LA GALILEA LETTERARIA DI PAPA FRANCESCO

LA GALILEA LETTERARIA DI PAPA FRANCESCO

Pochi giorni fa Papa Francesco ha concesso la sua prima ampia intervista sulla crisi mondiale causata dalla pandemia di coronavirus ad Austen Ivereigh, scrittore e giornalista britannico.

L’intervista è stata pubblicata contemporaneamente l’8 aprile 2020 a Londra e a New York ed è stata tradotta ufficialmente in italiano da La Civiltà Cattolica:

Il giornalista ha inviato sei domande al papa che dopo una settimana gli ha inviato una comunicazione con alcune riflessioni sulle sei domande. L’intervista è avvenuta in spagnolo.

C’è un filo conduttore dell’intervista che lega insieme tre sentimenti per il prossimo futuro:

-una preoccupazione e attenzione per gli scartati della società nella seconda fase, che ancora dovrà aprirsi, di questa drammatica pandemia: i senza casa, i senza lavoro, coloro che hanno perduto o stanno per perdere tutto, i carcerati, gli anziani soli;

– la convinzione che ogni crisi è un pericolo, ma è anche un’opportunità;

-il bisogno di una sana tensione tra disordine e armonia, tra istituzione e carisma nella chiesa.

Per i contenuti completi dell’intervista rinviamo al testo ufficiale.

Nelle risposte alla seconda, alla quarta e alla sesta domanda Bergoglio fa riferimenti e citazioni di autori classici della nostra letteratura: Virgilio, Manzoni e Dostoevskij. Lo sguardo di Francesco è ricco di esperienza pastorale diretta ma anche di letture che lo hanno nutrito.

Perché e come Bergoglio recepisce il pensiero di questi autori?

Questo è lo scopo di queste schede. Non ci interessa un mero esame letterario e scolastico. Ci interessa cogliere il metodo che Bergoglio usa: entrare nel cortile dei Gentili, imparare anche dall’umano, dalla poesia, dalla letteratura e dall’arte la via che porta al trascendente e al divino.

Ecco spiegato il titolo: la Galilea delle genti è il luogo in cui Gesù il vivente ordina ai suoi discepoli di andare: “Ecco, vi precede in Galilea» (Matteo 28, 7). Non a Gerusalemme al luogo sacro per eccellenza, come ci saremmo aspettato. L’annuncio della nuova vita, invece, è lontano e fuori dai recinti sacri. Essa è nella “Galilea delle genti”, cioè è in tutto ciò che ha l’aspetto dell’umano, in qualsiasi forma, a cui portare e da cui imparare la novità dello spirito. La parola spirito significa respiro, aria che si muove. Ed è proprio ciò che toglie il coronavirus. La guarigione da esso è avere un nuovo respiro, un nuovo spirito, una nuova spiritualità.

La spiritualità non è andare in Chiesa: è qualcosa che riguarda tutti gli esseri umani che vogliono essere liberi, cioè tutti quelli che si pongono il problema di gestire le raffiche di vento che hanno dentro. Non di eliminarle, né di rimuoverle. Perché è questo caos che ci distingue da tutti gli altri esseri viventi e ci rende uomini” (Vito Mancuso).

Dedichiamo tre schede ai tre autori citati da Bergoglio nell’intervista al giornalista inglese per tracciare le linee di questa nuova spiritualità che può nascere da questa crisi.

  1. Troia brucia

Bergoglio nella intervista di Austen Ivereigh cita per tre volte l’Eneide di Virgilio:

  • Mi viene in mente un verso dell’Eneide che, nel contesto della sconfitta, dà il consiglio di non abbassare le braccia”; e questo per spingere alla creatività, per aprire orizzonti nuovi, aprire finestre, aprire trascendenza verso Dio e verso gli uomini. “Preparatevi a tempi migliori…Abbiate cura di voi per un futuro che verrà…Avere cura dell’ora, ma per il domani”. Bergoglio non precisa quale è il verso dell’Eneide a cui fa riferimento.
  • “Mi viene ancora in mente un verso di Virgilio: Meminisse iuvabit. Farà bene recuperare la memoria, perché la memoria ci aiuterà. Oggi è tempo di recuperare la memoria”. Prima ha affermato: “Oggi, in Europa, quando si cominciano a sentire discorsi populisti o decisioni politiche di tipo selettivo non è difficile ricordare i discorsi di Hitler nel 1933, più o meno gli stessi che qualche politico fa oggi”.

Il “meminisse iuvabit” (farà piacere ricordare) è parte del noto verso virgiliano “forsan et haec olim meminisse iuvabit“ (forse un giorno proveremo piacere nel ricordarci anche di queste cose), (Aen. I, 203), con cui Enea rincuora i compagni dopo la tempesta che li ha gettati sulle spiagge libiche. Bergoglio usa il motto virgiliano come previsione che un giorno sarà piacevole, oppure utile, opportuno, ricordare gli avvenimenti attuali ma anche i tanti fatti del passato analoghi all’attuale pandemia che sono passati e che, purtroppo, sono stati “ridotti ad aneddoti”, senza aver cambiato nulla.

  • Alla fine dell’intervista ritorna il riferimento all’Eneide: “È un verso magnifico:Cessi, et sublato montem genitore petivi (Mi rassegnai e sollevato il padre mi diressi verso il monte). Il verso si trova alla fine del Libro II, 800-804: “Ed ecco già la stella di Venere si levava dalla più alta cima del monte Ida; ed i Greci tenevano assediato l’ingresso delle porte, né speranza alcuna si presentava per soccorrere la città. Mi rassegnai, e sollevato il padre, mi diressi verso il monte”.

Commenta Bergoglio: “quando Enea, sconfitto a Troia, aveva perduto tutto gli restavano due vie d’uscita: o rimanere là a piangere e porre fine alla sua vita, o fare quello che aveva in cuore, andare oltre, andare verso i monti per allontanarsi dalla guerra”.

Con le spalle rivolte alla immane tragedia di Troia che brucia, Enea si carica sulle spalle il padre Anchise, prende per mano il figlio Ascanio e parte per un’altra avventura, per la costruzione di un altro destino.

Bergoglio conclude: “Quello che chiedo alla gente è di farsi carico degli anziani e dei giovani. Di farsi carico della storia”. “È questo che tutti noi dobbiamo fare oggi: prendere le radici delle nostre tradizioni e salire sui monti”.

Virgilio e il tramonto dell’Occidente

La recezione di Virgilio, un classico pagano, da parte di Bergoglio non è sterile erudizione. Si inserisce nella scia di tanti letterati e uomini di cultura per i quali la recezione di un classico è fecondo rapporto dialogico tra passato e presente, è la ripresa del filo che unisce esperienza presente e passata, è possibilità di rigenerazione di un testo di ieri per ricavare indicazioni per tracciare un nostro futuro. In una situazione, pur con le dovute differenze, di somiglianza tra due crisi, quella che aveva travolto Roma nel I sec. a.C. e la crisi del nostro “Occidente” (occasus, cioè la terra del tramonto), portata ad una condizione drammatica e improvvisa dalla pandemia del coronavirus.

La recezione contemporanea dell’opera di Virgilio e in particolare dell’Eneide è molto varia e complessa sia prima della Seconda Guerra Mondiale e soprattutto nella seconda metà del Novecento.

Il recupero di Virgilio appare particolarmente significativo negli anni difficili tra le due guerre mondiali, percorsi dal senso di una fine imminente che avrebbe travolto l’Europa e la sua cultura. Come aveva scritto Valéry[1], dopo la guerra e in piena pandemia cosiddetta “spagnola”, tutti sapevano che anche le civiltà sono mortali e possono perire: «Ormai noi civiltà sappiamo di essere mortali. […] E vediamo ora che l’abisso della storia è abbastanza grande per tutti. Sentiamo che una civiltà ha la stessa fragilità di una vita».

Per la forza aggregante del simbolo, le risposte di molte voci autorevoli del ‘900 a questa fine di un’epoca e di una civiltà individuavano proprio in Virgilio un nodo ancora vitale dell’identità culturale dell’Europa con cui tentare una difficile ricostruzione culturale.

Poesia e potere, bellezza e violenza, memoria e consenso, tradizione e innovazione: sono i temi per i quali alcuni autori moderni si sono interessati di Virgilio e, in particolare, dell’Eneide.

Caduto il pregiudizio che Virgilio-Enea sia stato il cantore di Ottaviano Augusto che spense ogni residua speranza di ristabilire una repubblica nell’Antica Roma e sia stato un poeta al servizio dell’ideologia imperiale, il Virgilio recuperato e attualizzato è «meno eroe che uomo» (Caproni), rappresenta l’umanità di Enea, un Enea, senza eroismi, simbolo del viaggio della «vita d’un uomo» (Ungaretti).

Meno eroe, più uomo: Marchesi e Broch

A presentarci per primi l’aspetto umano del Virgilio classico scegliamo, fra gli altri, Concetto Marchesi e Herman Broch.

Concetto Marchesi[2] nel mito di Enea, mercificato e svilito dal ventennio di propaganda fascista, sembrava scorgere un nocciolo residuale d’umanità, riaffermato nonostante e oltre «la furia della perdizione»:

In mezzo alla strage e all’incendio c’è un uomo che piange e si trae dietro la moglie e per mano il figlio e sulle spalle il padre che porta i numi tutelari della patria, cioè lo spirito e la forza originaria della gente vinta che dovrà risorgere.

Quando numi e mortali sono congiunti nella furia della perdizione c’è qualche cosa che resta indistruttibile per l’avvenire: c’è un uomo che ha ancora delle lagrime per gli altri, che porge un soccorso agli altri, che può accogliere nell’animo insieme con l’infinito dolore una infinita speranza, e può trarre un manipolo di sperduti verso una lontana terra promessa”[3].

Marchesi si oppone all’Enea forte, immagine dell’«uomo nuovo» del fascismo. Anche attraverso la letteratura Marchesi, già nel 1930, negli anni bui che erano di lì a venire, avrebbe rifiutato ogni forma di compromissione con la dittatura e riaffermato, per l’avvenire, i valori su cui fondare una nuova ripartenza.

Herman Broch[4] è un autore austriaco. Scrive un romanzo[5], La Morte di Virgilio[6],  e narra della volontà del poeta di bruciare i rotoli dell’Eneide di ritorno da un viaggio in Grecia nel 19 a.C..

Gli storici si sono sempre chiesti perché Virgilio volesse dare alle fiamme – come molte fonti confermano – un’opera che stava componendo con enorme sforzo da ben undici anni.

Per rispondere a questa domanda Broch scrive 500 pagine.  Il cuore del libro di Broch è la descrizione di quella notte del 22 a.C. in cui Virgilio, a Brindisi, recitò, su insistenza dell’imperatore, il II libro del poema in costruzione. Ma i primi versi pronunciati dal poeta al cospetto del padrone assoluto di Roma rivelavano un progetto completamente ribaltato: non il racconto della nascita del un nuovo impero, non un inno al potere, ma il crollo di un regno antico, lo sterminio di un popolo, la fuga e l’esilio…

Virgilio trascorre il suo ultimo giorno conversando, nei pochi momenti di lucidità che la febbre gli concede, con gli amici Plozio Tucca e Lucio Vario, con il medico greco Caronda e soprattutto con Augusto. Il dialogo con l’imperatore rappresenta il centro tematico e ideologico dell’opera e ruota intorno alla ferma volontà di Virgilio di bruciare l’Eneide. Comprensibilmente Augusto si oppone alla distruzione di un testo che glorificava Roma e che egli stesso aveva commissionato e così pazientemente atteso; tuttavia, il confronto tra le due figure va al di là dell’Eneide e ha piuttosto a che fare con due diverse concezioni della storia e dell’individuo, inconciliabili.

Non distruggerà l’Eneide, secondo Broch, per un compromesso con Augusto: al culmine dello scontro tra i due, Virgilio rinuncia al suo desiderio di distruggere l’Eneide e acconsente a consegnare il manoscritto ad Augusto: il poeta ottiene infatti che alla sua morte gli schiavi di sua proprietà vengano liberati, recuperando così alla parola poetica una possibilità d’azione reale, l’occasione di un riscatto che si realizza nel ristabilimento del valore della fratellanza. La resa di Virgilio si rivela, in prospettiva teleologica, una vittoria della carità.

Broch ritiene che Virgilio è vissuto in un tempo che da molti punti di vista può venir paragonato col nostro, un tempo che era pieno di sangue, di orrore e di morte, ma proprio per questo era anche tempo di capovolgimenti e nuovi cominciamenti, un tempo in cui si annunciava il futuro.

C’è un particolare che nella lettura di Broch ci preme sottolineare: è Anchise a caricarsi sulle spalle Enea nella notte in cui Troia brucia.

La recezione del Virgilio da parte di Broch, che inizialmente intendeva presentarsi come una riflessione limitata al ruolo dell’arte alla fine di un’epoca culturale, diventa, ne La morte di Virgilio, il grandioso affresco di un artista che davanti alla morte traccia il consuntivo, con limiti e positività, di un’intera vita e di un’intera epoca.

Il monumento a Enea in Piazza Bandiera di Genova e quello a Virgilio di Brindisi

Giorgio Caproni

Nel 1956, Vallecchi pubblica Il passaggio d’Enea di Giorgio Caproni.

Un monumento in Piazza Bandiera a Genova, un fontanile in marmo realizzato nel 1726 da Francesco Baratta e collocato in una delle «piazze più bombardate d’Italia», è l’occasione per Caproni di accostarsi al mito di Enea. Il monumento ritrae Enea in fuga dalla città in fiamme, nella notte in cui Troia cade, con il padre Anchise sulle spalle e il figlio Ascanio per mano.

Da questo semplice spunto “biografico” Caproni scrive una serie di testi, per lo più prose giornalistiche, sul personaggio virgiliano.

Enea è un uomo il cui destino m’ha sempre profondissimamente commosso. Figlio e nel contempo padre, Enea sofferse tutte le croci e le delizie che una tale condizione comporta. E dico, si capisce, Enea non come progenitore della stirpe Julia, di cui non m’importa un granché, sebbene come un uomo posto nel centro d’un’azione (la guerra) proprio nel momento della sua maggior solitudine: quando non potendo più appoggiarsi a nessuno (nemmeno al padre, vale a dire nemmeno alla tradizione ch’ormai cadente grava fragilissima sulle sue spalle) egli deve operare, del tutto solo, non soltanto per sostenere se stesso ma anche per sostenere chi l’ha sostenuto fino a ieri (il padre, la tradizione) e chi al suo fianco lo segue: cioè anche per Anchise e per Ascanio, e col frutto (tutti lo sanno) che a questo ne seguì[7].

“In quel povero Enea vidi chiaro il simbolo dell’uomo della mia generazione, solo in piena guerra a cercare di sostenere sulle spalle un passato (una tradizione) crollante da tutte le parte, e a cercare di portare a salvamento un futuro così incerto da non reggersi ritto, più bisognoso di guida che capace di far da guida[8].

La rilettura di Caproni muove in direzione di una smitizzazione del personaggio: Enea diventa un popolare, un uomo comune. Appartiene a quei personaggi che, nonostante il crollo di ogni certezza, «nel caos», «riescono a conservare una loro unità e dignità di uomini, sia pure unicamente e paradossalmente basata sul puro e semplice dovere di vivere»[9].

Il significato di quest’Enea che sorprende e fa commuovere Caproni risiede sia nella dialettica di relazioni che si istaurano fra passato-memoria, presente e futuro, tra l’essere insieme figlio e padre, sia nella fatica con cui tenta di salvare il patrimonio che ha avuto in eredità e sia ancora nell’audacia di voler ricostruire, tra mille incertezze, il suo futuro.

Enea diventa per Caproni una figura di drammatica attualità e verità, simbolo della tragica condizione in cui si era venuta a trovare un’intera civiltà di quell’Europa, che non aveva saputo evitare gli orrori dei bombardamenti e la barbarie dei campi di concentramento e che aveva ora di fronte l’incognita di un dopoguerra senza certezze, con un futuro «gracile», da ricostruire.

La recezione di Virgilio, in particolare dell’Eneide, è stata oggetto di altri poeti e studiosi contemporanei: T.S. Eliot, T. Haecker e l’interpretazione proto-cristiana di Virgilio, G. Ungaretti, P.P. Pasolini, T. Fiore, A. Zanzotto, I. Calvino e di altri. Bergoglio, insomma, non è solo nella sua attenzione a Virgilio.

Chiudiamo con un critico letterario, G. Ferroni, anche perché ha scritto sul legame tra Virgilio e la nostra terra brindisina.

Giulio Ferroni[10] non è un poeta ma un critico letterario. E’ autore di un importante studio, L’Italia di Dante, viaggio nel paese della Commedia[11]: un vero e proprio viaggio e una mappa del nostro paese illuminata dai luoghi che Dante racconta in poesia. Ferroni la mattina del 18 giugno 2014 è a Brindisi. Intende mappare il luogo citato da Virgilio nella rassicurazione che fa a Dante nel canto III del Purgatorio: “lo corpo dentro al quale io facea ombra;/Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto (Purg., III, 27). Brindisi, città dove nel 19 a.C., di ritorno da un viaggio in Grecia, il maestro morì. Ferroni, dopo aver chiarito perché nel celebre epitaffio[12] sulla tomba di Virgilio è scritto “Calabri rapuere” (Apulia era indicata nell’antica geografia anche come Calabria e questa era indicata come Brutium), descrive il monumento a Virgilio posto nei giardinetti brindisini, di fronte al mare, opera dello scultore Floriano Bodini: “con le braccia mozze, il poeta sta in cima a una colonna, alla cui base si accavalcano varie figure con intento simbolico, soprattutto animali, tra cui particolarmente si distinguono un cane e un pezzo di cavallo, culminante nel muso e nella criniera. Questo Virgilio guarda il mare su cui sbarcò in cattive condizioni, approdando in qualche alloggio dove visse i suoi ultimi giorni, forse agitato da quella disillusa riflessione su di sé e sulla propria opera che lo spinse a chiedere agli amici Vario e Tucca di distruggere l’Eneide: il romanzo di Herman Broch, La morte di Virgilio, segnato anche dal turbato riflesso degli orrori della seconda guerra mondiale, segue il lungo intenso angosciato ripiegarsi del poeta su di sé, quegli ultimi giorni prima della fine”[13]. E più oltre, Ferroni conclude: “Sia o no questo il luogo della morte di Virgilio, sia o no il punto terminale della Via Appia, punto di partenza per il corteo che condusse il suo corpo a Napoli, penso alla impossibilità di “compimento” che angustia il Virgilio di Broch. E certo condizione di non compimento è anche quella del Virgilio dantesco, la cui sapienza, che pure ne garantisce il ruolo di guida assoluta e sicura per il pellegrino attraverso l’inferno e il purgatorio, è esclusa dal raggiungimento del vertice supremo dell’esperienza: condannato a sparire improvvisamente dall’orizzonte del poema, nel Paradiso terrestre, proprio quando appare Beatrice, destinata a condurre Dante fino all’Empireo, al cielo al di fuori dei cieli[14].

Giulio Ferroni, per concludere, collegandosi a Broch, sostiene che «nell’evento della morte di Virgilio si prefigurano e si addensano gran parte dei significati essenziali della storia della poesia europea»[15].

Ma quest’ultimo aspetto letterario non è oggetto di questa breve trattazione.

In questi giorni drammatici della pandemia l’attenzione di molti è rivolta a pensare “un nuovo futuro”. Come sarà l’economia, la politica, la società? Ritornerà la vecchia e disastrosa normalità o saremo impegnati a costruire un mondo nuovo? Sarà solo la scienza e la tecnica informatizzata a darci il nuovo mondo globalizzato? Può davvero, come sostiene Bergoglio, senza il primato della vita spirituale e culturale che metta al centro l’uomo con le sue radici e le sue relazioni fraterne e ambientali, realizzarsi questa “nuova epoca”?

L’uomo d’oggi, dopo la inaspettata tragedia della pandemia, segua Enea, un mito che porta nel nome un dolore insostenibile, riluttante eppure capace di accettare di assumersi l’onere di una missione immensa, sproporzionata per un solo uomo.

Come Enea ciascuno si carichi sulle spalle un bagaglio enorme e con tale enorme fardello attraversi il bruciante processo della creazione, fugga dalle fiamme divoranti delle proprie urgenze, si sieda di fronte alle lacrime del mondo, le contempli per poi asciugarle, combatta l’assurda ferocia degli uomini,  levi un canto funebre per una vita presente e passata vissuta nella guerra perenne a causa del potere e del denaro, metta in salvo ciò che di positivo ha la nostra tradizione culturale fatta a brandelli, riparta dalla consapevolezza della precarietà dell’esistenza, ascolti la straziante mitezza e insieme i violenti fenomeni del mondo naturale, abbia cura sempre delle sofferenze degli individui di qualsiasi terra e colore essi siano. In breve, “si faccia carico della Storia”, come sostiene Bergoglio.

 L’esperienza, a caro prezzo pagata, del dolore di questi giorni, non sia l’unica a durare in eterno.

(fine prima scheda – segue seconda scheda su: Bergoglio e Alessandro Manzoni)

16 aprile 2020

Antonio Greco


[1] PAUL VALÉRY, La crise de l’esprit (1919)

[2] Concetto Marchesi è l’autore di una celebre “Storia della letteratura latina”, ripubblicata in seconda edizione proprio nell’anno virgiliano, 1930.

Marchesi si concedeva una schiettezza e un’onestà intellettuale ancora più pronunciate, formulando esplicitamente l’accusa di una indebita intromissione della politica nelle vicende della letteratura (e di Virgilio in particolare). Nel settembre 1943 Marchesi, nominato nel frattempo rettore dell’Università di Padova, fondava, con Silvio Trentin ed Egidio Meneghetti, il Comitato di Liberazione Nazionale del Veneto, dando il via ad un’intensa

attività di coordinamento e promozione dell’azione resistenziale che aveva nell’Università patavina il suo centro di riferimento pratico e morale.

[3] CONCETTO MARCHESI, Virgilio, «Pègaso», II, 8, agosto 1930, p. 135.

[4] Hermann Broch (1886-1951). Lo scrittore austriaco, nato a Vienna nel 1886 da una famiglia di origine ebraica, convertitosi poi al cristianesimo, arrestato nel 1938 dai Nazisti e rifugiatosi, dopo la scarcerazione, a New Haven, negli Stati Uniti, pubblicava nel 1945 un’opera visionaria e complessa, destinata a profonde incomprensioni in sede critica, La morte di Virgilio.

[5] Broch rifiutava per la sua opera l’etichetta di romanzo, che doveva sembrargli riduttiva e inadeguata a descrivere la novità del suo lavoro, e nelle sue lettere preferisce utilizzare la definizione di «poema lirico».

[6] HERMANN BROCH, Der Tod des Vergil, New York, Panthen Books, 1945, tr. it. La morte di Virgilio, traduzione di AURELIO CIACCHI, prefazione di LADISLAO MITTNER, Milano, Feltrinelli, 2010 [1962].

L’opera attraversa le ultime diciotto ore di vita del poeta latino (tra il 21 e il 22 settembre dell’anno 19 a.C.). Il romanzo si apre con l’arrivo della flotta imperiale al porto di Brindisi; Virgilio, già febbricitante, è trasportato in lettiga, attraverso un suburbio degradato e squallido (la «via della miseria»), al palazzo di Augusto. Nel corso di una notte delirante e affollata di visioni, nell’approssimarsi della morte, il poeta si tormenta con la consapevolezza dello spreco di una vita inutilmente dedicata all’arte: non c’è conoscenza né verità nella poesia, che rappresenta per Virgilio un irreparabile tradimento dell’istanza etica che deve presiedere all’esistenza umana e in particolare al compito dell’artista. La concezione dell’arte espressa da Broch attraverso la tormentata inquietudine di Virgilio si rivela carica di antinomie, permeata da una tensione irrisolta tra annientamento e salvezza: il poeta cerca nell’arte l’estremo disvelamento della verità cui affidare la speranza di un riscatto, ma non può che constatare che nel generale «crollo dei valori» della propria epoca l’arte è divenuta contraffazione di sé stessa, ha negato la propria funzione e il proprio fondamento etico, riducendosi a mero inganno estetico. Per questo vuole distruggere l’Eneide.

[7] G. CAPRONI, Enea a Genova, «L’Italia Socialista», 7 ottobre 1948. Ora ristampato in appendice a CONTORBIA, Caproni

in Piazza Bandiera, cit., pp. 229-230.

[8] G. CAPRONI, Genova, in «Weekend», VII, 42, ottobre 1979, p. 21.

[9] FRANCESCO PALMIERI, Due domande a Giorgio Caproni, in Il mondo ha bisogno dei poeti, cit., p. 62.

[10] Giulio Ferroni, professore emerito della Sapienza di Roma, è autore di studi sulle più diverse zone della letteratura italiana e dell’ampio manuale Storia della Letteratura italiana e di numerose altre opere.

[11] Giulio Ferroni, L’Italia di Dante, viaggio nel paese della Commedia, La nave di Teseo+, Milano, 2019, pp.1226.

[12] “Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc / Parthenope; cecini pascua, rura, duces…”. Iscrizione funeraria della presunta tomba di Virgilio a Napoli.

[13] G. Ferroni, op. cit., pp. 281-82.

[14] G. Ferroni, op. cit., p. 280.

[15] GIULIO FERRONI, Dopo la fine: una letteratura possibile, Roma, Donzelli, 2010, p. 89.

One Reply to “”

  1. Il virus ha denudato le abitudini, le forme, le certezze assunte senza la prova di essere veri. Veri per convenzione e non per ragioni dove lo spirito è anima di verità. Un invisibile capace di infiltrarsi nel visibile opaco della ragione che perdeva la visione della realtà del vivere. Un dire ermetico per rafforzare la semplicità del vivere stesso dentro una verità d’amare per amore gioioso della vita. Fissando per sempre che “La bellezza salverà il mondo” perchè quel verbo fattosi carne era la perpetuità messaggera dell’amore da qui all’eterno, ognuno testimone d’amore per amare.

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