei primi tempi del cristianesimo i martiri stupirono il mondo con il loro coraggio, così oggi la chiesa dovrebbe far ammutolire i potenti della terra per la fierezza con cui, noncurante della persecuzione, annuncia, senza sfumature finali come nel canto gregoriano, il vangelo della pace e la prassi della nonviolenza.

E’ chiaro che se invece di far ammutolire i potenti ammutolisce lei, si renderebbe complice rassegnata di un efferato crimine di guerra (16).

lo non essendo vescovo posso ancora essere più spregiudicato nei miei sogni e permettermi di sognare una chiesa che ritira i cappellani militari dall’esercito e che invece di accanirsi ad imporre pesi insopportabili  sulle spalle dei coniugi cristiani, proclami con più forza e senza tante distinzioni, la incompatibilità della scelta cristiana con la partecipazione a qualsiasi titolo alle strutture militari alla produzione, l’uso e la commercializzazione delle armi. Una chiesa in cui il Papa non esalti più le potenzialità “educative”(!?!?) del servizio di leva, rinunci alle guardie svizzere, al titolo e agli onori di capo di stato e chiuda tutte le nunziature. Una chiesa che si affretti ad eliminare dal catechismo universale, appena pubblicato, i paragrafi nei quali si ammette, in alcuni casi, la liceità della pena di morte ed in cui si ipotizzano ancora guerre che possono fregiarsi dell’appellativo di “giuste”. Insomma mi sia permesso almeno di sognarla una chiesa che invece di assolutizzare una morale sessuale, che a mio parere non sempre ha chiari ed inequivocabili fondamenti nella Parola del Signore, assolutizzi invece il comandamento veterotestamentario del “non uccidere” e quello evangelico dell’amore anche dei nemici.

2 – IL GREMBIULE

Così don Tonino illustra il rito della lavanda dei piedi: “Quel curvarsi sui piedi della gente; (starei per dire: senza guardare in faccia a nessuno, poco importa chi sia il proprietario di quelle impoetiche propagini anatomiche) è l’icona della CHIESA COL GREMBIULE chiamata a servire i fratelli“ (17).

E’ naturale e ovvio che nei sogni di un vescovo ritorni insistente la chiesa ma non-altrettanto ovvio e naturale è che un vescovo sogni la chiesa “col grembiule” una chiesa cioè che sull’esempio di Gesù nell’ultima cena, si alza in piedi, si toglie vestiti, si giunge di un grembiule e si mette a lavare i piedi agli apostoli. L’immagine di chiesa che maggiormente.si addice ai sogni della maggioranza dei vescovi è quella simboleggiata dal pastorale, dalla casula, dalla mitra. La chiesa col grembiule non mi sembra raggiunga moltissimi indici di preferenza. Nel simbolo del “grembiule” è racchiuso il sogno di una chiesa “serva” de poveri e di una chiesa “povera”  essa stessa.

CHIESA “SERVA” DEI POPOLI

Il sogno di una chiesa “serva” implica anzitutto il sogno di una chiesa “incarnata”.  Uno dei più grossi problemi con cui Ia chiesa universale e le chiese locali sono perennemente chiamate a cimentarsi è il problema del rapporto col mondo, con la storia. L’ atteggiamento della chiesa di fronte al mondo si muove spesso tra la contrapposizione, la fuga o la omologazione. La consegna chiara di Gesù ad essere “nel” mondo senza essere “del” mondo viene facilmente ribaltata tanto che le nostre chiese. e gli uomini di chiesa appaiano, e spesso lo sono realmente, molto “del” mondo e poco “nel” mondo.

Don Tonino ha espresso il suo sogno di una chiesa evangelicamente incarnata non immagine della samaritana che, lasciata la brocca e lo stesso Gesù vicino al pozzo, “andò” in città”. E 

Andare in città significa intraprendere la fatica del viaggio meridiano e andare a piazzarsi nel centro della piazza, dove ferve la vita, dove passa: la gente, dove si costruisce la storia.

Significa piantarsi all’incrocio delle culture non per catturarle o per servirsene. ma per orientarle e servirle. Significa sporcarsi  le mani, imbrattarsi il vestito, sperimentare l’inedito (18).

            L’ espressione “piazzarsi nel centro della piazza” mi sembra alquanto ambigua perché potrebbe avallare la tendenza storica della chiesa ad insediarsi in spazi che non  le competono, a piazzarsi nei posti “strategici, ad occupare i centri del potere, un tempo in prima persona ed oggi tramite i cosiddetti “partiti cattolici”. Ma non è certo questo il senso che don Tonino dà all’espressione. Difatti egli stesso, forse consapevole e preoccupato di una simile possibile interpretazione, si affretta a precisare che

            Andare in città non significa mettersi in piazza per ricompattare la gente, per aggregare squadroni, per occupare spazi in concorrenza con le culture del tempo e con le ideologie mondane. Non significa ricristianizzare il mondo annettendoselo, esprimendo egemonie sociali, rinsaldando le fila in vista della riconquista di spazi perduti, perseguendo progetti temporalistici (19).  

            Non è difficile constatare quanto sia lontano da questo sogno l’ostinazione con cui la chiesa continua, nei fatti se non nelle dichiarazioni di principio, a ricercare una presenza politica compatta e visibile dei cattolici in contrapposizione e in alternativa alle altre forze in campo. Ne è prova per I’Italia il favore sempre crescente accordato  ad organizzazioni decisamente integriste come C.L., i reiterati interventi della gerarchia per correggere se non vanificare la cosiddetta “scelta religiosa” dell’A.C. nonché la persistente quanto anacronistica difesa dell’unità politica dei cattolici.

            La chiesa del grembiule non basta che sia  incarnata”, occorre anche che sia “schierata”. Occupare il centro della piazza non significa assumere una posizione neutrale, optare per l’interclassismo, occupare il “centro” dello schieramento politico. Una  chiesa che pretende di essere l’agenzia periferica del Padre “difensore degli orfani e delle vedove”, il sacramento di Colui che è  venuto ad annunciare la buona novella ai poveri, a proclamare ai prigionieri la liberazione e la vista ai ciechi; a mettere in libertà gli oppressi; una chiesa che aspiri ad essere L’icona di Colei che ha cantato la caduta dei potenti dai troni e l’innalzamento degli umili, non può non essere decisamente schierata dalla parte dei poveri, degli  oppressi, degli ultimi.

Il sogno di una chiesa serva degli “ultimi” è così insistente negli scritti di don Tonino che l’urgenza e la necessità di una scelta di campo a favore dei poveri è un ritornello talmente costante da urtare buona parte di coloro che lo ascoltavano o lo leggevano se, nell’omelia per la festa di S. Corrado  pronunciata nella cattedrale di Molfetta il 02.02.85, si esprime in questi termini: “Mi si dice che parlo col broncio. Mi si addebita l’atrofia di un discorso monocorde che varia sempre sul ritornello degli ultimi, dei poveri, degli emarginati” (20).

Certo la chiesa ha sempre avuto presente i  poveri nei suoi discorsi ed anche nella sua azione. E allora qual è il sogno? Il sogno è che la chiesa compia un grosso passaggio “dalla carità dossologica alla carità politica”.

Si tratta di entrare nel disagio strutturale della gente per liberarla non con i gesti assistenziali dell’elemosina  ma con i gesti educativi,  aiutando i poveri a vincere l ‘inerzia che li lega al proprio stato (21).

E’ ancora più esplicitamente

 Scegliere i poveri non significa organizzare l’assistenzialismo, allestire soccorsi di emergenza, moltiplicare i pacchi dono, tamponare le falle della miseria con i mantelli della beneficienza, coprire con le toppe della carità gli strappi della giustizia (22).

La scelta degli ultimi ed il passaggio della carità dossologica alla carità politica; il passaggio dalla “consolazione” degli oppressi alla loro “coscientizzazione” non è compatibile con l’immagine di una chiesa legata al suo tradizionale ruolo di solido puntello dello “status quo”, ma esige il recupero della sua originale funzione profetica. Di qui il sogno di una chiesa che dia

 trasparenza alle sue parole che non si lasci lusingare dai potenti dicendo mezze frasi soltanto. Che mandi all’aria tutte le regole della diplomazia quando c’è da condannare l’ingiustizia, la violenza, le manipolazioni dell’uomo, la guerra, le produzioni delle armi, la violazione dei diritti umani, lo sterminio per fame di popoli interni(23).

Chiesa “povera”

Don Tonino non si ferma a sognare una chiesa schierata dalla parte degli ultimi, degli oppressi, dei poveri, ma si spinge a sognare 

Una Chiesa povera, semplice, mite. Che sperimenta il travaglio umanissimo della perplessità. Che condivide con i comuni mortali la più lancinante delle loro sofferenze: quella della insicurezza. Una chiesa sicura solo del suo Signore e, per il resto, debole. Ma non per tattica, bensì per programma, per scelta, per vocazione… Una chiesa che condivide la storia del mondo. Che sa condividere con la complessità, che lava i piedi al mondo senza chiedergli nulla in contraccambio, neppure il prezzo di credere in Dio,  di pedaggio di andare alla Messa la domenica…(24) .

Nel vangelo di S. Giovanni al cap. 13 si legge che Gesù per poter lavare i piedi agli apostoli, “depose le vesti” e si “cinse di un asciugatoio”. E così il celebrante nella messa in coena Domini del Giovedì Santo non indossa l’asciugatoio sopra la casula ma anch’egli come Gesù prima “depone” la casula e poi “si cinge” nell’asciugatoio. A significare appunto che non si possono indossare le vesti del servo sui paramenti  regali. La chiesa non può scegliere i poveri e restare ricca. Il sogno quindi è che la chiesa per indossare il grembiule e mettersi al servizio dei poveri deponga…

 … le vesti del tornaconto, del calcolo, dell’interesse personale per assumere, la nudità della comunione. Le vesti della ricchezza, del lusso, dello spreco, della mentalità borghese, per indossare le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza. Le vesti del dominio, dell’arroganza, della egemonia, della provocazione, dell’accaparramento, per ricoprirsi dei veli della debolezza e della povertà (25).

Coltivo anche io il sogno della Chiesa che, smaniosa di indossare il grembiule del servo, si spoglia dello “scudo” del partito cattolico, della “bisaccia” piena di miliardi provenienti dall’otto per mille, del ‘business” dell’insegnamento stipendiato della religione cattolica nelle scuole statali, della ‘carrozza’ del Concordato. Anche don Tonino ha sognato una chiesa che rifugge dai “concordati” con i potenti della terra:

Quante volte la paura di  perdere i privilegi, non ci blocca la profezia sulle labbra, se pure non ci rende complici di tante ingiustizie perpetrate sulla pelle dei poveri! T’immagini tu  Battista – dice don Benedetto a don Angelo – offrire un concordata a Erode, per sfuggire alla decapitazione? T’immagini Gesù offrire un concordato a Ponzio Pilato per evitare la crocefissione (26).

 No, non me lo  immagino affatto. Ma ho visto (non immaginato) il Vaticano, prima offrire un concordato a  Mussolini e poi, anche dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, offrirlo al suo degno emulo Bettino Craxi.

 La mia mente comunque si spinge fino a sognare una chiesa che si libera non solo delle ricchezze e del potere ma anche della loro “apparenza” e dei loro “simboli”: palazzi vescovili che in tanti centri storici gareggiano in sontuosità con i castelli dei signori e si ergono maestosi al di sopra degli ultimi tuguri dove abita la povera gente; troni, insegne, stemmi, abiti…, titoli come “Santità”, “Santo Padre”, “Eminenza o Eccellenza  Reverendissima”, “Monsignore”  “Reverendo”, “Don” (= Signore), e perfino “Padre” perché decisamente in contrasto con la consegna di Gesù: ”… voi non fatevi chiamare “rabbi” perché uno  solo è il vostro maestro  e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il vostro Padre, quello del cielo. E non fatevi  chiamare “maestri” perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo: chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato” (Mt.23).

Sognare una chiesa povera significa “sognare una chiesa che, deposto l’abito dell’“apologia”, indossa  il saio “penitenziale “. Quante  volte ho sperato di poter cogliere nei documenti magisteriali, nei discorsi del papa e dei vescovi un riconoscimento di errori, una confessione di colpe, una parola di pentimento, una richiesta di perdono… E invece la chiesa, mentre predica la conversione ed esige la penitenza dai singoli fedeli  a livello comunitario ed istituzionale persiste nell’atteggiamento di ostinata impenitenza. Molti, credenti e non credenti, in occasione del centenario della scoperta dell’America, si aspettavano un cenno di pentimento da parte della chiesa per il genocidio  di popoli e culture perpetrato dai cattolici “evangelizzatori” del nuovo mondo e invece anche questo evento è stato occasione per trionfalistiche celebrazioni dei meriti e delle imprese della chiesa. Una solenne liturgia in cui ancora una volta è  mancato il “confiteor” perché come malinconicamente ha riconosciuto lo stesso don Tonino “a quanto pare l’occidente, tra osanna e acclamazioni, tra alleluia e dossologie non sembra proprio disposto a confessare le sue colpe,  le sue colpe, le sue grandissime colpe nei confronti di tante popolazioni indigene che ha letteralmente schiacciato nella sua voluttà di dominio” (27).

L’ultima e più eclatante occasione per la chiesa italiana  per indossare il saio penitenziale è proprio di questi ultimi mesi nei quali l’inchiesta “mani pulite” sta portando alla luce tutto il marcio che si nascondeva dietro lo “scudo crociato” della Democrazia Cristiana. Credevo che i vescovi avrebbero finalmente riconosciuto gli incalcolabili danni pastorali provocati dalla identificazione della chiesa italiana con un partito politico. Avevo sognato di ascoltare finalmente i vescovi chiedere perdono ai cattolici che hanno votato la D.C. in questi anni per ubbidire ai reiterati richiami dei vescovi all’unità politica, ai cattolici che hanno ubbidito per il trauma causato alla loro coscienza e a tutti gli italiani per tutti i danni subiti da 50 anni di potere democristiano. E invece il cardinale Ruini continua a sostenere che la chiesa non ha nulla da rimproverarsi, nulla di cui chiedere perdono nessun motivo per cambiare. Non mi resta che continuare a sognare con don Tonino il tempo in cui

 la chiesa darà chiari segni di pentimento (senza vergognarsi di farlo per i suoi peccati, per le sue collusioni col potere, per i suoi amoreggiamenti con i cinque mariti (28), per i suoi silenzi davanti alle ingiustizie e alle minacce contro la pace. Quando la chiesa avrà compreso che dichiarare le proprie colpe davanti al mondo non è un’operazione demagogica tesa a capitalizzare riserve di simpatia, ma è il passaggio ineludibile perché il mondo esca dalle mura di Samaria per andare al pozzo” (29).

Quando la gerarchia imparerà che solo se ha il coraggio di riconoscere e di togliere le “travi” che porta nei suoi occhi, potrà avere il diritto di guardare e di  puntare il dito contro le “pagliuzze” che scorge negli occhi degli altri. Prima cioè di alzare la voce contro le violenze, le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani che si perpetrano nei paesi dell’America centrale e meridionale, del Sud Africa, del Mozambico, nei Balcani, riconosca condanni ed elimini le numerose violenze, ingiustizie e violazioni dei diritti umani che purtroppo non mancano neppure nella chiesa. Non c’è infatti bisogno di andare tanto indietro nella storia per vedere come nella chiesa si continua a mantenere la donna in condizioni di palese quanto umiliante inferiorità; come in essa viene ancora criminalizzato il dissenso a tutti i livelli; quale sorte viene tuttora riservata a tanti autentici “profeti” (Mazzolari, Milani, Turoldo, Balducci,….)  salvo poi ad innalzare loro monumenti per “normalizzarli” post mortem quando non gli è riuscito in vita; e in quale condizione di estrema emarginazione, e a volte anche di  miseria, vengono costretti i preti, le religiose e i religiosi che si sono sposati.  

Mi fa scandalo che nella chiesa si impedisca ad un prete che ama una donna (a meno che non riesca a nasconderlo) di “mantenere il suo stato, di esercitare il ministero e di svolgere ruoli e compiti concessi anche ai laici, mentre restano tranquillamente al loro posto tanti preti innamorati dei soldi e del potere.

CONCLUSIONE

Non so se io avrò la gioia prima di morire, di vedere realizzati, almeno in parte, i miei sogni. Don Tonino non l’ ha avuta. Un male terribile gli ha negato la gioia di contemplare la terra promessa di un mondo rappacificato e di una chiesa finalmente spoglia dei’ “segni del potere” e affidata al ”potere dei segni”. Mi sembra ora di potermi  rivolgere a lui parafrasando  una sua lettera a Mosè:

Carissimo don Tonino,

ci saremmo aspettati tutti il tuo ingresso nella terra di Canaan, verso cui avevi guidato il popolo della pace. Invece no. Non hai assaporato l’ebbrezza della gloria! Hai lasciato ad altri la mietitura degli applausi. Ti sei fermato in vista della meta, sospirata per quarant’anni. Il tuo, proprio come avevi desiderato, è stato un tramonto lontano dalle luci della ribalta. Col  cuore ancora gonfio di passione per la vita. Con gli occhi  fiammeggianti  nel riverbero  di cento ideali. E col dito puntato verso la terra: dei tuoi sogni(30).

Certamente questa presentazione della figura e del pensiero di don Tonino non ha la presunzione della completezza, e nemmeno della obiettività, condizionata com’è dalla mia scarsa conoscenza diretta di lui e dal mio particolare angolo di lettura. Forse Mons. Ruppi, vescovo di Lecce, mi avrebbe incluso tra coloro che “tradiscono la sua memoria e lo sviliscono in riconoscimenti marginali, perdendo di vista la sua spiritualità, che consiste in un grande amore alla Chiesa, in un grande amore  alla Madonna, in un grande amore alla sua terra, alla sua città” (31).

Senza mettere in dubbio nessuno di questi tre grandi amori (anche se forse la sua spiritualità doveva comprendere anche un grande amore per Cristo!) mi sembra che proprio riducendo ad essi la spiritualità di don Tonino si “tradisce la sua memoria” e lo si “svilisce in riconoscimenti marginali”. Questi amori fanno parte della spiritualità di ogni vescovo, Don Tonino non era un vescovo qualunque. Ciò che mi pare caratterizzare la sua spiritualità, ciò che ha fatto di lui, come ha detto Mons. Mincuzzi,  “un vescovo nuovo, inedito, originale in mezzo alla mediocrità tanto diffusa” sono le sue coraggiose prese di posizione, il suo amore viscerale per i poveri, i suoi gesti impossibili (l’accoglienza degli sfrattati nell’episcopio, la marcia pacifica su Serajevo…) la sua umanità, la sua povertà, la sua semplicità, la sua passione per la pace, il suo urto profetico…Tutte cose che difficilmente riscontrano nella spiritualità di molti vescovi, anche se amanti della chiesa e devotissimi della Madonna. 

A coronamento  di queste riflessioni propongo alla meditazione di quanti leggeranno queste pagine, l’ultimo messaggio che dalla “cattedra del dolore” don Tonino ha invitato a Pax Christi e a tutto .il popolo della pace:

Vi mando un saluto ed esprimo la mia gratitudine perché ci siete. Il pensiero che esiste un popolo sommerso – anzi non sommerso ma  palese –  mi dà un coraggio  enorme anche in questo stato di sofferenza in cui mi trovo, perché vedo che davvero i frutti del Signore crescono. E vorrei dirvi:  non lasciatevi abbattere dalle difficoltà, perché sul cammino della pace chissà quanti ostacoli incontrerete, quante incomprensioni.

La pace è a caro prezzo, non costa poco. Bisogna spendere molto e voi spendetelo con gioia, perché ne vale veramente la pena. II. mondo  cambierà, non può andai così. Più giù di così non può andare. Ma starei per dire che il mondo non ha mai vissuto momenti così esaltanti, per un verso, come quello che sta vivendo oggi; momenti di speranza, momenti in cui le gemme che ci sono sui rami oltrepassano di gran lunga la tristezza delle foglie secche che stanno ai piedi degli alberi. Il Signore vi benedica.

                      Contesto, anno III, n. 8/1994, pp. 6-17                                                                             

Note

  • A.BELLO, Ad Abramo e alla sua discendenza, Ed. La Meridiana, Molfetta, p. 49.
  • Ibidem, p. 51.
  • ADISTA, 5/93, p. 8.
  • ibidem, p. 7-8.
  • Ibidem, p. 8.
  • A. BELLO, Nella casa comune compagni dell’uomo, testimoni dello Spirito, in “Rocca”, 1/92, p. 34.
  • aut. cit., Ad Abramo, op. cit., p. 55.
  • aut. cit., Lessico di comunione, Ed. Insieme, Terlizzi, 1991, p. 57.
  • aut. cit., Sui sentieri di Isaia, Ed. La Meridiana, Molfetta 1989, p. 10.
  • ibidem, p. 12.
  • ibidem, p. 12.
  • ibidem, p. 15.
  • aut. cit., Lessico, op. cit., p. 63.
  • aut. cit., Ad Abramo…, op. cit., p. 55.
  • aut. cit., ibidem, op. cit., p. 18.
  • aut. cit., Sui sentieri…, op. cit., p. 16.
  • aut. cit., Lessico, op. cit., p. 68.
  • ibidem, p. 148.
  • ibidem, p. 148/149.
  • ibidem, p. 177.
  • ibidem, p. 261.
  • ibidem, p. 178.
  • aut. cit., Sentinelle del mattino.
  • aut. cit., Sui sentieri…, op. cit., p. 192/193.
  • aut. cit., Lessico…, op. cit., p. 166.
  • aut. cit., Nella casa…, art. cit., p. 33.
  • aut. cit., Ad Abramo…, op. cit., p. 90.
  • Il riferimento è ai cinque mariti della Samaritana del cap. 4 del Vangelo di Giovanni.
  • A.BELLO, Lessico …, op. cit., p. 151.
  • aut. cit., Ad Abramo…, op. cit., p. 60.
  • ADISTA, 5/93, p. 8.
  • ADISTA, 32/93, p. 10.

(Si ingrazia Angela Colasuonno per l’editing del testo)

One Reply to “”

  1. Don Tonino Bello è “Milagro”; la bambina povera dell’Argentina che prese in braccio mentre sul tavolo della estrema povertà della casa fatiscente il Vangelo aperto era la speranza che restava in tutta la povertà Argentina difronte alla ricchezza dei piani superiori della collina Argentina. Milagro è quella bambina ed è la speranza simbolo raccolto dal Vesvovo Bello in quelle terre. Prima di essere un suo racconto è una testimonianza che ferma il cervello a pensare, a rivedere, a testimoniare, a realizzare una vita di impegno per davvero: senza far passare altro tempo. Milagro in argentino vuol dire “miracolo”.

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