Bergoglio e Dostoevskij
Antonio GRECO
In quest’ultima scheda facciamo riferimento alla quarta domanda che il giornalista inglese Austen Ivereigh ha rivolto a papa Francesco l’8 aprile ultimo scorso.
“M’incuriosiva sapere se nella crisi e nel suo impatto economico si potesse scorgere un’opportunità di conversione ecologica, di rivedere le priorità e i nostri modi di vivere. Gli ho domandato se concretamente vedesse la possibilità di una società e un’economia meno liquide e più umane”, chiede il giornalista.
La risposta di Bergoglio, che qui sintetizziamo, è la più lunga e meditata delle sei risposte.
“Dice un proverbio spagnolo: «Dio perdona sempre, noi qualche volta, la natura mai». Non abbiamo dato ascolto alle catastrofi parziali. (…)
Abbiamo una memoria selettiva. (…) . La memoria ci aiuterà (…).
Non è la prima pestilenza dell’umanità (…).
Questa crisi ci tocca tutti: ricchi e poveri. È un appello all’attenzione contro l’ipocrisia. Mi preoccupa l’ipocrisia di certi personaggi politici che dicono di voler affrontare la crisi, che parlano della fame nel mondo, e mentre ne parlano fabbricano armi. È il momento di convertirci da quest’ipocrisia all’opera. Questo è un tempo di coerenza. O siamo coerenti o perdiamo tutto. (…).
Sì, vedo segni iniziali di conversione a un’economia meno liquida, più umana. Ma non dovremo perdere la memoria una volta passata la situazione presente, non dovremo archiviarla e tornare al punto di prima. (…) È il momento di fare il passo. Di passare dall’uso e dall’abuso della natura alla contemplazione. (…)
E a proposito di contemplazione vorrei soffermarmi su un punto: è il momento di vedere il povero (…). Scoprire la quantità di persone che si emarginano (…) e siccome la povertà fa vergognare, non la vediamo. Sono là, gli passiamo accanto, ma non li vediamo. Fanno parte del paesaggio, sono cose. (…).
Vedere i poveri significa restituire loro l’umanità. Non sono cose, non sono scarti, sono persone. Non possiamo fare una politica assistenzialistica come con gli animali abbandonati. E invece molte volte i poveri vengono trattati come animali abbandonati. Non possiamo fare una politica assistenzialistica e parziale.
Mi permetto di dare un consiglio: è ora di scendere nel sottosuolo. È celebre il romanzo di Dostoevskij, Memorie del sottosuolo. E ce n’è un altro più breve, Memorie di una casa morta, in cui le guardie di un ospedale carcerario trattavano i poveri prigionieri come oggetti. E vedendo come si comportavano con uno che era appena morto, un altro detenuto esclamò: «Basta! Aveva anche lui una madre!». Dobbiamo ripetercelo molte volte: quel povero ha avuto una madre che lo ha allevato con amore. Non sappiamo che cosa sia successo poi, nella vita. Ma aiuta pensare a quell’amore che aveva ricevuto, alle speranze di una madre.
Noi depotenziamo i poveri, non diamo loro il diritto di sognare la loro madre. Non sanno che cosa sia l’affetto, molti vivono nella dipendenza dalla droga. E vederlo può aiutarci a scoprire la pietà, quella pietas che è una dimensione rivolta verso Dio e verso il prossimo.
Scendere nel sottosuolo, e passare dalla società ipervirtualizzata, disincarnata, alla carne sofferente del povero, è una conversione doverosa. E se non cominciamo da lì, la conversione non avrà futuro”.[1]
Impressiona l’abbondanza dei temi di questa risposta: il coronavirus come un segnale della natura, il bisogno di tradizione memoriosa, il richiamo ad evitare l’ipocrisia di alcuni politici che parlano di fame e nello stesso tempo fabbricano armi che uccidono due volte, la necessità di una conversione ad una economia meno liquida, la spinta a fare il salto dall’uso e abuso della natura alla contemplazione, e nella contemplazione inserisce l’urgenza di “vedere il povero” per restituirgli l’umanità e non solo per fare assistenza come per gli animali abbandonati.
A sorpresa Bergoglio, per dare più forza al suo pensiero sulla necessità di unire contemplazione e azione nel “vedere il povero” si “permette” di dare un consiglio: “è il momento di vedere il povero”, sì, ma per fare questo “è ora di scendere nel sottosuolo”. E qui non teorizza, vorrebbe raccontare. Si ferma però a fare riferimento a due romanzi, Memorie del sottosuolo[2] e Memorie di una casa morta[3] di un grande scrittore russo, Fëdor Dostoevskij.
Di quest’ultimo romanzo prende una parte e la propone all’intervistatore in sintesi. La finalità di Bergoglio non è quella di fare letteratura o critica letteraria ma è quella di chiarire il suo pensiero servendosi di un racconto nato dalla creatività di un grande artista.
«Aveva anche lui una madre!»
Il romanzo Memorie di una casa morta di Fëdor Dostoevskij è del 1861. Più che un romanzo è un diario autobiografico. E’ un libro straordinario, anzi unico nella letteratura mondiale. E’ ritenuto lo spartiacque della produzione letteraria tra la prima fase della vita di Fëdor Dostoevskij e la seconda parte che inizia con Memorie del sottosuolo e si conclude con i romanzi più famosi e più conosciuti dello stesso autore.
Quello che accadde nella notte tra il 23 e il 24 aprile del 1849 è stato raccontato in una lettera che Dostoevskij scrisse al fratello al fratello Michail, una delle lettere d’autore più belle di sempre. Dostoevskij era stato condannato a morte per fucilazione, insieme con gli altri componenti del circolo Petraševskij, che si ispirava alle idee socialiste di Fourier per una giustizia sociale a difesa dei più poveri, dopo essere arrestato e rinchiuso nel carcere-fortezza di Pietro e Paolo, a Pietroburgo. Ne riportiamo alcuni brevi passi che servono per capire come e perché è stato scritto Memorie di una casa morta.
«Oggi, 22 dicembre, siamo stati condotti sulla piazza Sëmenov. Lì è stata letta a tutti noi la sentenza di condanna a morte, poi ci hanno fatto accostare alla croce, hanno spezzato le spade al di sopra delle nostre teste e ci hanno fatto indossare l’abbigliamento dei condannati a morte (delle camicie bianche). Dopodiché tre di noi sono stati legati al palo per l’esecuzione della sentenza. Io ero il sesto della fila e siccome chiamavano a tre per volta io facevo parte del secondo terzetto e non mi restava da vivere più di un minuto. Mi sono ricordato di te, fratello, e di tutti i tuoi; nell’ultimo istante tu, soltanto tu, occupavi la mia mente, e soltanto allora ho capito quanto ti amo, fratello mio carissimo! Ho fatto anche a tempo ad abbracciare Plešceev e Durov, che mi stavano accanto, e a dir loro addio. Finalmente è stato dato il segnale della ritirata, quelli che erano legati al palo sono stati ricondotti indietro e ci è stato letto il proclama con cui Sua Maestà Imperiale ci donava la vita. Quindi è stata data lettura delle condanne autentiche. (…) Fratello, io non mi sono abbattuto, non mi sono perso d’animo. La vita è vita dappertutto; la vita è dentro noi stessi, e in ciò che ci circonda all’esterno. Intorno a me ci saranno sempre degli uomini, ed essere un uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, in qualsiasi sventura, non abbattersi e non perdersi d’animo, ecco in cosa sta la vita, e in che cosa consiste il suo compito. Io mi sono reso conto di questo, e questa idea mi è entrata nella carne e nel sangue. (…) Fratello, ti giuro che non perderò la speranza e conserverò puro lo spirito e il cuore! Rinascerò per una vita migliore. Ecco in che consiste tutta la mia speranza e il mio conforto»[4].
Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre, la notte di Natale, Dostoevskij e gli altri condannati partono, in slitte scoperte, alla volta della Siberia. Dopo due settimane di viaggio, un viaggio durissimo, i detenuti arrivano a Tobol’sk, dove restano fino al 20 gennaio. Tre giorni dopo Dostoevskij giunge infine ad Omsk, luogo di reclusione. Iniziano così i quattro anni di detenzione e di lavori forzati che lo scrittore rievoca nelle Memorie di una casa morta.
Il libro è composto da due parti. La prima parte ha 11 capitoli[5], la seconda 10.
La citazione di Bergoglio è nella seconda parte al capitolo I (L’infermeria). Riportiamo l’intero brano per poter capire meglio la citazione di Bergoglio:
“E non posso non dire a questo riguardo almeno poche parole, prima di riprendere la mia descrizione. Parlo dei ferri ai piedi, da cui nessuna malattia dispensa il condannato ai lavori forzati. Perfino i tisici morivano in catene sotto i miei occhi. (…) E a nessuno mai era venuto in mente, in tutti quegli anni, di interessarsi almeno una volta presso i superiori, perché fossero tolti i ferri a un detenuto gravemente malato, specie se di tisi.
Mettiamo pure che i ferri non siano di per sé Dio sa quale carico. (…)
Infatti non si può mica temere che il tisico fugga. A chi potrebbe venire in testa una cosa simile, specialmente ove si prenda in considerazione una certa fase della malattia? (…) I ferri non sono altro che un ludibrio, una vergogna e un peso, fisico e morale. Così almeno si presuppone. (…)
Ed ecco che ora, mentre scrivo questo, mi si presenta vivamente alla memoria un moribondo, un tisico, quello stesso Michailov che era coricato quasi dirimpetto a me, non lontano da Ustiantsev, e che morì, mi ricordo, il quarto giorno dal mio arrivo in corsia. (…)
Era un uomo ancora giovanissimo, non più che venticinquenne, alto, esile e di aspetto oltremodo grazioso.
Viveva nella sezione speciale ed era taciturno fino alla stranezza, sempre in preda a una certa quale silenziosa, calma malinconia. Nel reclusorio pareva che “risecchisse”. Così almeno si esprimevano poi sul suo conto i detenuti, fra i quali aveva lasciato buon ricordo di sé. Rammento solo che aveva bellissimi occhi e non so davvero perché egli mi risovvenga così nitidamente.
Morì circa alle tre del pomeriggio in una giornata gelida e limpida. Ricordo che il sole penetrava coi suoi forti raggi obliqui dalle finestre della nostra corsia attraverso i vetri verdognoli leggermente gelati. Tutto un fascio di quei raggi si riversava sul disgraziato. Egli morì fuori di conoscenza e agonizzò penosamente e a lungo, per alcune ore di seguito. Fin dal mattino i suoi occhi avevano cominciato a non più riconoscere chi gli si avvicinava. Si voleva in qualche modo dargli sollievo vedendo che era gravissimo; respirava a stento, profondamente, col rantolo; il suo petto si sollevava molto, come se gli mancasse l’aria. Aveva respinto da sé la coperta, tutti gli indumenti e infine aveva cominciato a strapparsi la camicia. Era spaventoso vedere quel corpo lungo lungo, dalle gambe e braccia scarnite fino all’osso, dal ventre infossato, dal petto sollevato, con le costole che si disegnavano nettamente, come in uno scheletro.
Sull’intero suo corpo non era rimasto altro che una crocetta di legno con un amuleto e i ferri, attraverso i quali pareva che avrebbe ora potuto far passare la gamba risecchita. Mezz’ora prima della sua morte, da noi tutti parvero quietarsi e presero a discorrere quasi bisbigliando. Chi andava su e giù camminava senza far rumore. Tra loro facevano pochi discorsi, su cose estranee, lanciando solo a tratti delle occhiate al morente che rantolava sempre di più. Infine, con mano errante e malferma, egli si tastò l’amuleto sul petto e prese a strapparselo via, come se anche quello gli fosse di peso, gli desse fastidio, l’opprimesse. Gli tolsero anche l’amuleto. Dopo una decina di minuti morì. Bussarono alla porta per chiamare il soldato di guardia, lo informarono. (…).
Tosto andarono ad avvertire il picchetto di guardia: il delinquente era di quelli importanti, della sezione speciale; anche per riconoscerlo come morto erano necessarie particolari cerimonie. In attesa degli uomini di guardia, qualcuno dei detenuti espresse a bassa voce l’idea che non sarebbe stato male chiudere gli occhi al defunto. Un altro lo ascoltò attentamente, poi si avvicinò in silenzio al morto e gli chiuse gli occhi.
Avendo scorto la croce, che era posata lì sul guanciale, la prese, la osservò e, senza parlare, la rimise al collo di Michailov; gliela rimise e si segnò. Intanto il viso del morto s’irrigidiva; un raggio di sole giocava su quel viso; la bocca era semiaperta; due file di bianchi denti giovanili luccicavano di sotto alle labbra esili, appiccicate alle gengive.
Finalmente entrò il sottufficiale di picchetto con daga e casco, dietro di lui erano due guardiani. Egli si avvicinava rallentando sempre più i passi, gettando occhiate perplesse ai detenuti ammutoliti che lo guardavano con aria severa da tutte le parti.
Arrivato a un passo dal morto, si arrestò come inchiodato, quasi intimidito. Il cadavere interamente denudato, risecchito, coi soli ferri indosso, gli aveva fatto senso, ed egli tutt’a un tratto si sfibbiò il soggolo, si tolse il casco, cosa che non occorreva affatto, e si fece un ampio segno di croce. Aveva una faccia severa, una testa grigia, da vecchio soldato. Mi ricordo che in quello stesso istante era lì in piedi Cekunov, anche lui un vecchio brizzolato. Per tutto quel tempo egli guardò in silenzio e fissamente il viso del sottufficiale, proprio a bruciapelo, osservando con una certa strana attenzione ogni suo gesto. Ma i loro occhi s’incontrarono e a Cekunov improvvisamente, chi sa perché, tremò il labbro inferiore. Egli lo storse in un certo modo strano, scoprì i denti e rapidamente, come facendo all’impensata un cenno col capo al sottufficiale in direzione del morto, disse:
– Aveva anche lui una madre! – e si allontanò.
Ricordo che queste parole parvero trafiggermi… E a che scopo egli le aveva pronunciate, e come gli erano venute in mente? Ma ecco che presero a sollevare il cadavere, lo sollevarono insieme con la branda; la paglia frusciò, i ferri risonarono fortemente, in mezzo al silenzio generale, battendo sul pavimento… Li tirarono su. Il corpo fu portato via. A un tratto tutti si misero a parlare ad alta voce. Si udì il sottufficiale, già nel corridoio, mandare qualcuno in cerca di un fabbro. Bisognava levare i ferri al morto”[6].
Memoria di una casa morta è più un libro di denuncia che un vero e proprio romanzo. Dostoevskij cerca di raccontare la sua esperienza carceraria. Il protagonista della storia è il nobile Aleksàndr Petrovic’ Goriàncikov, condannato a dieci anni di lavori forzati in Siberia per aver ucciso la moglie in seguito ad un attacco di gelosia.
Dostoevskij descrive sotto forma di diario l’aspra vita in prigione, le difficoltà di ambientamento e di convivenza tra gente di ogni risma, le discriminazioni e i privilegi, la durezza del lavoro e la crudeltà delle punizioni corporali. Ma anche le amicizie, la solidarietà, il bisogno di evadere dalla routine quotidiana, i sotterfugi per guadagnarsi pochi copechi utili a soddisfare qualche effimero desiderio. Dostoevskij è come sempre straordinario nel tracciare i profili interiori dei vari personaggi che si aggirano per la prigione: alcuni vengono descritti come dei criminali incalliti, arroganti e prepotenti; altri come persone punite ingiustamente o come persone che avevano commesso un crimine, ma che erano comunque persone rispettabili. All’interno del carcere Dostoevskij impara ad esplorare, a scandagliare a fondo l’uomo.
Propone così al lettore interessanti riflessioni sulla condizione umana. La situazione del recluso appare infatti una sorta di metafora della comune vita dell’uomo che, anche se libero, si trova senza rendersene conto incatenato a prigionie di carattere morale e materiale e, proprio come quando si è in prigione, ha poche cose cui aggrapparsi: la fede, la propria forza interiore, la speranza. E la speranza è sempre quella di poter un giorno togliersi le catene e oltrepassare il recinto del carcere per riavere la tanto agognata libertà.
Dostoevskij chiude il libro con queste parole: “Le catene caddero. Io le sollevai… Volevo tenerle in mano, guardarle per l’ultima volta. Ora mi meravigliavo pensando che un momento prima stringevano le mie gambe. Su, Dio vi accompagni, Dio vi accompagni!, dissero i forzati con le loro voci ruvide, affannose, ma che avevano un accento di soddisfazione. Si, Dio ci accompagni! La libertà, una vita nuova, la risurrezione dai morti… E’ un momento magnifico!”
All’interno della fortezza di Omsk, tra il fumo e la sporcizia, i ferri ai piedi a rendere disagevole ogni singolo passo, nasce uno degli scrittori più grandi di sempre, autore di monumenti letterari assoluti e ineguagliabili come Delitto e castigo, L’idiota, I demoni e I fratelli Karamazov, i romanzi più noti della letteratura mondiale.
Le Memorie di una casa morta, meno noto, insieme con Se questo è un uomo di Primo Levi, è stato definito il maggiore capolavoro della letteratura carceraria.
«Scendere nel sottosuolo»:
Giovedì 22 maggio del 2014 l’Osservatore Romano, in occasione della uscita nelle edicole italiane di Memorie dal sottosuolo, terzo dei venti titoli previsti per la collana curata da Antonio Spadaro «La biblioteca di Papa Francesco» (edizioni Rcs per il «Corriere della Sera» in collaborazione con «La Civiltà Cattolica»)ha pubblicato stralci della prefazione a firma di Jorge Milia[7], giornalista e scrittore argentino, alunno negli anni sessanta di papa Bergoglio, con il seguente titolo: «Memorie dal sottosuolo – Il libro proibito di Bergoglio».
Perché ieri proibito e oggi consigliato da Bergoglio?
Scrive Milia: “Mi sono imbattuto in questo romanzo in modo quasi comico. Ero un adolescente che aveva solo una certezza: fare tutto ciò che mi veniva sconsigliato di fare. E in quel periodo mi scontrai con questo libro. Volevo prenderne in realtà un altro, collocato su uno scaffale troppo alto della biblioteca del Collegio dell’Immacolata Concezione e, assecondando la legge di gravità, Fëdor Dostoevskij si lanciò su di me colpendo il mio naso. Fortunatamente si trattava di un volume piccolo. Lo presi in mano.
Fu in quel momento che il mio professore di letteratura, che mi passava accanto, vide ciò che avevo in mano e mi disse: «Non ti conviene leggere Dostoevskij e in particolare questo libro». «È brutto?». «No, figurati, è molto interessante». «Allora, qual è il problema? Mi darebbe un certo tono dire che sto leggendo Dostoevskij». «È un libro un po’ deprimente per un ragazzo della tua età». «Più di Kafka?» domandai. «Questo no. Comunque fai quello che credi» concluse alzando le spalle. Mi affrettai ad aggiungere: «Mia nonna mi chiederà se è comunista. Per lei tutti i russi sono comunisti e scomunicati. Le dirò che me lo ha raccomandato il professore di letteratura». Bergoglio se ne andò ridendo. Inseguito seppi che questo libro era uno dei suoi preferiti”.
Il romanzo è diviso in due parti: la prima ha per titolo “Il sottosuolo”, la seconda “A proposito della neve bagnata”[8]. Cfr. sintesi in nota.
Il sottosuolo e Liza
“In A proposito della neve fradicia, l’uomo del sottosuolo racconta l’incontro con la “candida prostituta Liza”. Il suo rapporto con Liza inizialmente non è diverso dagli altri suoi “rapporti o tentativi di rapporto”: “la cosa comincia per il protagonista come un gioco, un gioco crudele, suggerito dalla noia; ma sotto il gioco c’è quel desiderio di dominio e di sopraffazione che sta alla base della psicologia del sottosuolo”. Si tratta dell’“atteggiamento del sadico”, o del “Dongiovanni”, nettamente contrapposto all’amore autentico. Tale atteggiamento cerca nel rapporto con l’altro “la propria affermazione, la conferma della propria potenza”, inoltre considera l’altro “alla stregua di un oggetto”. Ecco che con Liza l’uomo del sottosuolo si trova di fronte ad “un fatto nuovo e per lui inaudito”: si accorge che la ragazza non cerca come lui “un’affermazione”, non è impegnata in una “lotta”, ma anzi “vuole darsi a lui per aiutarlo ed essergli vicina, perché di tutto quel suo blaterare ha capito soltanto una cosa, ha capito che lui è profondamente, irrimediabilmente infelice”. Si tratta per l’uomo del sottosuolo di “una rivelazione inaudita”, di cui ha soltanto letto nei libri, ma mai provato né sentito. In quel momento intuisce “una diversa specie d’amore, un amore che può essere la strada, l’unica strada per uscire dalla sua condizione, una strada per la quale, senza lotta, egli potrebbe ottenere quel riconoscimento di sé stesso che aveva sempre vanamente tentato di conquistare imponendo il suo dominio e strumentalizzando l’altro”. Liza mostra all’uomo del sottosuolo “la strada della salvezza senza lunghi discorsi, anzi senza dire neppure una parola, soltanto con il suo atteggiamento smarrito, dolente e disarmato che esprime la sua totale disponibilità a comprenderlo, ad accettarlo e ad amarlo senza condizioni, a voler soffrire per lui”. Per la prima volta l’uomo del sottosuolo conosce “un istante di totale e autentico abbandono”, nel quale confessa a Liza tutta la sua infelicità, la sua miseria e la sua abiezione. Eppure, già un attimo dopo si rende conto che la strada indicategli da Liza è per lui “impraticabile”, in quanto “non può uscire dalla logica della lotta per il predominio”. Tuttavia, l’uomo del sottosuolo non può tornare ad essere esattamente quello di prima, in quanto quel ricordo “gli pesa” come “un fastidioso motivo musicale che non vuole più andarsene dalla memoria”. Quel ricordo assomiglia ad un “rimorso” e a un “rimpianto”. Rimorso, poiché per Liza nonostante tutto ha provato una “sincera pietà”; rimpianto, perché “la visione di quella strada che per un attimo gli si era aperta davanti, non l’abbandonerà mai del tutto, e insieme a essa non l’abbandonerà la coscienza di aver perso l’unica occasione per imboccarla. In fondo a quella strada egli sa – o almeno intuisce – che avrebbe trovato una soluzione di tutti i suoi dubbi, il superamento di tutte le sue angosce. Infatti quella soluzione non sarebbe stata una teoria o una dottrina destinata, come ogni altra, a essere confutata e a essere dichiarata non valida quale ‘causa prima’, quale fondamento ultimo in cui trovare il senso della propria esistenza; bensì sarebbe stata – anzi, per un attimo lo era stata – un dato immediato della coscienza, qualcosa che egli avrebbe potuto ritrovare sempre nel suo cuore”. Secondo Pacini per Dostoevskij l’amore, “quell’amore di cui egli vede il simbolo e la realizzazione in Cristo”, rappresenta l’unica uscita dal dramma dell’uomo del sottosuolo.
Pertanto, anche secondo Pacini, le Memorie del sottosuolo segnano un momento cruciale della ricerca di Dostoevskij, in quanto da questo momento lo scrittore russo individua “il nemico da combattere”: “quel sottosuolo che è la quintessenza di ciò che chiude l’uomo nel cerchio dell’odio e della lotta, che lo fa arroccare su se stesso condannandolo a macerarsi nella solitudine e nella disperazione”[9].
Per Dostoevskij il sottosuolo è la solitudine, l’esclusione dal consorzio umano. Non è un ideale: non è una metropolitana moderna, né è la bellezza delle grotte di Castellana.
“Sottosuolo è assenza di ogni legge o convenienza imposta dalla società o dal prossimo. Sottosuolo è scontro incessante tra pulsioni diverse, tra ordine e disordine, tra regole e caos, tra serenità e tumulto, tra costruzione e distruzione, tra fantasmi eroici e meschinità quotidiane. Sottosuolo è negazione, è distruzione, è rifiuto di ogni fissità convenzionale, è maledizione della solitudine”[10].
Dostoevskij attraverso l’uomo del sottosuolo sembra volerci dire “Guardate l’interno dell’uomo […] osservate come è contraddittorio, basso, vile, spregevole, notate come vi convivono scandalosamente il bene e il male. Non riteniate che quella marionetta che si muove sulla scena del mondo sia l’uomo nella sua verità; l’uomo è una cosa più complessa, più tormentata, più dialettica, più infelice di quanto non si immagini anche in mezzo ai piaceri e alle gioie, più felice che non si pensi anche quando la sventura si abbatte su di lui e lo priva di ogni bene, perché la coscienza è libera di accettare e rifiutare in modi e forme che la psicologia intellettualistica non comprende. Affondarsi nel sottosuolo, in questo terreno paludoso e infido, non è piacevole, spesso è ripugnante, ma per chi non vuole una visione edificante ma una visione vera, questa sonda è necessaria, anche se riporta alla superficie proprio il fondo melmoso, illegittimo, anormale dell’uomo”[11].
Con Le memorie del sottosuolo Dostoevskij scruta nell’intimità più nascosta dell’essere dell’uomo, mettendone a nudo le insufficienze e gli aspetti più terribili e rivelandone le componenti più inquietanti e le contraddizioni. Ma non è un romanzo di psicologia. E’ un romanzo di profonda spiritualità.
In Dostoevskij si deve cercare un modo di prospettare “la realtà spirituale dell’uomo”, “la sua natura enigmatica” e “le sue possibilità di bene e di male”. La personalità umana non è unitaria, ma è scissa in due: da un lato troviamo “la persona onesta e retta, in cui ognuno si riconosce o vorrebbe riconoscersi”, e dall’altro “gli aspetti peggiori, che nessuno vorrebbe ammettere in sé, donde la tendenza ad attribuirli ad un alter ego”.
Il solo pensiero razionale non è in grado di esaurire la vita. La ragione, secondo Dostoevskij, soddisfa solo la parte raziocinativa dell’uomo. La ragione è un valore ma ha anche tanti limiti perché se, infatti, fosse davvero tutto calcolabile cosa rimarrebbe dell’uomo? “Una puntina d’organetto” o “un tasto di pianoforte” – risponde l’uomo del sottosuolo.
Ed è qui il fascino di Memorie del sottosuolo: una concezione tragica della vita, che unisce in una robusta sintesi una religiosità profonda, un vivo senso della terra, una vigorosa consapevolezza della realtà del male e della forza redentrice del dolore, e la convinzione che l’uomo realizza appieno le proprie possibilità soltanto se non vuole sostituirsi a Dio, ma ne riconosce la trascendenza.
Per questo Le Memorie del sottosuolo, opera “ardua e complessa”, viene considerata da Luigi Pareyson[12] come “la più esistenzialistica delle opere di Dostoevskij e vero e proprio prologo alla tragedia in cinque atti costituita dai grandi romanzi”.
La Recezione di Dostoevskij da parte di Bergoglio
Papa Francesco ama molto la narrazione e a buon titolo si è iscritto nella tradizione della “teologia della narrazione”, che trova la sua ispirazione in G.B. Metz, e “l’ha portata più avanti”, secondo quanto scrive Jean-Pierre Sonne[13] in un interessante articolo pubblicato dall’Osservatore Romano del 22 aprile 2020, dal titolo “Apologia della narrazione a due voci: Johann Baptist Metz e Papa Francesco”. L’articolo è un interessante approfondimento del documento a firma di papa Francesco del 24 gennaio 2020 sulle comunicazioni sociali che abbiamo già citato nella precedente scheda[14] e che invitiamo a leggere nella sua interezza[15].
Per capire meglio perché Bergoglio, nell’intervista al giornalista inglese, consiglia di leggere Dostoesvkij, scrittore russo molto amato[16] ma anche odiato[17], suggeriamo la lettura di un approfondimento della recezione del romanziere russo da parte di Bergoglio.
Josè Luis Narvaja, in uno studio del 2018, pubblicato dalla Civiltà Cattolica, dal titolo “IL CONCETTO “MITICO” DI POPOLO – Papa Francesco lettore di Dostoevskij”, scrive:
“C’è un’opera di Guardini che era ben nota al p. Jorge Mario Bergoglio dall’epoca del suo rettorato alle facoltà di filosofia e teologia di San Miguel di Buenos Aires. Si tratta di Dostoevskij: il mondo religioso, nella quale il maestro renano analizza il mondo dei personaggi dello scrittore russo. Bergoglio proprio in quel periodo raccomandava la lettura di questa opera che già circolava tra gli studenti. La sua lettura personale del romanziere russo è stata arricchita dallo studio di Guardini e dalla sua riflessione sintetica e sistematica sul «mondo religioso» presente nelle opere dell’autore russo. È interessante capire come la riflessione di Guardini su Dostoevskij abbia avuto un influsso su Francesco, portandolo ad affermare che «il popolo è un concetto mitico»”[18].
La santità di un popolo di peccatori, la necessità di una trasformazione del mondo, il bisogno di andare con il popolo per conoscere il popolo sono le categorie fondamentali della concezione pastorale evangelica e conciliare di Papa Bergoglio che trovano la loro ispirazione nella lettura che R. Guardini[19] fa di Dostoesvkij.
Perché è il momento di vedere il povero
‘Vedere il povero’ è il messaggio fondamentale del Vangelo di Gesù Cristo. Lo è stato dall’inizio della vicenda del suo annuncio, anche se nella storia spesso tradito e/o stravolto.
Questo della pandemia è il “momento”, è “l’ora propizia, il kairos” che urge. E quest’ora esige coerenza e non ipocrisia, la tragica ipocrisia di chi parla dei poveri ma poi destina risorse più alle armi che ai servizi sociali capaci di rendere la vita di tutti e la economia più umana.
Bergoglio non fa un ragionamento politico o sociologico. Non tocca a lui indicare i mezzi per dare dignità al povero. Indica l’orizzonte, con uno sguardo profondo e lontano. Non fa teoria o analisi astratta.
“Vedere il povero” significa:
- tirarlo fuori dal nascondimento: il vero povero si vergogna, non urla, si nasconde. E così diventa una cosa, un numero. Urge passare dalla disincarnazione alla carne sofferente del povero;
- non depotenziarlo: il povero è soggetto di cambiamento e di trasformazione del modo di vivere anche per la fase due dopo la pandemia. Mi sembra una indicazione molto forte e la più innovativa;
- restituirgli l’umanità: non assistenza, non cose, non scarti ma Terra Casa Lavoro. Ritorna più forte il Discorso ai movimenti popolari di Papa Francesco. Questo programma è l’essenza del evangelo prima che un programma sociale ed economico. E se non si prende in considerazione ora, quando?
L’“Evangelio Bergogliano” mi richiama, stando in tema letterario, la grande pagina letteraria di riflessione filosofica e politica scritta da Dostoevskij: la Leggenda del Grande Inquisitore, la storia che Ivan racconta a suo fratello Alioscia nel quinto libro dei Fratelli Karamazov.
La scena iniziale raccontata da Ivan è quella di una piazza della Siviglia del XVI secolo ai tempi dell’Inquisizione, in un’estate infuocata, in cui anche le notti, attraversate dall’odore del lauro e del limone, non concedono respiro. In quella stessa piazza, il giorno prima, erano stati bruciati, su ordine dell’Inquisizione, più di cento eretici. In quella piazza si aggira una folla misera, che affronta la sua sofferenza e che non ha mai cessato di attendere che sia realizzato il messaggio di Cristo povero, pur avendo trascorso nell’attesa di quella nuova incarnazione ben quindici secoli. Ma proprio in quel giorno Cristo ritorna mescolato fra la folla. Questa lo riconosce e gli chiede miracoli. Cristo prima dà la vista a un cieco e poi riporta in vita una bimba di sette anni morta. Ma in questo momento entra in scena il Grande Inquisitore, un vecchio di quasi novantanni. Riconosce Cristo e dà ordine di portarlo in prigione. La folla, intimorita e ormai abituata a obbedire, lascia passare le guardie che arrestano il Cristo. E’ proprio al culmine di questa sivigliana notte senza respiro che il Grande Inquisitore si reca a far visita al suo prigioniero. Durante tutto il suo lungo discorso si rivolgerà a Cristo con il tu, ma non farà mai il suo nome, così come Cristo ma non replicherà mai al monologo del suo interlocutore. E’ questo straordinario e sorprendente rovesciamento dei ruoli a rendere fosca e angosciosa la notte: Cristo è prigioniero non di un potere avverso od estraneo alla religione cristiana, ma di un prelato che deriva la propria autorità dalla sua predicazione, dalla verità in essa rivelata. Cristo ha quindi sbagliato. “Tu, lo rimprovera il vecchio, non volesti asservire l’uomo col miracolo, e bramavi una fede libera, (…) e non già le servili effusioni dello schiavo al cospetto del potente, che una volta per sempre lo ha terrorizzato”. E così facendo hai “giudicato troppo altamente gli uomini che, in fin dei conti, sono degli schiavi, seppure con la costituzione del ribelle”. La Chiesa non ha fatto altro che partire da questo limite, dal disegno di colmare questo vuoto, e ha provveduto a colmarlo. Essa ha restaurato la forza del mistero, del miracolo e del potere, dice il grande vecchio inquisitore.
La Leggenda ha avuto ed ha ancora tante interpretazioni e tante sfumature: si tratta di una rappresentazione letteraria della realtà in cui si incrociano dimensioni contraddittorie, il cinismo di chi strumentalizza la debolezza degli uomini ma anche la boria dei migliori, un sospetto amore per gli uomini e la feroce presunzione di poterli sottomettere ad ogni arbitrio. Non discutibile però è il pessimismo del Grande Inquisitore con il quale conduce in realtà una guerra antropologica preventiva ed efficacissima contro la speranza di un futuro nuovo.
L’ 8 aprile 2020, data della intervista di Bergoglio, sembra lontana un secolo per i tanti fatti accaduti e per la spasmodica attesa di una fase II della nostra vita alle prese con questa pandemia. Tutto tornerà come prima o niente tornerà come prima?
A proposito di “è il momento di vedere il povero” del Vangelo reso vivo da Bergoglio, il Grande Inquisitore sembra essere la Chiesa dei vescovi italiani, che due giorni fa hanno scritto: “Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. Come a dire, “Cristo, hai sbagliato a identificarti con il povero e a incarnarti in esso. Senza il culto, senza la religione, senza la chiesa materiale il povero non lo vedremo mai”.
Ha scritto Alberto Maggi: “Nei primi secoli del cristianesimo non c’erano le chiese eppure sono stati i più vivaci per la crescita della comunità cristiana. L’eucaristia si celebrava nelle case e il cristiano si riconosceva per la sua attenzione verso gli ultimi. Il successo del cristianesimo è stato proprio che i paria della società hanno scoperto che anche loro avevano una dignità. Non è stato nelle basiliche”.
(fine)
30 aprile 2020
Antonio Greco
[1] IL PAPA CONFINATO. INTERVISTA A PAPA FRANCESCO
[2] Memorie del sottosuolo, Et classici, Einaudi, 2014, pp. XVII-132
[3] https://www.amazon.it/Memorie-casa-morta-F%C3%ABdor-Dostoevskij/dp/8817000388. Bergoglio sostiene che questo romanzo sia più breve di Memorie del sottosuolo. Ma non è così.
[4] Fëdor Dostoevskij, Lettere sulla creatività, traduzione e cura di Gianlorenzo Pacini, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 27-32
[5] I parte: La casa morta; Prime impressioni; Prime impressioni; Prime impressioni; Il primo mese; Il primo mese; Nuove conoscenze: Petrov; Uomini risoluti: Lucka; IsajFomic-il bagno-il racconto di Baklusin; La festa del Natale di Cristo; La rappresentazione. II parte: L’infermeria; Continuazione; Continuazione; Il marito di Akul’ka (racconto); Stagione estiva; Gli animali del reclusorio; Il reclamo; I compagni; Un’invasione; L’uscita dalla galera.
[6] MEMORIE DI UNA CASA MORTA, II parte, capitoli 1, pag. 131
[7] Milia, giornalista e scrittore argentino, è stato allievo negli anni Sessanta all’Istituto dell’Immacolata Concezione di Santa Fe, una cittadina argentina circa 170 chilometri a nord di Rosario. Sulla sua meravigliosa esperienza di alunno di un sacerdote che sarebbe diventato Papa, Milia ha scritto un libro, intitolato appunto Maestro Francesco, edito da Mondadori.
[8] Sintesi del romanzo: Sono tre gli episodi turpi, vergognosi, umilianti che l’uomo-sottosuolo ci racconta. Tre episodi emblematici della sua vita e della sua natura.
Il primo riguarda l’offesa subita da un ufficiale e la relativa sete di vendetta che il protagonista cova dentro di sé addirittura per anni, prima di metterla in pratica.
In questo episodio Dostoevskij rappresenta con la consueta efficacia l’autoreferenzialità dell’uomo-sottosuolo, il suo essere irriducibilmente arroccato in se stesso, ostile ad un mondo che, di fatto, se ne frega di lui, come d’ogni altro individuo. Anni dopo aver subito l’offesa egli trova finalmente il coraggio di vendicarsi, di urtare l’odiato ufficiale, senza che questi neppure se ne accorga. Eppure, questo epilogo, dopo innumerevoli notti insonni, dopo giorni e giorni di rancore masticato e mai sputato, è vissuto come un trionfo.
Il secondo episodio della seconda parte del romanzo riguarda il rapporto tra l’uomo-sottosuolo ed alcuni suoi vecchi compagni di scuola. Il protagonista va a trovare tre ex compagni che stanno organizzando un pranzo d’addio per un altro loro compagno, e decide di partecipare al pranzo senza che i tre lo abbiamo neppure preso in considerazione. E all’Hôtel de Paris l’uomo-sottosuolo si rende protagonista di una lite memorabile in cui i personaggi si feriscono a vicenda in un furioso scambio d’insulti.
Sono pagine straordinarie, divertenti e al tempo stesso drammatiche.
Il terzo episodio è la conclusione del pranzo tra amici in una casa di tolleranza. Il protagonista vi giunge quando i compagni di scuola sono già andati via. Qui incontra la prostituta Liza.
Dopo il rapporto fisico con Liza l’uomo-sottosuolo, in un monologo bellissimo ma drammatico, veste i panni del moralista e getta addosso a Liza tutta la sua miseria ma così la distrugge, senza alcun tatto e sensibilità. E il modo in cui lo fa è un capolavoro di scelleratezza, di insensibilità, di crudeltà verso colei che nonostante tutto era disposta ad amarlo. Fa l’errore di lasciare il suo indirizzo a Liza. Per tre giorni spera tanto che non lo vada a trovare. Invece si presenta a casa proprio nel mentre l’uomo-sottosuolo litiga con il suo servo. Pensa di chiudere l’incontro con Liza con del denaro che rimane su un tavolo. Liza se ne va, lui la rincorre. “Ella non aveva ancora avuto il tempo di fare nemmeno duecento passi, quando io usci di corsa sulla via. Tutto era silenzioso, veniva giù la neve e cadeva quasi perpendicolarmente, stendendo una coltre sul marciapiede e sulla via deserta. Passanti non ce n’erano, non si sentiva alcun rumore (…). Corsi per duecento passi, fino al crocicchio, e mi fermai. Dov’era andata? E perché le correvo dietro?”. Torna a casa. Fantastica per “soffocare con le fantasie la viva pena di cuore” e riflette: “Non sarà meglio se lei si porterà via un’offesa che duri sempre? (…). Che cosa è meglio, una felicità a buon mercato o delle sofferenze sublimi? (…) Non ho mai più incontrato Liza e non ho più sentito parlare di lei. Aggiungerò pure che restai contento a lungo della frase sulla utilità dell’offesa e dell’odio, nonostante che anch’io allora per poco non mi ammalassi dalla malinconia”.
Le Memorie di “questo paradossista”, conclude D., “non finiscono ancora qui”. Continuerà a scandagliare e a scrivere sull’uomo-sottosuolo.
[9] G.PACINI, Introduzione, in Ricordi dal sottosuolo, , Feltrinelli, Milano, 1995, pp. 13-16.
[10] F. MALCOVATI, Introduzione a Dostoevskij, Laterza, Bari, 1992, p. 52.
[11] R. CANTONI, Crisi dell’uomo. Il pensiero di Dostoevskij, Arnoldo Mondatori Editore, Verona, 1948, pp. 50-51 8
[12] L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino, 1993, pag. 148
[13] “L’Osservatore Romano” del 22 aprile 2020.
[14] https://manifesto4ottobre.blog/2020/04/23/la-profezia-manzoniana/
[15] in Messaggio sulle comunicazioni sociali di papa Francesco del 24.01.2020, giorno del patrono dei giornalisti. http://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/communications/documents/papa-francesco_20200124_messaggio-comunicazioni-sociali.html
[16] Per la recezione di Dostoevskij nei nostri tempi suggeriamo lo studio di di V. Chinellato – 2013 in
http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/3813/810995-1165627.pdf?sequence=2
[17] Solo a mo’ di esempio, ciò rinviamo alla lettura di che scriveva Giorgio Pressburger (si può leggere in questo blog) a proposito di Dostoevskij e la sua fede: “Quella sera, seduto nella platea di un teatro mi ero trovato di fronte a un uomo, Feëdor Dostoevskij, che evidentemente non aveva dubbi sulla propria fede…quell’uomo aveva guardato in faccia la morte, era stato portato sotto una forca, gli avevano detto che da lì a un minuto sarebbe stato impiccato, poi all’ultimo istante avevano finto di perdonarlo. Era anche affetto da epilessia, e consumato dalla passione per il gioco d’azzardo, a causa della quale aveva perso tutti i propri beni. Aveva violentato una bambina. Eppure nonostante fosse oppresso da simili inquietudini, quell’uomo aveva la sua incrollabile fede in Cristo. Dava per scontata quella fede, non si chiedeva di che cosa si trattasse, cosa fosse. Questa assenza di domande ultime, questo accettare come naturale tutto, mi sconcertarono. Uscii dal teatro e durante una lunga passeggiata attraverso le strade di Roma, cercai di capire che cosa fosse per me la «fede»” (28-29).
[18] Civiltà Cattolica, Quaderno 4033, Anno 2018, Volume III, 7 Luglio 2018, pag. 14 – 26.
[19] R. Guardini, Dostoevskij, Il mondo religioso, Brescia, Morcelliana, 20005.