LA SUGGERITRICE

Antonio Greco

“Imparavo finalmente, nel cuore dell’inverno, che c’era in me un’invincibile estate. (…) il ricordo di quel giorno mi sostiene ancora e mi aiuta ad accogliere con lo stesso animo quel che mi fa esultare e ciò che mi accascia[1].

Milan Kundera dice che i romanzi sono la più importante conquista della civiltà moderna. A riguardo commenta Z. Bauman: “La scoperta del romanzo è l’unione di biografia e storia. Biografia e storia sono in parte autonome, poiché ciascuna è determinata da un proprio modello logico, ma allo stesso tempo non possono vivere l’una senza l’altra. La biografia è impensabile senza la storia, e la storia è impensabile senza le biografie, cioè le storie dei singoli individui[2].

L’ultimo libro dello psichiatra Franco Colizzi è La Suggeritrice, editore Manni[3], dallo stesso autore definito un “romanzo autobiografico”.

 Franco Colizzi, psichiatra e psicanalista, di Ostuni, ha 67 anni, impegnato in politica[4] e nel volontariato[5], da anni è anche scrittore[6].

Il romanzo e “il sugo di tutta la storia”

15 settembre 2017: a Torre Pozzelle (spiaggia di Ostuni), una rovinosa scivolata su uno scoglio procura al nostro intellettuale una frattura scomposta del femore. Per circa un anno Colizzi riflette su questa esperienza di malato, sul corpo, sulle ossa, sul titanio, sulla sua animalità e sulla sua mortalità, sulla finitudine delle cose e sul dolore degli esseri umani e sul suo insegnamento, sul dolore inferto dalla natura e dalla violenza dell’uomo sull’uomo. Medico e malato insieme affondano, con la mente e con il cuore, nella cronaca triste e dolorosa del presente ma soprattutto nel passato: la difficile e dignitosa infanzia nelle tre abitazioni di Ostuni, le cadute infantili, la formazione culturale e la passione per la lettura, il discepolato in una sala da barba. Poi, in pagine molto intense, la morte dei due genitori per cancro.

Il romanzo è composto da 38 brevi capitoletti. Contiene 46 citazioni di diversi autori della letteratura classica e moderna, della poesia, della musica, del cinema ecc.. Indicano la vastità del sapere di Colizzi, il suo indirizzo estetico e il suo orientamento filosofico. Ma anche qualche sua preferenza, come quella di A. Camus:  “Tutto quello che provo qui, da anni, nelle ore più lunghe sottratte agli impegni civili e sociali, assomiglia moltissimo alle profondità contemplative che Albert Camus ha descritto parlando di Algeri, di Djemila e soprattutto della sua Tipasa, luogo di antiche silenziose rovine, di sole dardeggiante, di profluvio di odori e colori di macchia mediterranea nordafricana, di largo mare in dialogo perenne con il cielo sconfinato. E’ un profondo godimento intellettuale e quasi fisico insieme, leggere i suoi scintillanti odorosi “saggi solari”. E diventa naturale meditare” (pag. 18).  Le tante citazioni, però, svincolate dal loro contesto, rendono difficile riuscire a cogliere il filo rosso della sua formazione culturale.

Da lettore che si appropria di ciò che legge, mi sembra di trovare il “sugo” del racconto di Colizzi negli ultimi capitoletti, in particolare, in Omelia per il mio funerale e, nel successivo, “La grande suggeritrice”, che ha ispirato il titolo e che appare come il personaggio principale del romanzo. In realtà le voci del romanzo sono due, quella dello scrittore e quella di una suggeritrice che sale dalla “scatola nera” dell’io dello psichiatra.

“Eppure siete qui oggi ad ascoltare la mia viva voce che, dietro la pagina, vi parla della mia morte che comunque verrà” (178). “Sull’idea in sé, apparentemente c’è accordo: la vita è breve e dovremmo fare il migliore uso possibile del tempo che ci rimane e di cui ignoriamo quale sarà la durata. Su come viviamo, incarniamo quest’idea, c’è però una dolorosa differenza” (179).

La suggeritrice precisa: “Mi compete ricordare che tutto deve finire” (182). “Tutti voi esseri fragili, fantasticate la luce e vivete di illusioni” (184). “Poiché non credi in consolazioni ultraterrene, hai voluto lodare tutta la bellezza dell’umano stare insieme” (183)[7].

 Il testo è un “romanzo interiore” o meglio il “romanzo della coscienza della finitudine, del morire, della fragilità e dei limiti, senza portare nella vecchia stanza del nichilismo e del pessimismo.

Ma quale è il pertugio per non cadere nell’abisso del nulla e per uscire dall’assedio della fragilità e della morte? Questo sentiero non è dato dalle “consolazioni ultraterrene” o da “un al di là che non c’è”. Colizzi al riguardo evita la formula “credente o non credente”. Si sente lontano dal “Dio convenzionale e formale” (pag. 86). É affascinato dalla via negativa verso l’assoluto, quella cioè dei mistici (79), da San Francesco, da don Tonino Bello e dalla religiosità popolare di sua madre. Cita la saggezza del buddismo (65) e quella delle Upanisahad (136).  Si sente molto lontano dai credenti senza dubbi, religiosi e non. “Dopo quel che accadde in una parrocchia nella preadolescenza, per anni non ho rimesso piede in una chiesa. Poi è arrivata una ragazza, la mia futura moglie, grazie al cui amore ho recuperato anche questa libertà” (177). “Non mi sento affatto vicino nemmeno a quelli che già due secoli fa Leopardi chiamava i nuovi credenti. Il consumo, le merci, il denaro, la tecnologia in continua evoluzione sono la fede, il credo dei più. Non per me (176).

Il pertugio per uscire dall’assedio della morte è la consapevolezza che la finitudine rende la vita di ogni uomo assoluta, unica e solidale[8]. Dinnanzi alla finitudine, afferma Colizzi, con un’espressione a lui molto cara perché lascito testamentario materno, “devi aver pazienza” (85).

Da dove nasce questo libro?

Ho scoperto che è bello “raccontarla” sin da piccolo” (21). “L’emozione del raccontare e la correlata sensazione di potenza delle parole mi avvinsero oltre misura” (23). “Il lavoro della mente su sé stessa non mi ha mai abbandonato dalla giovinezza in poi. Anzi è diventato una sorta di ricorrente autoanalisi, molto più faticosa dell’analisi svolta con l’ausilio di un supervisore, ma altrettanto affascinante” (9). Quindi, un Colizzi prima scrittore e poi psichiatra. Con un solo obiettivo in entrambe le attività: umanizzare la sofferenza.

Ma poi è così?

Perché questo libro?

George Orwell si pose da solo la domanda che nessuno dovrebbe mai porre a uno scrittore e io mi permetto di rivolgerla a Franco Colizzi: perché hai scritto questo libro?

Ora, secondo Orwell, ci sono quattro principali motivazioni, per cui uno si possa mettere a scrivere. E, come per le persone che abitano gli scrittori, sono anche queste tutte interconnesse:

“Non considerando la mera motivazione venale, credo che esistano quattro grandi motivatori della scrittura, sia per la prosa che per la poesia. Questi sono, a mio avviso: semplice egoismo, entusiasmo estetico, impulso storico, impulso politico”[9].

La risposta di Colizzi per bocca della suggeritrice è: nella attuale condizione di vita, molto distante da quella della originaria famiglia povera, rispetto alla quale prova quasi vergogna della sua attuale e più agiata condizione, la spinta a scrivere questo romanzo è data dal bisogno di restituire quel tanto che ha ricevuto da sua madre contadina e dal padre pescivendolo. Dopo aver descritto le piccole migrazioni tra le tre povere abitazioni ostunesi dell’infanzia e l’arrivo alla abitazione di via Solarolo, alle spalle del palazzo del Municipio, la Suggeritrice afferma:

E’ da li che sei partito per un nuovo ciclo e una tua famiglia, anch’essa migrata da una casa popolare a un piccolo appartamento a una villetta. (…) Ti è venuto un groppo in gola, perché i tuoi genitori non c’erano più e non l’avrebbero mai vista. E così hai pianto…Più quello spazio ti sembrava accogliente e più soffrivi. Li avresti voluti ospitare, ricompensare almeno un po’ del loro essere andati sempre raminghi da una casa all’altra. Ma soprattutto avvertivi la tua casa come il certificato della tua nuova condizione sociale, molto agiata rispetto a quella dei tuoi genitori. Provavi quasi vergogna di essere divenuto proprietario di quel simbolo di successo e di allontanamento dalle loro vite. E, invece, lo sai bene ora, hai solo dato un senso e un futuro alla loro faticosa storia” (158-159).

Questa motivazione alla scrittura, non prevista da nessuna delle quattro indicate da Orwell, pone una serie di interrogativi: una storia individuale di successo, rispetto a storie familiari di povertà e di miseria, può davvero dirsi storia di redenzione collettiva?

Scrive Colizzi: “Per molti anni (…) mi sono affidato alla corrente tumultuosa della vita pubblica, intrecciando i miei bisogni inconsci con motivazioni etico-sociali” (179). Nel romanzo queste ultime motivazioni scompaiono. Perché?

Scrivere una autoanalisi, libera e sincera, può prescindere da una lettura critica delle strutture sanitarie che una società si è data per umanizzare la sofferenza mentale di uomini e donne comuni?

 Il racconto di un’autoanalisi di uno psichiatra può non tener conto dalle condizioni strutturali in cui versano le strutture che dovrebbero umanizzare la sofferenza mentale di gente comune?

Alla fine del suo piccolo saggio, ad ogni modo, Orwell sente il dovere di constatare una piccola magia: ché la scrittura è sempre un miracolo, e da dove venga la motivazione ai miracoli non sempre è importante saperlo.

In quale angolo della biblioteca porre questo libro?

Un’ultima considerazione.

Si può collocare il romanzo di Colizzi nello scaffale della biblioteca degli intellettuali del Mezzogiorno?

Giuseppe Lupo ha scritto La Storia senza redenzione, Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli, pubblicato in questi mesi da Rubbettino[10]. Una nuova indagine letteraria da cui trapela che gli intellettuali del Sud, a eccezioni di pochi nomi, si sono fermati alla denuncia dei fatti, anziché costruire una cultura progettuale in grado di riscattare o redimere gli umili. In altre parole, “un libro dovrebbe raccontare non solo la Storia, ma il sogno della Storia, che è utopia progettuale, costruzione dell’impensabile e dell’azzardo. Storia del mondo che verrà”.

Non so se un romanzo autobiografico e, per giunta, percorso dall’autoanalisi, possa raccontare la Storia o, ancor di più, il sogno della Storia.

So che vale la pena leggerlo. Anche perché, con umiltà, scrive Colizzi:

E se non sembrassi affatto un pensatore?” (42).

5 luglio 2021


[1] Albert Camus, L’estate e altri saggi solari, in F. Colizzi, editore Manni, Lecce, 2021, pag. 164.

[2] Zygmunt Bauman, A tutto campo, Editori Laterza, Bari-Roma, 2021, p.77.

[3] Franco Colizzi, La Suggeritrice, editore Manni, Lecce, 2021, pp. 190.

[4] E’ stato consigliere comunale in Ostuni, consigliere regionale per la Regione Puglia e segretario provinciale del PDS-DS.

[5] E’ stato, per sei anni, Presidente Nazionale dell’Associazione Italiana Amici di R. Follereau.

[6] Ha scritto: Inseguendo le cose, Schena editore, 1996; Danzatori e orchestrali, Barbieri, 1998; Un potere più grande (2010) e Eutopia (2012), Meridiana; L’aggiustatore di destini, Manni editore, 2015.

[7] Nel romanzo le due voci sono distinte graficamente. La suggeritrice muta, come in sedute di psicoanalisi, in corsivo, dialoga con il paziente, in font normale.

[8] A riguardo rinviamo alla recensione del libro di Telmo Pievani, Finitudine in: https://manifesto4ottobre.blog/2021/03/26/finitudine-senza-alibi/

[9]1.    Semplice egoismo: voglia di sembrare intelligente, di essere chiacchierato, di essere ricordato dopo la morte o di farla vedere a quegli adulti che si prendevano gioco di noi. È stupido pensare che questa non sia una motivazione, e una bella grossa, per giunta. Gli scrittori la condividono con scienziati, artisti, politici, avvocati, soldati, imprenditori di successo – insomma, con tutto lo strato superiore dell’umanità. La gran massa degli esseri umani, in vero, non è egoista: dopo i trent’anni, la maggior parte di noi perde quel senso di grandiosa individualità, e si mette a vivere per gli altri o rimane schiacciata dall’insoddisfazione. Ma c’è una minoranza di persone di talento che restano sempre determinate a vivere la propria vita per sé stessi, e gli scrittori rientrano in questa categoria. Gli scrittori seri, mi verrebbe da dire, sono estremamente più vanesi dei giornalisti, ma meno interessati al denaro.

2.        Entusiasmo estetico: la percezione della bellezza nelle cose del mondo, o anche solo nelle parole e nel modo in cui si incastrano tra loro. Il piacere di ascoltare un suono cadere sull’altro, o la fermezza di una prosa precisa, o il ritmo di una bella storia. Il desiderio di condividere un’esperienza che si sente come imprescindibile e che non deve essere perduta. Il motivo estetico è sempre percettibile, persino autori di saggi e pamphlet, se interrogati, vi diranno che hanno le loro parole preferite e quelle frasi che sono a loro care anche se non per fini utilitaristici. Forse, a parte per il manuale dei ferrovieri, non esiste pubblicazione che prescinda dal motivo estetico.

3.        Impulso storico: quella necessità di scoprire i fatti veri, realmente accaduti, e di collezionarli per la posterità.

4.        Impulso politico: sto usando la parola “politico” nel più ampio dei suoi significati. Il desiderio di spingere il mondo in una certa direzione, di modificare la visione della gente riguardo il tipo di società verso la quale è necessario mettersi in cammino. Ancora una volta, non esistono libri completamente privi di pregiudizi politici. Persino l’idea che l’arte non debba avere nulla a che fare con la politica è un’idea politica” (da…)

[10] Giuseppe Lupo, La Storia senza redenzione, Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2021, pp. 279.

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