“SI PUO’ AMARE ANCHE CIO’ CHE NON ESISTE”. LA LUNGA NOTTE DELLA FEDE

Antonio Greco

Un secolo come il ‘900 sembra non finire mai. Altro che secolo breve. L’antisemitismo, e non solo, tragicamente, continua.

Quando mi sono imbattuto nello “smilzo e intenso” libro dell’ebreo Giorgio Pressburger Sulla fede non era scoppiata ancora la vicenda dell’ottantanovenne senatrice ebrea italiana Liliana Segre, che di recente ha ricevuto messaggi di odio a causa di una proposta di legge da lei presentata in Senato e che oggi ha bisogno, scandalosamente, di una scorta che garantisca la sua sicurezza.

Le riflessioni, in positivo, di questi ebrei sul futuro della storia sfuggono quasi sempre alla cronaca e al sentire comune. Noi che combattiamo l’antisemitismo, interessati più al loro passato (nella speranza che non ritorni più), siamo meno attratti dalle indicazioni da loro date per costruire il nostro futuro. Prendiamo un interrogativo che risuonava inevitabile nella tragica vicenda di chi ha vissuto l’Olocausto: “siamo condannati ad avere ‘fede’, se vogliamo vivere?”

Nel libro Sulla fede Giorgio Pressburger non dà una risposta a questa domanda, ma racconta, con una riflessione laica e umanamente profonda, il suo punto di vista.

Chi era Giorgio P.

Scrittore, regista e drammaturgo di origini ungheresi, ebreo, è nato a Budapest nel 1937 e fuggito in Italia nel 1956 (prima Roma poi Trieste), all’indomani dei fatti di Ungheria.

Era scampato alla Shoah, ma non aveva potuto tollerare la repressione sovietica seguita alla rivolta ungherese del 1956. Per questo si era trasferito a Trieste e vi ha vissuto per decenni, naturalizzandosi italiano.

Pressburger ha avuto una vita interessante, segnata, verrebbe da dire, dagli atti più tragici della storia europea.  Era considerato “l’anima ebraica della narrativa triestina“.

Formidabile è stato il contributo di Pressburger in diversi campi: la letteratura, il giornalismo, il teatro.

Ha tenuto corsi di teatro nell’Università di Roma e nel 1971 anche nell’Università di Lecce sulla cattedra di Storia del teatro[1].

E’ morto a Trieste nel 2017.

Sulla Fede

Sono passati quindici anni da quando Giorgio Pressburger ha dato alle stampe Sulla fede, un libro «lungo meno di cento pagine». «Quel volume nasceva dalla mia esperienza personale di persona vivente e di persona appartenente a una religione perseguitata come l’ebraismo». Pubblicato nel 2004 da Einaudi, è stato ristampato da Treccani-Voci nel settembre 2019 con una interessante saggio introduttivo di Claudio Magris[2].

Il testo è composto da 18 capitoletti, ciascuno di poche pagine (Prologo; Incontro con Dostoevskij; La fede di Kafka; Piccolo intermezzo; Le religioni del mondo; Che cos’è la religione?; Il sonno l’epilessia, l’anestesia. Sparire nel nulla; Fede e malattia, espressione ed euforia; Fede e scienza; Fede e società; Fede privata? Fede collettiva?; Come immagino Dio?; La natura; I luoghi sacri; Fede e credenze; L’ascensione; Fede e solidarietà; Epilogo).

E’ un punto di vista di un uomo “particolare” («A sei anni stavo per essere avvelenato da un soldato tedesco con una zolletta di zucchero all’arsenico; per strada ricevetti lo sputo di centinaia di passanti; mia madre tentò tre volte di uccidersi sotto i miei occhi, ora con un coltello, ora sporgendosi alla ringhiera, ora prendendo dosi micidiali di sonniferi. Anni dopo, una notte, catturato sul confine del paese dal quale volevo fuggire, fui messo al muro e stavo per essere fucilato. Per anni e anni ho patito la fame mangiando frutta e verdura marcia raccattata all’ora di chiusura dei mercati. Ho vissuto con una prostituta. Ma sono un piccolo borghese dell’Europa centrale» (35)) ed una sofferta riflessione sul tema complesso della fede. Ma non è un diario personale. «Credere, non credere, essere buoni, essere cattivi, sperare, non sperare. Sono domande che tutti noi ci siamo posti spesso nella vita, alle quali però fatichiamo a dare una sostanza verbale, perché le parole che provocano sono parole pesanti». Giorgio Pressburger, in questo testo, è capace di attraversare questi territori così spiazzanti, inquietanti che sono l’essere e il divenire, il vivere e il morire, la gioia e la felicità, e a trovare le parole per dirli.

Testo di difficile definizione, tra l’operetta morale, il saggio e il romanzo, Sulla fede è il viaggio di un uomo attraverso i dubbi e le incertezze più profonde dell’animo umano.

Con questo libro P. invita “il lettore a una breve discussione sulla fede. Tenterò di mettere da parte ogni finzione e di essere il più sincero possibile” (25).

Dello stesso tema l’autore ha parlato anche, dopo la pubblicazione del libro, in una intervista[3]:

«Leggi spesso il Talmud?

“Per lungo tempo è stato la mia patria portatile. Oggi lo leggo meno. A volte, ancora, lo apro a caso e leggo un paio di paginette”.

Che rapporto hai con Dio?

“È una relazione che ha accompagnato tutta la mia vita. Mi torna alla mente una frase bellissima di Simone Weil: si può amare anche ciò che non esiste. Perciò ho potuto amare Dio della cui esistenza non sono mai stato sicuro. Ma è sconfortante parlare di questo”.

Perché?

“Se ne parli troppo è come se avessi rinunciato a viverlo, questo Dio. Mi ha sempre colpito che Dostoevskij ne parla tantissimo e che Kafka quasi nemmeno lo nomina. Hanno due modi diversi di interiorizzare la fede. Per uno è un baratro, per l’altro è la legge”.

Per te?

“Non lo so, se potessi dirlo a cuor leggero lo direi. L’unica cosa di cui sono certo è che la fede rende molto più difficile la vita. La fede non facilita l’esistenza. Ma parlarne è forse l’atto più impudico che si possa immaginare”».

Nel 2016 il testo Sulla fede è diventato un film-documentario.

  • I contenuti

Se dopo il 2001 e la tragedia delle Torri Gemelli il tema poteva apparire molto urgente, ora, dopo 15 anni dalla prima pubblicazione di Sulla Fede, il tema appare drammatico.

Parlare di fede oggi (n.d.r.: nel 2004) è un compito spaventoso”, inizia Pressburger (23). Più del 1999, quando inizia la sua riflessione sul tema, dopo aver assistito a una rappresentazione scenica del famoso libro: I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij a Roma. Il personaggio principale del romanzo di Dostoevskij è questo Dio, “un essere unico, invisibile, irriconoscibile, infinito, onnipotente…in nome del quale si sono combattute guerre feroci, sono stati bruciati vivi migliaia e migliaia di uomini e donne, costruiti paesi, città, chiese…dipinti quadri bellissimi, scritti libri famosi…Quella sera, seduto nella platea di un teatro mi ero trovato di fronte a un uomo, Feëdor Dostoevskij, che evidentemente non aveva dubbi sulla propria fede…quell’uomo aveva guardato in faccia la morte, era stato portato sotto una forca, gli avevano detto che da lì a un minuto sarebbe stato impiccato, poi all’ultimo istante avevano finto di perdonarlo. Era anche affetto da epilessia, e consumato dalla passione per il gioco d’azzardo, a causa della quale aveva perso tutti i propri beni. Aveva violentato una bambina. Eppure nonostante fosse oppresso da simili inquietudini, quell’uomo aveva la sua incrollabile fede in Cristo. Dava per scontata quella fede, non si chiedeva di che cosa si trattasse, cosa fosse. Questa assenza di domande ultime, questo accettare come naturale tutto, mi sconcertarono. Uscii dal teatro e durante una lunga passeggiata attraverso le strade di Roma, cercai di capire che cosa fosse per me la «fede»” (28-29).

Parlare di fede e di Dio come ha fatto Dostoevskij credo sia disonesto” (30). Perché “il presupposto della fede è il dubbio e il tormento” (35).

 E cerca, invece, di farsi accompagnare in questo suo itinerario da F. Kafka che su questo tema non cessa mai di interrogarsi fino a concludere che, secondo K., “avere una fede non è soltanto un privilegio ma una condanna a morte, è un impegno tragico” (33).

Ma che significa la parola “fede”, come nasce nella mente? E’ innata o costruita dalla cultura? Che cosa sono le grandi costruzioni mentali politiche, culturali chiamate religioni?

  1. La fede, sottolinea giustamente Pressburger, è diversa dalla religione, da ogni religione.

Commenta Magris: “Gesù o Budda non sono venuti a fondare una nuova religione, alla loro epoca e nei loro paesi ce n’erano già troppe. Sono venuti a cambiare radicalmente la vita, a rovesciarla come un guanto, a crearla di nuovo in ogni uomo o meglio a spingere ogni uomo a crearla egli stesso; a rinascere, a essere un altro o meglio a essere, anzi a diventare dunque sé stesso e dunque a non essere più servo del mondo, bensì a rallegrarsene come un signore” (7).

  1. Il presupposto e le due probabili fonti della fede: la paura e la illuminazione

Non so se ho fede. Oggi penso che il presupposto della fede sia il dubbio e il tormento. (…) Quando si affronta una prova importante per la professione, quando un pericolo dev’essere schivato, quando si vuole riuscire a ogni costo in un’impresa, una persona della nostra stessa epoca (borghese europeo o americano, australiano, canadese, egiziano, pakistano ecc.) si rivolge a un interlocutore infinitamente potente chiedendogli tutto ciò che vuole ottenere. Lo fa mormorando dentro di sé parole e preghiere, dando del tu a questo essere invisibile…” (35-36).

La fede inizia con la paura, secondo Pressburger, paura insita e presente in ogni creatura, non soltanto in quella umana. “Ripenso a come è nato nella mia coscienza, per la prima volta il concetto di Dio. E’ stato inculcato in me da mio padre e da mia madre, oppure preesisteva (…) Sono quasi sicuro di affermare che la fede non abbia origine nell’uomo ma nell’animale. (…) La fede non comincia con l’amore, che si apprende solo in età adulta. La fede invece inizia molto prima: con la paura, anzi con l’essere terrorizzati” (37).

Secondo Magris con questa forte affermazione Pressburger “non intende dire che la fede sia una risposta, un rimedio, un rifugio dalla paura, ora indistinta ma angosciosa ora materiale e terribilmente concreta. Nulla di più lontano da questo libro della fede cui ci si affida o ci si abbandona, in cui si cerca rifugio, protezione e consolazione. La fede, per riprendere la celebre frase di Dietrich Bonhöffer, non è un tappabuchi. È un’esperienza radicale; è la vita stessa attraversata e trafitta dalla ricerca del suo significato, che non è detto sia consolatorio. «È terribile cadere nelle mani del Dio vivente» sta scritto, perché ci si trova davanti al roveto ardente del vivere, senza le mediazioni religiose della liturgia, delle prescrizioni, delle regole, delle interpretazioni, dei codicilli, della Messa domenicale o del venerdì sera al Tempio, del Ramadan o del cibo kasher. Tutto ciò non è affatto convenzionale formalità, come pretende tanta rozza e volgare retorica che sbraita contro l’ordine e le regole così come gli sgrammaticati presuntuosi berciano contro la sintassi. L’individuo ha bisogno di un parapetto quando si affaccia sull’abisso o anche solo dal balcone dell’ottavo piano. Quel parapetto è buono, è umano, è indispensabile nel sostegno che offre, ma non è la fede” (9).

La paura è uno dei motori della vita”, continua Pressburger ed è “in tutti gli esseri”. E in una pagina bellissima descrive la paura di un insetto che teme di venire schiacciato e non sa spiegarsi l’ombra di un uomo che gli si avvicina.

L’altra fonte della fede è il passaggio da indefiniti pensieri quasi animaleschi a una condizione di contentezza, a “una improvvisa consapevolezza di riuscire a fare qualcosa di buono per qualcuno, per qualcosa e per sé stessi. Di non essere inutili nell’immane tessuto di presente e futuro” (53). Da qui nasce la fede dei grandi fondatori e riformatori delle religioni. Ma “la fede, secondo questa esperienza, come la passione, è fugace” (53). Dura poco e Pressburger, guidato da Angela da Foligno, “si sente come un impiccato che penzola nel vuoto, ma non riesce a morire” (54) soprattutto quando questo Dio si nasconde e per quanto l’uomo si sforzi non lo trova né in sé e né in tutto l’universo. Fede vera e disperazione sono due sorelle che vanno quasi sempre insieme.

  1. La religione mezzo per salvarsi dalla disperazione

Pensateci. Fin da bambini ci insegnano che cosa si può fare e che cosa no senza offendere i genitori e, soprattutto, l’Eterno. Ci insegnano come pregare, cosa mangiare, come voler bene. Quella sorta di piccola animale che è in noi addomesticato dalle regole della religione” (55). E descrive in modo empirico le forme di educazione religiosa nel mondo: quella cattolica, ebraica, musulmana, quella dei bambini degli immensi paesi asiatici, quelli della Thailandia, quelli del Bali, quella di un bambino del Tempio del Sole con la sua angosciosa attesa. “Buona parte dell’umanità appartiene a questa infanzia che viene addestrata per credere, per avere fede” (62). Ma “non ci domandiamo mai cosa sia l’immenso edificio della nostra religione. Si tratta di elaborazioni tanto complicate da perdercisi. La religione così come si è sviluppata nei millenni e nei secoli anche a noi vicini è, nella sua complessità, qualcosa di non meno mirabile di una scienza come la matematica o biologia o la fisica. Si tratta di costruzioni mentali gigantesche, di una sottigliezza e di una solidità inaudita. (…) Cosa ha a che fare con quelle immense costruzioni la fede? E’ davvero impegnato con tutto se stesso in un credo, chi pratica la religione? No. Ha trovato soltanto il modo di acquietare quell’oscuro mostro dentro di sé che è la paura” (66).

In due capitoletti Pressburger dimostra come la ricerca dell’invisibile, dell’aldilà, della trascendenza, dello spirito universale che appare nella mente dell’uomo trova la sorgente nella esperienza umana del sonno, della anestesia o della epilessia, fenomeni, direbbe Foscolo, “immago della fatal quiete”. Così come dinnanzi alla disgrazia, malasorte, dolore, malattia e morte a cui nessuno si può sottrarre, la prima domanda che uno si pone è: come nasce il Male, chi lo ha inventato, chi l’ha mandato a te, proprio a te. “Su quel terreno nasce anche la fede” (77).

Con il sostegno di molti compagni di viaggio – da Dostoevskij a Kafka, dalla beata Angela da Foligno a Immanuel Kant – la riflessione di P. si trasforma in un serrato confronto con la questione del male e della sofferenza.

  1. La fede non religiosa

Per Pressburger non c’è solo la fede come religione, come vedere Dio, come credere che Dio esista, ma c’è anche la fede in un ideale, in un convincimento politico o morale, in una corrente artistica, in un’idea scientifica, fede nella giustizia, nella solidarietà umana, nella verità. “E’ questa bestia che di tanto in tanto si trasforma nella creatura più sublime che conosciamo: negli artisti capaci di darci il senso della bellezza, negli scienziati, nei pensatori, nei filosofi, nei profeti che ci danno la misura della morale delle nostre azioni volte a eliminare la solitudine di ciascuno di noi di fronte alle angosciose doma alle quali per ora non sappiamo dare alcuna risposta” (135).

In un forte crescendo Giorgio Pressburger -commenta Magris- dilata la fede in qualcosa di onnicomprensivo (…) in ogni convenzione radicata, in ogni ideologia, in ogni credenza – religiosa, scientifica, artistica. (…) La fede non è una dimostrazione scientifica né un “credere” a una serie di proposizioni…La fede -e questo libro lo dice fortemente, scrive Magris- ha una sua specificità che la distingue da ogni altra pur radicata convinzione. Non ci si può comportare come se si credesse alla teoria dell’evoluzione o all’economia neoclassica senza credervi ma sperando che si finirà per credervi. Ma si può invece vivere come se ci fosse Dio anche senza esserne affatto sicuri e senza cercare maniacalmente le prove della sua esistenza (…) lasciando, pur senza occuparsene troppo, uno spiraglio, una mezza porta aperta dalla quale il totalmente Altro, irriconoscibile e impenetrabile, potrebbe entrare, furtivo o anche con fracasso” (14,19).

  1. Fede privata? Fede collettiva?

In un capitolo fatto di soli interrogativi Pressburger si chiede: se “chi ha fede è solo, completamente solo”, come può “l’energia della fede propagarsi, estendersi tra milioni e milioni di esseri umani? Come può diventare un fatto collettivo? (89). Pressburger è convinto che nel passato “la fede, ciò che noi chiamiamo così, è stata il cemento della società. Ora lo è il denaro. L’economia globale vive di queste labili rappresentazioni. Della deificazione del denaro” (91).

  1. Siamo condannati ad avere ‘fede’, se vogliamo vivere?

L’assenza di fede. Dove conduce?

Aver una fede pare essere l’unica condizione per andare avanti sulla nostra strada. Altrimenti la legge della bestia, del più forte, ha il sopravvento e ci uccide subito: noi, il popolo a cui apparteniamo o altri tipi di gruppi umani. Perché la maggior parte degli uomini, la stragrande maggioranza, è debole e indifesa, come i bambini: ucciderli è facile. Non c’è via di scampo, dunque? Siamo condannati ad avere “fede”, se vogliamo vivere? Con la nostra parte oscura, combattere un’altra parte oscura? L’animale che è in noi, non il nostro intelletto, ci porta avanti, verso le vette della più alta spiritualità? Qui vedo il paradosso della fede. E finisce qui la lunga notte, durante la quale ho cercato di vedere in me, per capire dove nasca ciò che comunemente si chiama fede” (134).

  1. Oltre il presente, il futuro.

Vedo con pessimismo il presente, non il futuro”, sostiene Pressburger. Da costruire non con la spocchiosa sicumera di chi pensa di avere una ricetta per costruirlo ma con il dubbio della fede: “Una delle possibilità della fede: dubitare. Oscillare paurosamente tra un credo fiducioso e il più profondo avvilimento per l’orrore di cui è permeato il mondo. Esultare o abbattersi fino al pensiero più disperato. Oppure -altra ipotesi- accettare con scetticismo verso tutto, come unica cornice della nostra esistenza, la realtà del mondo così com’è, senza scappatoie, cercando semmai di migliorarla. Oppure trovare in nuove inaudite violenze rivoluzionarie l’unica speranza di una futura società più equa e più giusta che prevalga poi sempre tra gli esseri umani. E infine vivere con fanatica ferocia le grandi costruzioni religiose, i grandi miti, tramandati dalle antiche civiltà escludendo la ragione, e persino l’inesistenza di chi è diverso da noi. Queste sono le scelte, per ora (139), conclude Pressburger.

  • Il docu-film

Il testo Sulla Fede, così denso di contenuti, è stato trasposto in un film-documentario[4] da Mauro Caputo, giovane regista triestino, con il titolo Il profumo del tempo delle favole[5]. E’ stato girato tra Trieste e Muggia.

A conferma del carattere esperienziale della materia “fede”, l’elemento più rilevante del film è il testo, prevalente su immagini e su musica, che riporta le affermazioni e i concetti più importanti del libro. La voce profonda dello stesso Pressburger che narra si offre ad un ascolto, non facile ma quasi magico e ipnotico.

Le immagini di repertorio e finzione diventano solo illustrative. Con esse sullo schermo vengono rese perfettamente le tre fasi della vita di Pressburger finalizzate a raccontare e a far riflettere sui contenuti sulla fede che l’autore ha fissato da tempo sulla carta. Il film inizia con immagini avvolte nel buio e nel nero, come i ricordi del passato, che sembrano svanire nel nulla, come il mistero della vita a cui non riusciamo a trovare risposta, lasciando spazio solo alla voce di Pressburger che rompe il silenzio, facendosi riflessione. Poi quando ci viene mostrato il bambino Pressburger (interpretato da Antonio Cacace), la tavolozza cromatica cambia: i colori sono caldi, avvolgenti, familiari, ingialliti dal tempo; mentre, nel momento in cui vediamo un giovane Pressburger (Daniele Tenze) intento a scrivere o seduto in mezzo al verde e alle pietre del Carso, con la mente affollata da pensieri e riflessioni, i colori si fanno più vivi, contrastati, forti, ad indicare la forza, la vitalità dell’essere giovani.

Il film si conclude nella quiete del tramonto. Giorgio Pressburger vede sé stesso da piccolo, mentre gioca in riva al mare. Le due figure si incrociano. Il passato e il presente si incontrano. La storia termina, ma il mistero resta.

Perché l’attenzione a questo libro?

Le interrogazioni sul religioso oggi passano solo attraverso le porte strette dell’esperienza di vita. Il testo di Pressburger non è un testo sulle religioni e non è un testo che si propone finalità di dialogo interreligioso. E non è neppure un esercizio letterario. E’ un racconto e anche una riflessione. Credeva nell’uomo, Giorgio Pressburger, e lottava contro i pericolosi individualismi che, oggi, nella nostra Europa, azzerano la solidarietà. La sua fede, con la sua connotazione ebraica, descritta nel libro e in modo meno diretto nelle altre sue opere[6], è parte fondante di questa lotta. Ho trovato il libro sincero, molto pensato, con molti punti interrogativi. Perciò non dommatico e definitivo.

Ribadisco però: è uno dei tanti punti di vista del vasto mondo dell’esperienza religiosa e di fede.

Più che sui contenuti, alcuni dei quali molto discutibili, del testo è utile soffermarsi sul metodo usato da Pressburger, basato sul dubbio e sulla ricerca. I risultati sono accattivanti perché frutto di riflessione che scava sempre più a fondo.

In un tempo in cui impera l’ateismo pratico, cioè la rimozione di Dio senza affrontarlo, come se fosse un vaniloquio, robetta da bambini – ateismo pratico che anche la chiesa cattolica non solo non sa affrontare ma anzi sembra alimentare -, confrontarsi con chi scandaglia nella propria vita, per capire sempre di più da che cosa nasce il nostro credere e la nostra fede, non può non fare che bene.

Si dirà che l’esperienza ebraica e triestina è lontana dalla nostra cultura religiosa e mediterranea. In realtà se l’ateismo pratico si sta globalizzando e la vita religiosa di Trieste diviene non molto diversa da quella di Brindisi, globalizzare la ricerca e il confronto su questi temi non è elemento secondario per chi ha a cuore la vita piena dell’uomo e dell’universo.

19/11/2019

[1] Per le numerose attività di Pressburger si può consultare: https://www.wikizero.com/it/Giorgio_Pressburger

[2] Giorgio Pressburger, Sulla Fede, con un saggio di Claudio Magris, Treccani, sett. 2019, pp.139, € 10,00.

[3] Antonio Gnoli, Repubblica del 9 novembre del 2015.

[4]   Trilogia dello stesso regista M. Caputo tratta dalle opere di P.: L’orologio di Monaco, Il profumo del tempo delle favole e La legge degli spazi bianchi. I tre film, che a fine anno saranno riuniti in un cofanetto dall’Istituto Luce – Cinecittà, distributore e produttore del lavoro di Caputo insieme a Vox Produzioni, mettono in relazione due delle opere più complesse dello scrittore triestino con uno dei suoi racconti più misteriosi; per l’appunto La legge degli spazi bianchi che apriva l’omonima raccolta pubblicata da Marietti nel 1989 e ristampata dalla Bur nel 1992 con introduzione dell’ungarettiano Leone Piccioni.

[5]Il profumo del tempo delle favole” è prodotto dalla Vox Produzioni in associazione con l‘Istituto Luce-Cinecittà; mentre i produttori esecutivi sono Federica Crevatin e Omar Soffici.

[6] Ho letto anche dello stesso Pressburger La legge degli spazi bianchi, Marietti, 1989; La neve e la colpa, Einaudi, 1998; L’orologio di Monaco (libro+Dvd), Marsilio, 2017; e, scritto insieme al fratello gemello Nicola (morto prematuramente), Storie dell’Ottavo Distretto, Marietti, 1986.

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One Reply to ““SI PUO’ AMARE ANCHE CIO’ CHE NON ESISTE”. LA LUNGA NOTTE DELLA FEDE”

  1. “Se avrete fede quando un granello di Senape…”Direi quasi empatia in Cristo, entrare in Cristo, fiducia, come uscire dal mondo e dalle sue concezioni e abbandonarsi in Cristo con tutto l’amore di credere. Essere in Cristo come nel Padre senza più dubbi; invocare il possesso di essere in Lui e ascoltarlo nella adorazione più semplice che ci parla dopo avere davvero avuto una conversione. Quel granello di Senape cresce a diventare un albero poderoso tra mille travagli inoffensivi in un contesto che si chiama AMORE. E’ l’amore che sconfigge il dubbio e apre alla ragione del cuore “perchè il cuore ha ragioni che la mente non ha” e lì tutto il mistero si apre e la fede ha servito ad aprire ciò che era nebuloso e inafferrabile. Si, amare l’invisibile che fa luce a che tutto sia visibile.”Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore” (San Giovanni della Croce) e allora senza se e ma chiediamo e tutto ci verrà dato.

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