Scrive Austen Ivereigh nella intervista fatta a Bergoglio l’8 aprile 2020 e pubblicata sulla Civiltà Cattolica:
“Nella seconda domanda ho fatto riferimento a «I promessi sposi» di Alessandro Manzoni, romanzo ottocentesco italiano molto caro a Francesco, che lo ha citato di recente. La storia si colloca nelle drammatiche vicende della peste del 1630 a Milano. Vi appaiono diversi personaggi ecclesiastici: il prete codardo don Abbondio, il santo cardinale arcivescovo Borromeo, i frati cappuccini che si prodigano nel «lazzaretto», una specie di ospedale da campo dove i contagiati vengono tenuti rigorosamente separati dai sani. Alla luce del romanzo, come vede il Papa la missione della Chiesa nel contesto della malattia Covid-19?”
Risponde Bergoglio: “Il cardinale Federigo è un vero eroe di quella peste a Milano. In un capitolo, tuttavia, si dice che passava salutando la gente, ma chiuso nella lettiga, forse da dietro il finestrino, per proteggersi. Il popolo non ci era rimasto bene. Il popolo di Dio ha bisogno che il pastore gli stia accanto, che non si protegga troppo. Oggi il popolo di Dio ha bisogno di avere il pastore molto vicino, con l’abnegazione di quei cappuccini, che facevano così”.
Il riferimento di Bergoglio è al capitolo XXXII, 280 de I promessi sposi in cui Manzoni scrive del cardinale Federigo Borromeo:
“Non trascurò quelle cautele che non gl’impedissero di fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero)[1]”.
Federigo Borromeo ha scritto un libro dal titolo De Pestilentia[2] che è una delle fonti di Manzoniper la ricostruzione e la narrazione della peste del 1630 nel romanzo dei I Promessi sposi. Lo stesso cardinale scrive nella sua opera che a un certo punto iniziò a spostarsi in Milano flagellato dalla peste dentro una portantina tutta chiusa da vetri. E, tra le altre istruzioni, scrive, “avevo mandato una lettera ai parroci in cui prescrivevo che indossassero una tunica più corta o anche un soprabito nero di lino, perché quel genere di vestiario era più sicuro in quella circostanza e la lana attirava più facilmente e più pericolosamente la peste” (De pestilentia, pag. 64). Bergoglio osserva che per questo suo distanziamento dalla gente “il popolo non ci era rimasto bene”. Ma sottolinea anche che il cardinale Federigo rimane sempre un “vero eroe di quella peste a Milano”.
Del cardinale Federigo Borromeo Manzoni ha tratteggiato, in pagine importanti più per il carattere ideologico che artistico, il ritratto del cardinale nel capitolo XXII del Promessi Sposi.
Il riferimento “alla portantina tutta chiusa” (peraltro nemmeno riportata nel romanzo dal Manzoni ma ricavata dal De Pestilentia) fatta da Bergoglio nella risposta a Ivereigh, serve al papa per esporre una annotazione in chiave di attualizzazione (“Oggi…”). Gli serve per mettere in risalto la necessità di una “più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili della circostanza” da parte dei pastori e il bisogno del popolo di averli vicini e pronti alla abnegazione come i cappuccini coinvolti nella drammatica pestilenza milanese del 1630.
La risposta di Bergoglio è molto breve, più breve della domanda. Tanto breve che il lungo riferimento nella domanda del giornalista al romanzo del Manzoni sembra essere subìto da Bergoglio. In realtà non è così. Negli anni del suo pontificato ha più volte detto che tra le sue letture preferite c’è il romanzo di A. Manzoni. E che lo conosca così bene è dimostrato anche dal fatto che in questa sua breve risposta al giornalista inglese fa riferimento addirittura a una nota dei critici al testo del romanzo.
Alla quarta domanda del giornalista Bergoglio cita per la seconda volta Manzoni:
“Mi viene in mente una frase ne I Promessi sposi, del sarto, a mio giudizio un personaggio tra i più semplici e più coerenti. Diceva: «Non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene»[3].
“Penso ai santi della porta accanto in questo momento difficile. Sono eroi! Medici, volontari, religiose, sacerdoti, operatori che svolgono i loro doveri affinché questa società funzioni. Quanti medici e infermieri sono morti! Quanti sacerdoti sono morti! Quante religiose sono morte! In servizio, servendo. (…)
Se riconosciamo questo miracolo dei santi accanto a noi, di questi uomini e donne eroici, se sappiamo seguirne le orme, questo miracolo finirà bene, sarà per il bene di tutti. Dio non lascia le cose a metà strada. Siamo noi che le lasciamo e ce ne andiamo”.
Bergoglio ha citato più volte il romanzo di A. Manzoni in questi anni del suo pontificato.
Al direttore de La civiltà Cattolica nel 2013 confida: «Ho amato molto autori diversi tra loro. Amo moltissimo Dostoevskij e Hölderlin. […] Ho letto il libro I Promessi Sposi tre volte e ce l’ho adesso sul tavolo per rileggerlo. Manzoni mi ha dato tanto. Mia nonna, quand’ero bambino, mi ha insegnato a memoria l’inizio di questo libro: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti…”[4].
Scrive Stefania Falasca: «Un pomeriggio di qualche anno fa stavo accompagnando padre Bergoglio alla Casa del clero, in via della Scrofa 70 […]. Stavamo camminando […] e gli chiesi quali fossero gli autori italiani che amava di più.
Mi rispose subito d’istinto: «Alessandro Manzoni. Le pagine dei Promessi Sposi le ho lette e rilette tante volte. Soprattutto i capitoli in cui si parla del cardinale Federigo Borromeo, le pagine dove viene descritto l’incontro con l’Innominato… Ricordi?». «Sì», risposi, le ricordo benissimo. «Sono le pagine – riprese – in cui si descrive l’Innominato nel momento immediatamente precedente alla sua conversione, quando, dopo una notte vissuta nel tormento, dalla finestra della sua stanza sente uno scampanare a festa, e di lì a poco, sente un altro scampanio più vicino, poi un altro: ‘Che allegria c’è? Cos’hanno di bello tutti costoro?’. Saltò fuori da quel covile di pruni e, vestitosi, corse ad aprire una finestra e guardò. Al chiarore che pure andava a poco poco crescendo si distingueva nella strada in fondo alla valle gente che passava, altra che usciva dalle case e s’avviava, tutti dalla stessa parte, e con un’alacrità straordinaria. ‘Che diavolo hanno costoro? Che c’è d’allegro in questo maledetto paese? Dove va tutta quella canaglia?’» […][5].
Nella catechesi del 25 maggio 2015 Bergoglio afferma: «E voi italiani, nella vostra letteratura avete un capolavoro sul fidanzamento. È necessario che i ragazzi lo conoscano, che lo leggano; un capolavoro dove si racconta la storia dei fidanzati che hanno subito tanto dolore, hanno fatto una strada di tante difficoltà fino ad arrivare alla fine, al matrimonio. Ma non lasciate da parte questo capolavoro sul fidanzamento che la letteratura italiana ha proprio offerto a voi. Andate avanti, leggetelo e vedrete la bellezza, anche la sofferenza, ma la fe-del-tà dei fidanzati»[6].
All’Ordine dei Francescani nel 2018: “Prima di tutto i Cappuccini sono ‘i frati del popolo’: è una caratteristica vostra. La vicinanza alla gente. Essere vicini al popolo di Dio, vicini. E la vicinanza ci dà quella scienza della concretezza, quella saggezza che è più che scienza”. “Vicinanza a tutti, ma soprattutto ai più piccoli, ai più scartati, ai più disperati. E anche a quelli che si sono più allontanati”. “Penso al vostro fra’ Cristoforo”, ha detto indicando l’eroico personaggio manzoniano come un esempio di “vicinanza al popolo”[7].
Ai giornalisti nel 2020: “Ri-cordare significa infatti portare al cuore, “scrivere” sul cuore. Per opera dello Spirito Santo ogni storia, anche quella più dimenticata, anche quella che sembra scritta sulle righe più storte, può diventare ispirata, può rinascere come capolavoro, diventando un’appendice di Vangelo. Come (…) i Promessi Sposi (…).”[8].
Infine, all’Angelus di domenica 15 aprile: “in tempo di pandemia non si deve fare il don Abbondio”[9]..
Ci chiediamo, con questa scheda, che senso ha per un papa fare riferimento alla letteratura? La letteratura serve a qualcosa, a qualche indicazione concreta, soprattutto per qualche indirizzo sulla seconda fase, sul dopo coronavirus, quando occorrerà ricominciare, ricostruire, rifondare?
La letteratura “non serve, non ha utilità concrete e non bisogna dar retta alle p……te!”, afferma decisa un’amica. E, in effetti, di utile la letteratura di per sé insegna poco: non sconfigge malattie, non innalza edifici, non fa funzionare le fabbriche, non crea nuovi materiali. Sul Covid-19, con il riferimento al romanzo manzoniano che racconta la peste milanese del 1630, di specifico e di utile non impareremo niente di più.
Con la letteratura, però, potremo imparare qualcosa di più sugli esseri umani, sulle loro meschinità e, a volte, sull’eroismo a cui situazioni estreme, come questa, li portano.
Cogliendo lo scopo complessivo dell’intervista di Austen Ivereigh possiamo affermare con certezza che Bergoglio, con il riferimento letterario al romanzo manzoniano, indica tre motivi impliciti per cui fa riferimento a questo racconto letterario:
- per la dimensione profetica di questo romanzo. Di libri profetici non è facile trovarne, ma vero è che i grandi scrittori sanno interpretare la storia e l’animo umano, al di là del loro tempo. La letteratura è storia ma è anche profezia. Quando il prodotto letterario è di autori del calibro di Manzoni, la letteratura coglie in radice una serie di dinamiche e di comportamenti umani, sia singoli che di gruppo, che poi si verificano puntualmente. In questo Manzoni è un autore di straordinaria levatura: ha studiato molto bene sia quello che lui definisce, nei “Promessi sposi”, il “guazzabuglio del cuore umano”, sia il comportamento irrazionale della folla in circostanze non normali. Per questo può sembrare sorprendente che un romanzo scritto due secoli fa rappresenti bene quello che sta succedendo ai nostri giorni, ma è così.
La consapevolezza che l’umanità ha già superato situazioni simili a quella in cui ci troviamo, che noi, uomini d’oggi, poi non siamo cambiati (di fronte al pericolo tendiamo a reagire sempre allo stesso modo), ci rassicura sul fatto che, se non perderemo completamente la nostra razionalità e la nostra pietas, possiamo guardare con fiducia a un futuro migliore;
- per la dimensione evangelica del racconto manzoniano: la storia di Renzo e Lucia, la storia della peste del 1630, il modo con il quale Renzo, guarito dalla peste, dopo due anni di dolorose avventure, affronta i problemi e il mondo immerso ancora nella peste ma da cui è uscito guarito, possono essere, secondo Bergoglio, “un’appendice del Vangelo”, una lettura sapienziale del Nuovo Testamento. Il racconto manzoniano testimonia l’amore che trasforma la vita e il suo racconto reclama di essere fatto rivivere in ogni tempo, anche oggi.
- per il rifiuto della concezione della cultura e della letteratura come distinzione e privilegio anzicché come servizio morale e sociale che percorre tutto il romanzo di Manzoni. L’uomo è un essere narrante, sostiene Bergoglio. I racconti ci segnano, plasmano le nostre convinzioni e i nostri comportamenti, possono aiutarci a capire e a dire chi siamo. Ma non tutti i racconti sono buoni, sia nei contenuti che nelle finalità. Lo stesso Manzoni ironizza e polemizza sulla cultura seicentesca del sarto del capitolo XXIV dei Promessi Sposi che pure è definito come “una pasta d’uomo” e che Bergoglio definisce “un personaggio tra i più semplici e più coerenti”.
La recezione del romanzo del Manzoni, dal 1840 (data della sua pubblicazione) ad oggi è storia complessa. E non è oggetto di questa scheda. Ancora più complessa è la recezione manzoniana da parte del magistero papale ed ecclesiastico.
La recensione del Manzoni e la chiesa cattolica
In un bellissimo saggio del 2011 di Pier Cesare Bori dal titolo «‘Star basso’: l’antropologia religiosa di Alessandro Manzoni», pubblicato dalla Treccani, troviamo una ricostruzione dettagliata e documentata della recezione della antropologia religiosa, a partire dalla “Osservazioni sulla morale cattolica”, scritta dal Manzoni tra il 1819-1855 e lungamente rielaborata. Il mutamento di giudizio sull’opera di Manzoni è clamoroso: dal giudizio “arrogante” della Civiltà cattolica[10], alla sua quasi canonizzazione ad opera di papa Ratti (Pio XI), alla dimenticanza totale di Manzoni del magistero successivo, fino alla ampia riscoperta di papa Bergoglio.
Rinviamo a questo saggio di Bori. Ai fini della nostra scheda ci preme riportare solo la conclusione del saggio:
“Questa caratterizzazione della figura religiosa complessiva di Manzoni – all’interno di una scansione temporale della ricezione del pensiero religioso manzoniano che va dal rigetto post-unitario all’esaltazione da parte del cattolicesimo in epoca concordataria sino a una specie di oblio dopo gli anni Sessanta del Novecento – si pone di là da categorie che solo parzialmente gli si attagliano: liberalismo, giansenismo, illuminismo, intransigentismo, e relativizza il conflitto delle interpretazioni che per un secolo ha tenuto il campo.
Manzoni religioso «sta a sé». La sua è una irripetibile sintesi di cultura biblica, di francescanesimo, di umanesimo, di illuminismo, di idealismo romantico. Ma il tipo religioso che si delinea dalla sua opera – detestare la forza, una certa naturalezza nel credere, saggezza e ironia, non odiare nessuno… star basso – è certo raro ma costante nella storia religiosa italiana”[11].
In questa lettura della religiosità di Manzoni che fa Bori c’è tutta la spiegazione della affinità tra lo Scrittore milanese e Bergoglio papa.
Renzo e la fase due: Gervasio e Tonio, la vigna, l’amicizia
Il riferimento a Manzoni in questi mesi di pandemia non è stato solo appannaggio di Papa Bergoglio. Fare il lungo elenco degli articoli, delle citazioni del romanzo per rilevare somiglianze ma anche differenze tra la peste del 1630 e la pandemia del coronavirus, in questa sede, è inutile. Le analogie sono state sintetizzate benissimo da Domenico Squillace, preside del Volta di Milano[12]. Comunque l’attenzione dei giornalisti, dei critici letterari si è concentrata, direi esclusivamente, sui capitoli XXXI e XXXII del Romanzo.
Oggi siamo tutti noi in attesa dell’inizio della cosiddetta seconda fase, dopo la prima del distanziamento e della chiusura in casa per evitare il coronavirus. E spesso sentiamo ripetere: “nulla sarà come prima”: cambierà la socializzazione e la società, cambieranno le abitudini, le relazioni, gli stili di vita, la comunicazione, le tecnologie; sarà possibile una nuova economia, una nuova scuola e università e una nuova organizzazione educativa. Un cambiamento ci sarà, ma come sarà? Sarà un ritorno alla disgraziata normalità di un tempo o sarà costruito un nuovo umanesimo e un nuovo illuminismo? Dopo la peste del 1348 narrata dal Boccaccio e dopo quella del 1630 narrata dal Manzoni passarono molti anni prima di vedere un mondo nuovo, un mondo diverso da quello messo in crisi dalle pandemie. Chi di noi vedrà se il coronavirus ci darà un mondo nuovo di giustizia e di uguaglianza?
Manzoni, in Renzo guarito dalla peste e tornato al lavoro da suo cugino Bortolo, indica nel capitolo XXXIII del romanzo gli elementi essenziali della fase due che determinarono la vita del personaggio principale.
La certezza della immunità dopo la guarigione e un cambiamento della situazione politica statale sono gli elementi costitutivi della nuova vita di Renzo, che lo spingono a uscire dalla quarantena e a tornare a Milano passando prima dal suo paese natio.
Qui tre elementi, due negativi e uno positivo, indicano che cosa è, per Renzo guarito, il nuovo mondo cambiato dalla peste: i vecchi rapporti umani paesani sono ribaltati; la sua vigna inselvatichita e saccheggiata, la casa abbandonata e piena di topi sono i segni che la peste ha lasciato dietro di sè; la novità e la speranza è data da un rapporto di nuova fraternità e gratuità con un soggetto, senza nome nel romanzo, cui sono morti tutti i familiari e che gratuitamente lo ospita per una notte.
- C’è un rovesciamento dei rapporti umani, dovuto alla enigmaticità del male: la peste colpisce a caso, buoni e cattivi, secondo un ordine che sfugge alla mente umana. Renzo incontra per primo Tonio ma non lo riconosce perché è cambiato. La peste lo ha istupidito. Lui, il più dritto dei due fratelli, è diventato come Gervasio, il fratello scemo nella notte degli imbrogli. A questo rovesciamento dei rapporti umani si aggiunge quello che avviene nell’animo di Renzo: il suo passato, iscritto nel borgo natio, non è più quello di una volta, le sue radici non sono più tali. Solo don Abbondio, che Renzo incontra subito dopo, è rimasto il solito; è solo più lento, meno pronto e meno vigile di prima, ma conserva la consueta propensione a vedere ragioni di timore ovunque, cosicché la presenza di Renzo gli si prospetta come un possibile pericolo. Ma anche qui assistiamo alla scomparsa dell’identità del prete: l’uomo si riduce a una “cosa nera” e questo colore funebre lo identifica con il silenzio di morte del villaggio;
- “E andando passò davanti alla sua vigna”: e qui Manzoni inserisce un lungo brano che appare di semplice botanica, in realtà è una allegoria: la vigna, luogo biblico ed evangelico per eccellenza, diventa un simbolo strettamente collegato al problema del bene e del male, del raccolto e della sua distruzione, dell’abbondanza che si rovescia in miseria. Così la confusione e il caos sono tutte cifre della peste, prodotto della natura e immagine del male. Nella vigna di Renzo il male si presenta in due modi, uno appena accennato, l’altro dettagliatamente descritto: 1) quello dei vicini che saccheggiano la vigna per fare legna; 2) quello del rigoglio stesso della natura che produce un mare di erbacce lussureggianti, pullulanti scompostamente dovunque, invadenti. E’ la civiltà che viene sconfitta dalla natura; ciò che la mano dell’uomo aveva prodotto è ora soffocato dal caos, vitale e maligno insieme, della natura. Perché le erbacce, perché il male? La vigna inselvatichita rimanda così a una vita umana assediata dalla barbarie e dagli istinti naturali. Per Manzoni e per il suo pessimismo naturalistico, l’unica possibilità di ricostruire le fondamenta di una civiltà distrutta dalla peste è far trionfare la ragione e la moralità sociale, sostenuta dalla fraternità evangelica;
- Infatti, prima di lasciare il borgo natio per continuare il suo viaggio verso Milano, con la speranza di trovare il suo amore, Lucia, l’unica persona con cui Renzo comunica umanamente è un amico, che nel romanzo rimane senza nome e senza più famiglia, mai comparso prima nella narrazione, anche lui privo di passato e di legami. La peste lascia l’uomo solo con sé stesso. Il fatto che l’amico non abbia nome rinvia all’atmosfera della peste: in essa l’uomo è ridotto alla sua nuda umanità. In questo personaggio dell’amico senza nome, che la solitudine ha inselvatichito e reso quasi incantato, ma che si apre alla confidenza, all’ospitalità, al conforto dell’amicizia, c’è il segno di come la peste può essere superata: con la peste ha visto “cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da levarvi l’allegria per tutta la vita; ma, a parlarne tra amici, è un sollievo” (XXXIII, 525).
Ci fermiamo a quest’ultimo segno di speranza e di nuovo futuro. E per concludere.
Ho iniziato a leggere (e ho sempre consigliato di fare allo stesso modo) il Romanzo di Manzoni dalla fine, dal sugo della storia: “i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia[13]”.
Da questo “sugo” si capisce che il tema di fondo che Manzoni affronta con il suo romanzo è il problema del male in tutte le sue forme concrete, sia il male voluto e causato, sia il male dell’innocente e sia il male strutturale, diremmo oggi.
Lo stesso problema del male, anche per l’uomo d’oggi rimane un problema che inquieta, anche se più spesso nascosto. Ma più si nasconde e più riemerge, anche in forme drammatiche e inaspettate. Perché tanto male in questi giorni? Perché tanta morte, male ultimo?
Manzoni e Bergoglio insistono sulla funzione catartica che la pandemia può avere. Se una società vecchia traumaticamente scompare a causa di un nemico inaspettato e invisibile è perché una società nuova emerga. E questo non perché muoiono prevalentemente gli anziani e una generazione scompare.
Sembra però che, al contrario, la difesa di un mondo vecchio, il ritorno alla normalità sia nella vita ecclesiastica che sociale, politica ed economica, trovi sempre più forze e sempre alleati.
E non c’è Manzoni e Bergoglio che tengano.
Vorremmo che non avesse ragione chi scrive: “Siamo peraltro poco disposti a trarre lezioni da alcunché. Manzoni aveva colto una verità umana così profonda e radicata che è in sostanza rimasta immobile. C’è lo stupore per il gesto semplice e maestoso di chi si prova a compiere la sua parte di bene comune. C’è lo stupore di fronte a chi continuerà a non provarci nemmeno – le attenuanti sono infinite e forse tutte valide; siamo in fondo (Manzoni dice anche questo) «tante creature selvatiche», con le paure, gli egoismi, l’ottusità (l’alzata di spalle; il fregarsene di tutto e tutti, pur di bersi comunque la propria indiscutibile birretta; il cinismo del “muoiono solo i vecchi”; la coglioneria del complottismo). Non ci si può fare granché. Ma in giorni complicati e strani come questi, prevale talvolta, sullo stupore commosso, un’immensa e dolorosa delusione”[14].
Ma non resisto, in conclusione, a dare un consiglio a chi ritiene il pensiero di Bergoglio, per il dopo pandemia, “moralista” o, peggio, “retorico”: andate al capitolo XXXIV dei Promessi Sposi e iniziate a leggere il paragrafo che comincia con “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…”. Continuate a leggere fino a “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola”[15].
Se dopo la lettura gli occhi sono bagnati vuol dire che, il tanto dolore di questi mesi simile a quello della mamma di Cecilia, ha un senso per ripartire e costruire un mondo “altro”. Non è improbabile che con le lacrime agli occhi sia più credibile, per ciascuno di noi, vedere, sperare e invocare un futuro più umano.
(continua con la scheda n. 3 su Bergoglio e Dostoieskij)
22 aprile 2020
Antonio Greco
[1] A. Manzoni, I promessi Sposi, cap. XXXII, 253-290: “Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s’avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri in cui la carità nacque al cessare d’ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati per impiego.
Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n’era; sempre si videro mescolati, confusi co’ languenti, co’ moribondi, languenti e moribondi qualche volta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze. Più di sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni, all’incirca.
Federigo dava a tutti, com’era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s’allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette all’istanze, con quell’animo, con cui scriveva ai parrochi: “siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo” (Ripamonti, pag. 164.). Non trascurò quelle cautele che non gl’impedissero di fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero); e insieme non curò il pericolo, né parve che se n’avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello. Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare chiunque di loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti dove altri eran morti, volle che fosse aperto l’adito a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i lazzeretti, per dar consolazione agl’infermi, e per animare i serventi; scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò in somma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d’esserne uscito illeso”.
[2] La peste di Milano (Rusconi, pagg. 177, lire 26.000), traduzione dal latino del trattato del Borromeo De pestilentia, ad opera di Armando Torno (autore anche della bella introduzione e di un apparato critico e filologico). L’ immagine di Federico nato nel 1564 e morto nel 1631 che emerge da questo libro, dove sono raccolte anche le sue lettere e istruzioni ai parroci, appare diversa e più problematica di quella che ci offre Manzoni. Per cogliere le differenze, molto rilevanti tra il cardinale manzoniano e quello che emerge dalla traduzione del De pestilentia cfr:
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/11/12/la-peste-il-cardinale.html
[3] A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXIV, 300 ss: “ Guardate un poco, ” gli disse, al suo entrare, la buona donna, accennando Lucia; la quale fece il viso rosso, s’alzò, e cominciava a balbettar qualche scusa. Ma lui, avvicinatosele, l’interruppe facendole una gran festa, e esclamando: “ ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo in questa casa. Come son contento di vedervi qui! Già ero sicuro che sareste arrivata a buon porto; perchè non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene; ma son contento di vedervi qui. Povera giovine! Ma è però una gran cosa d’aver ricevuto un miracolo! ”
Nè si creda che fosse lui il solo a qualificar così quell’avvenimento, perchè aveva letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutt’i contorni non se ne parlò con altri termini, fin che ce ne rimase la memoria. E, a dir la verità, con le frange che vi s’attaccarono, non gli poteva convenire altro nome”.
[4] La Civiltà Cattolica, 2013, vol. III, pp. 449-477 – Intervista a Papa Francesco. La citazione è a pag. 471.
[5] Avvenire.it, 17 marzo 2013. “Padre Bergoglio parlava piano, mentre camminavamo nel centro di Roma. E ripeteva le parole del Manzoni mandate a memoria, con quel suo modo lieve e insieme incisivo di dire. Proprio questo mi è tornato in mente quando con sorpresa l’ho visto affacciarsi dalla loggia centrale di San Pietro, dopo l’elezione che l’ha fatto diventare Papa Francesco”.
[6] «Nel quadro di queste catechesi sulla famiglia, oggi vorrei parlare del fidanzamento». Con queste parole inizia la catechesi del Papa sul tema della famiglia, del fidanzamento e del matrimonio, del 27 maggio 2015.
[7] Con queste parole Papa Bergoglio si è rivolto a braccio ai religiosi dell’Ordine Francescano di più stretta osservanza il 14.9.2018.
[8] Messaggio sulle comunicazioni sociali di papa Francesco del 24.01.2020, giorno del patrono dei giornalisti. http://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/communications/documents/papa-francesco_20200124_messaggio-comunicazioni-sociali.html
[9] Introduzione all’Angelus di domenica 15 aprile 2020.
[10] Cronaca contemporanea, «La Civiltà cattolica», Firenze 26 giugno 1873, 24, 1873, III, p. 82
[11] http://www.treccani.it/enciclopedia/star-basso-l-antropologia-religiosa-di-alessandro-manzoni_%28Cristiani-d%27Italia%29/
[12] https://www.liceovolta.it/nuovo/la-scuola/dirigente-scolastico/1506-lettera-agli-studenti-25-febbraio-2020
[13] Capitolo XXXVIII, 454, dei Promessi Sposi: “Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. – Ho imparato, – diceva, – a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere -. E cent’altre cose.
Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, – e io, – disse un giorno al suo moralista, – cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, – aggiunse, soavemente sorridendo, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.
Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia”.
[14] https://altritaliani.net/la-peste-nel-capolavoro-di-manzoni-una-rilettura-attuale-e-illuminante-di-paolo-di-paolo/
[15] I critici sostengono che il fatto narrato sia storico e tratto dal De Pestilenzia di Federigo Borromeo:
«Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Nè la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sul l’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così».
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato che per l’inaspettata ricompensa, s’ affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: «addio Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri». Poi voltatasi di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola».