CHIERICI E LAICI …. LA STORIA DI UN FRAINTENDIMENTO

Per questo 8 marzo proponiamo un testo che interessa molto le donne: ultime rimaste tra gli esclusi dal sacramento dell’ordine sacro nella chiesa cattolica, dopo gli indigeni e gli schiavi, questo articolo della teologa Cettina Militello spiega come sono nati i ministeri “ordinati” e come un nuovo ruolo delle donne nella chiesa possa farsi strada attraverso un ripensamento  del ministero.

di Cettina Militello

in “Esodo” n. 4 dell’ottobre-dicembre 2017

Alexandre Faivre, studioso delle origini cristiane, ebbe a dirmi, scherzando ma non troppo, che i nostri guai, come laici, erano cominciati allorquando «anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede» (At 6,7b). Il riferimento era al termine iereus, qui presente al plurale, e al conseguente riposizionamento in senso sacralizzante della comunità cristiana primitiva.

A suo dire, insomma, a scombinare le carte in senso disgiuntivo era stata questa presenza, quella di sacerdoti dell’antica legge che avevano portato con sé la pregiudiziale del porsi su un piano “altro” rispetto al restante popolo di Dio.
La tesi scientifica di Faivre è più complessa1. Per lui i laici, in verità, hanno costituito una sorta di gruppo ristretto dal quale venivano scelti gli uomini da chiamare al ministero. Da qui la battuta circa il fatto che le donne non sono state neppure “laiche”.

In realtà, la comunità neotestamentaria non conosce né chierici né laici. Né conosce ministeri “ordinati”, non nel senso che il termine acquisirà poi nella sua connessione a un rito sacramentale detto, appunto, di “ordinazione” 2. Certo ci è attestata l’imposizione delle mani a monte di un compito conferito dalla comunità e dai suoi capi3, ma identificarlo tout court con una ordinazione sacramentale è quanto meno ideologico. Piuttosto, il Nuovo Testamento ci attesta la presenza di carismi molteplici a cui, ovviamente, corrispondono compiti riconosciuti ed esercitati. Il fatto è che progressivamente questi carismi si riducono, e a prevalere è l’unico conferito mediante l’imposizione delle mani dell’Apostolo4. In questo carisma convergono compiti autorevoli di insegnamento e di cura delle comunità.

Lo scenario è quello di un cristianesimo che deve far fronte al dilazionarsi della parusia (il ritorno di Cristo) e deve, d’altra parte, mantenersi fedele al messaggio originario. Da qui l’imperativo relativo alla retta dottrina. A garantire questa transizione, quello che poi chiameremo episcopato, monoepiscopato, senza però dimenticare che, alla fine del I secolo, l’autorità si esprime sia in forma collegiale, sia in forma singolare, anche se sarà quest’ultima a prevalere, dando vita all’episcopato monarchico5.

Velocemente, cioè, il ministero ecclesiastico si configura secondo la terna diaconato, presbiterato, episcopato, dando a questi termini una valenza gerarchica.
Dal gradino più basso al più alto, insomma. Eppure nessuno di essi appartiene al lessico evangelico. Ci giungono dalla comunità apostolica, senza per altro che sia chiara la distinzione tra loro – vedi At 20,17-35 – i termini presbyteros ed episkopos, contigui piuttosto alla contestualità culturale.

I primi, gli “anziani”, si radicano nella consuetudine ebraica; i secondi, gli “ispettori”, evocano piuttosto la prassi ellenistica. Quanto ai diaconi – e si tratta di un compito istituito dalla comunità – il termine non compare in At 6, di norma citato a supporto; vi appare invece la distinzione tra “diaconia della parola” e “diaconia delle mense”, smentita tuttavia dal fatto che uno dei sette, Filippo, sarà poco più avanti indicato predicatore del Cristo (cfr. At 8,5-6).
Personalmente, dunque, non colgo nella distinzione mensa/parola il punto di partenza di una divaricazione che, d’altra parte, non priverà mai i diaconi, identificati come tali, dal servizio alla Parola, ma ne farà indici del doppio e inseparabile servizio alla Parola e alla Carità. Basta pensare alle omelie patristiche giunteci appunto da Padri-diaconi – cito per tutti Efrem il Siro.
E allora, come giustificare, come motivare la contrapposizione chierici-laici? Prima d’entrare nel merito del percorso storico, credo sia utile richiamare che klèros e laós, i termini greci da cui derivano chierico e laico, originariamente indicano il popolo di Dio nella sua interezza. Klèros è porzione, parte, eredità e nell’Antico Testamento indica il popolo che Dio si è scelto, non una parte contrapposta al tutto. E popolo significa laós, come ricorda il decreto di Graziano, pur teorizzando i duo genera christianorum6.
Dobbiamo alle sottili ricerche di I. De la Potterie7 la proiezione in laikós, in analogia ai suffissi in

ikos, della contrapposizione tra la parte e il tutto. Laikós in greco indicherebbe i fedeli astanti, quelli che, nella prassi sacrificale pagana, stanno al di fuori del naós, del tempio, e come tali assistono, non compiono il sacrificio.
D’altra parte, la prima comparsa del termine laikós in un contesto espressamente liturgico, distingue i compiti dei laici da quelli dei ministri. Questo rinvio alla Lettera ai Corinzi di Clemente Romano8, prima testimonianza del termine nella letteratura cristiana, ci riconduce a quel processo di sacralizzazione, giudaizzante prima, paganeggiante poi, che porta la comunità cristiana dall’orgogliosa ripulsa di templi e altari e sacerdoti all’appiattimento culturale su residuali sacrali di lessico e di prassi.

La distinzione chierici/laici nasce, dunque, nell’adeguarsi a un modello socio-politico-religioso “gerarchico”, totalmente estraneo alle prime comunità cristiane nelle quali, quanti ne fanno parte, si apostrofano mutuamente come adelphós e adelphé, fratello e sorella.
La fraternità/sororità cede alla gerarchia assimilando le consuetudini. E, usciti dall’esperienza egalitaria dell’epoca martiriale, l’appiattimento sarà crescente e poi totale. La religio licita si approprierà delle insegne tutte, vuoi del sacerdozio ebraico, vuoi di quello pagano. Basta pensare alle vesti liturgiche, vesti rituali (e di corte) – si pensi alla “stola” o alla “dalmatica”.

Basta pensare alle forme magniloquenti dell’edificio cultuale del tutto altro da quel culto in Spirito e Verità, di cui parla Gesù alla Samaritana al capitolo 4 di Giovanni.
Un vero e proprio cursus honorum, alla maniera della romanità, segnerà i ministeri ecclesiastici, distinguendoli in minori e maggiori. Si è chierici indipendentemente dall’ordinazione, a partire da un rito – la prima tonsura – che significa l’ingresso in una categoria a parte, altra e separata dal popolo di Dio, ormai inteso come plebs, con accezione socialmente riduttiva e dispregiativa.

Sia chiaro, i laici ci sono stati e bene attivi. Ma, come per le donne, la loro incidenza ecclesiale è stata legata alla funzione pubblica, ovvero alla loro statura spirituale e culturale. Il monachesimo, ad esempio, è stato, nelle sue origini, un fenomeno laicale di fuga mundi e di fuga ecclesiae, ossia di ripulsa del mondo e di una Chiesa secolarizzata. Le scuole catechetiche, ad esempio quella di Alessandria, avranno una direzione laicale. Seppur elitario, non si spezza, dunque, il legame con la parola, né con l’impegno missionario. Dicasi altrettanto per l’esercizio della carità.
E tuttavia, proprio la statura morale di quanti accedono a questi percorsi laicali provoca un processo assimilativo che ne riconduce l’eccellenza a connotato specifico del clero snaturando, così, la stessa “profezia” laicale. Ai chierici si chiede di vivere come monaci, e la richiesta connota Gregorio Magno non diversamente da come, secoli dopo, connoterà Gregorio VII. E ciò segna un’ulteriore linea di divaricazione, bene espressa nel decreto di Graziano.
Di più, nella contrapposizione politica di regnum e sacerdotium, la clericalizzazione assumerà quelle forme invasive, intese a disegnare la Chiesa stessa come una sorta di enorme monastero.
I laici, allora, appariranno nemici, si tratti dei principi laici che rivendicano il potere secolare, si tratti dei battezzati minimali e marginali, i quali insorgono sia contro il potere feudale dei principi che contro il potere ecclesiastico.
I movimenti radicali medievali, preludio via via più prossimo alla Riforma, rivendicano il diritto alla predicazione. E, in essi, non poche donne si affrancano dalla soggezione loro imposta della prassi culturale.
Quanto alle donne, laiche sempre e comunque perché escluse dal potere d’ordine, in età patristica il binomio “subordinazione-equivalenza” le dirà sì membra vive della Chiesa, ma escluse da ogni protagonismo sul piano della storia. In età medievale, nel nord d’Europa soprattutto, proprio la tradizione monastica e, in essa, il pregare con la Scrittura, offrirà loro un accesso al sapere ben messo a profitto: da qui quella teologia monastica al femminile, meglio nota come “matristica”9, intensa ruminatio della Parola e sua ardita interpretazione e, persino, predicazione10.
Per le donne la discriminante è la cultura, e quindi la condizione sociale. Infatti solo chi ha dalla sua una famiglia potente può sperare di accedere al sapere. E le donne vi si impegneranno arditamente, anche sul piano teologico, elaborando quella tradizione alternativa, che mina ragionevolmente il pregiudizio che le esclude da ogni protagonismo ecclesiale e sociale11.
Non insisto sulla storia e sui suoi sviluppi. Di certo la Riforma rimette in auge qualcosa di dimenticato e minimizzato: il comune sacerdozio. Eppure nel Nuovo Testamento esiste solo quello. C’è solo un termine collettivo, ierateuma, e suo soggetto è il popolo di Dio tutto12. La polemica anti-riformata, se possibile, colorerà d’eresia questo dato e occorrerà arrivare al Vaticano II perché di nuovo il popolo di Dio si riappropri degli epiteti che lo connotano nella 1Pt 2,9-1013. A monte, tra la fine del secolo XIX e la prima metà del secolo XX, il ritorno alle fonti e la riscoperta del laicato14.

Lumen Gentium (LG) 10-12 disegna lo statuto del popolo di Dio, statuto nativo e originario, previo a ogni altra distinzione. Si tratta di un popolo regale, sacerdotale e profetico. Ossia, nativamente, il popolo di Dio tutto, e in esso anche i semplici battezzati, hanno autorevolezza reciproca, hanno responsabilità reciproca gli uni verso gli altri. La dignità battesimale, l’unzione crismale, la partecipazione all’Eucaristia li fanno cristiani pleno iure, uomini e donne15. Essi sono chiamati a tradurre, ciascuno secondo il dono ricevuto, la loro dignità regale. Essa, da ultimo, si traduce in quella diaconia verso le membra tutte della comunità e verso il mondo che connota la Chiesa, sacramento dell’unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (cfr. LG 1). Vale lo stesso per la lode. Come ricorda LG 10 e 11, nessuno è passivo nella vita sacramentale. Ciascuno vi esercita il proprio regale sacerdozio. E ciò ha il suo culmine nell’Eucaristia, che non è azione del celebrante ma della comunità con-celebrante, pur nella diversità delle funzioni. Già la Sacrosanctum Concilium aveva richiesto, più e più volte, quella partecipazione16 che investe la dignità carismatico-ministeriale di ciascuno/a.

E, finalmente, LG 12 pone la questione del munus profetico richiamando il sensus fidei, il soprannaturale senso della fede, quello stesso che, esercitato da tutti, consente alla fede stessa di crescere e svilupparsi, secondo quella coralità diversificata, ma parimenti incisiva, indicata in Dei Verbum (DV) 8. Di recente, apostrofando i convenuti alla celebrazione dei 25 anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, papa Francesco ha sottolineato con forza il principio dello sviluppo del dogma, la necessità che la Chiesa adegui la sua dottrina al sentire del tempo, non per tradirla, ma per farne meglio comprendere il senso e la bellezza, nel mutare delle situazioni e dei linguaggi17. E nel farlo riacquisiva il sentire conciliare, dal discorso d’apertura del Concilio di Papa Giovanni sino, appunto, a DV 8, non senza passare dalla testimonianza dei Padri, Vincenzo di Lerino innanzitutto.

Credo che la Chiesa, le Chiese, siano oggi a una svolta. Essa passa dall’abbandono del lessico sacrale, dall’abbandono dello schema gerarchico, dall’acquisizione convinta e piena della comune identità cristiana. Il problema – e mi riferisco alle donne – non è accedere al sacerdozio ordinato, ma interrogarsi sul senso che ha oggi nelle forme progressivamente acquisite il ministero ecclesiastico. Dobbiamo ancora parlare di chierici e laici?18. Ha ancora senso contrapporre i christifideles secondo queste due diciture contrapposte e inconciliabili? Molti anni fa, insegnando teologia del laicato, proponevo una rivoluzione semantica: dai laici al laós, dai chierici al klèros, dal secolare al kairós, dal profano al santo19.
La sfida che abbiamo davanti, sfida improrogabile, è quella di ripensare il ministero, di spogliarlo di quanto, culturalmente acquisito, è stato poi dogmatizzato e ontologizzato. Si pensi al christianus alter Christus divenuto sacerdos alter Christus, tanto per evocare la punta dell’iceberg che va dissolto e smascherato nel suo disegno perverso.
Ho scritto di recente ripetutamente al riguardo e penso di non dovermi ripetere20.
Non c’è futuro per la Chiesa (le Chiese) se non si affronta seriamente la questione in tutte le sue sfaccettature: storico-dogmatiche, bibliche, antropologiche, psicologiche, sociologiche, di genere. Il problema non è donne sì, donne no. Il problema è ritornare alla fraternità/sororità, ben consapevoli della conversione che essa richiede.
Ci vuole un esercizio ardito di discernimento; occorre chiedersi finalmente cosa vuol dire essere Chiesa, cosa vuol dire essere cristiani. Se la risposta lascia ancora in piedi separatezze e ghetti, allora le Chiese sono giunte al capolinea… Ma più potente è il Soffio che le guida e suggerisce a noi la passione di lottare ancora e sempre perché la Sposa bella si lasci restaurare dal suo Signore, e cosmizzare dallo Spirito che, d’ogni peculiarità e limite, d’ogni tempo, luogo, cultura, fa salvezza, opportunità, dono.

1) Cfr. A. Faivre, I laici all’origine della Chiesa, Paoline, Cinisello B. 1986.

2) Cfr. C. Cattaneo (ed.), I ministeri nella Chiesa antica, Paoline, Milano 1987.

3) Cfr. At 6,6 e 13,3; 1Tm 4,14; 2Tm 1,6.

4) Dalla pluralità attestata in 1Cor 12-14 e in Rm 12,6-8 si giunge alla breve lista di Ef 4,11 e, infine, all’unico carisma di 1Tm 4,14 e 2Tm 1,6.

5) Cfr. ancora A. Faivre, Naissance d’une hierarchie. Les premières étapes du cursus clericalis. Beauchesne, Paris 1977.

6) «Due sono i generi dei cristiani. L’uno, che legato al servizio divino e dedito alla contemplazione e all’orazione, si astiene da ogni chiasso di realtà temporali, è costituito dai chierici… L’altro è il genere dei cristiani cui appartengono i laici, laós, infatti, significa popolo. Ad essi è consentito possedere beni temporali, ma solo per i loro bisogni… Ad essi è consentito sposarsi, coltivare la terra, far da arbitri in giudizio, difendere le proprie cause e depositare le offerte sugli Gratiani, c.7, C XI, q. 1).

7) Cfr. I. De la Potterie, “Origine e significato primitivo del termine ’laico’”, in I. De la Potterie- S. Lyonnet (edd.), La vita secondo lo Spirito condizione del cristiano, AVE, Roma 1967, 15-34.

8) «Al grande sacerdote sono state conferite particolari funzioni; ai presbiteri sono riservati posti speciali; ai leviti toccano i servizi propri; i laici sono legati attraverso precetti particolari ai laici» (Epistula ad Corinthios 40,5).

9) Cfr. K.E. Børresen, Le Madri della Chiesa. Il Medioevo, D’Auria, Napoli 1993; Ead., From Patristics to Matristics, Herder, Roma 2002.

10) È il caso di Ildegarda di Bingen, mistica, profetessa, scienziata, predicatrice itinerante nella valle del Reno.

11) Cfr. E. Gössmann, “La teoria della differenza delle donne nella tradizione teologica cristiana” in Concilium 27 (1991), 76-87.

12) Ierateuma nel Nuovo Testamento ricorre soltanto in 1Pt 2,5.9. Al versetto 5 è aggettivato con santo, al versetto 9 con regale. Quest’ultimo riferimento a Es 19,6 viene fatto proprio da Ap 1,6; 5,10; 20,6.

13) «Stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui…» (1Pt 2,9-10).

14) Cfr. J.M.Y. Congar, Per una teologia del laicato, Morcelliana, Brescia 2 1967.

15) Cfr. C. Militello, La Chiesa «Il corpo crismato», EDB, Bologna 2013 (ristampa), 643-657.

16) Il termine participatio riceve diverse aggettivazioni: actuosa (SC 14), conscia (SC 14), interna et externa (SC 19), plena… et communitatis propria ( SC 21), plenaria (SC 41), perfectior (SC 58).

17) Il discorso ai partecipanti all’incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione (11 ottobre 2017) leggibile su http://www./vatican.va.

18) Cfr., da ultimo, l’intervento di M. Vergottini, Il cristiano testimone. Congedo dalla teologia del laicato, EDB, Bologna 2017. La bibliografia sul laicato è enorme. Rinvio alla nota 193 di p. 156 del mio manuale.

19) Scrivevo: «In altre parole, occorre una rivoluzione semantica (in verità anche teologica) che sposti l’accento dal “laico” al laós, dal “chierico” al klèros, dal secolare al kairós, dal “profano” al “santo”. Laós e kleros, nel Nuovo Testamento, sono termini globalizzanti. Nessuno è escluso dal popolo di Dio, tutti i battezzati ne sono porzione scelta. Né l’enfasi del secolare può minimizzare il passaggio teologico dal tempo al kairòs. Per il popolo dei salvati in Cristo Gesù il tempo è ormai tempo salvifico, tempo opportuno, kairòs appunto. Analogamente si è sciolta la contraddizione tra profano e sacro. Non vi è più una casta di puri, di consacrati, cui è contrapposto il gruppo maggioritario degli impuri o dei profani. Su tutti, per grazia, è effusa la santità di Dio. Tutti sono stati resi santi per il Figlio nello Spirito. Il nodo, insomma, non sta dentro la Chiesa, che anzi è chiamata a mostrarlo definitivamente sciolto e superato. La tensione Chiesa-mondo, storia-eschaton, mistero-ministero, comunione-missione – tutti temi forti del post- concilio – impegna tutti indistintamente i battezzati e, in ogni caso, non può venire proiettata al loro interno, di fatto vanificando la riscoperta della categoria di popolo di Dio. Al contrario, la laicità può essere predicata della Chiesa intera, così additando la sua intrinseca realtà di laòs tou theou, di popolo di Dio. È la Chiesa popolo di Dio a dover assumere la mondanità redenta; è la Chiesa popolo di Dio a dover riconoscere la storia come storia salvifica; è la Chiesa popolo di Dio a dover discernere i molteplici doni e servizi che ne significano, anche all’esterno, il mistero di comunione (La Chiesa «Il corpo crismato», 157).

20) Cito per tutti “Sul ministero ordinato. Digressioni impertinenti su una questione ineludibile”, in S. Noceti (a cura), Diacone. Quale ministero per quale Chiesa?, Queriniana, Brescia 2017, 116-139.

 

One Reply to “”

  1. E’ stato difficile il cammino storico-sociale-clericale ma oggi alla luce della memoria e delle conoscenze e del discernimento il popolo di Dio deve vedere in Cristo la luce antica priva di intendimenti forse anche paradossali.L’amore in Cristo non ha divisioni,ha distinzioni ma mai diversità.Il cammino deve irrobustirsi di sapienza pregando di lasciarsi illuminare:un solo popolo un solo Dio.

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