CON RAGIONE LUCIDA E COSCIENZA SVEGLIA

24 febbraio 2022 – 24 febbraio 2023

Antonio Greco

È trascorso un anno dall’inizio della invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. Sembra che in quest’anno stampa, media, intellettuali, opinionisti abbiano alimentato una pandemia più grave di quella del covid: il contagio della guerra e il mito della guerra giusta. E non pochi sono coloro che si sono lasciati incantare dal mito di dovere combattere gli aggressori solo con le armi.

Penso che di fronte alla immane tragedia della guerra in Ucraina, tornata a devastare il cuore dell’Europa, bisogna tenere la ragione lucida e la coscienza sveglia.

La ragione lucida

Ho letto un piccolo (si legge in due ore) ma profondissimo testo di Edgar Morin. La voce di questo grande intellettuale, che oggi ha 101 anni, per la sua opera e il suo esempio, rappresenta uno dei punti di riferimento più lucidi per capire meglio quello che sta avvenendo in Ucraina.

NEL SUO NUOVO LIBRO, Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa, edito da Raffaello Cortina (prefazione Mauro Ceruti, pp.104, euro 12), in chiave autobiografica e autocritica il grande pensatore francese offre al mondo della cultura e della politica la propria meditazione sull’impressionante continuità del conflitto, ogni volta di forma inedita e sempre più distruttiva, che ha tragicamente contrappuntato l’intera vicenda storica di un’epoca che, ipocritamente, è considerata come epoca di pace, di libertà e di democrazia, almeno in occidente.

Del libro di Morin, Gabrio Vitali, sul Manifesto del 14 febbraio u.s., tratteggia questa efficace sintesi.

“Dall’ultima Guerra mondiale (riconosciuta), alla quale ha partecipato in Francia e in Germania, come dirigente politico-militare della Resistenza, al conflitto che oggi travolge l’Ucraina e minaccia la stabilità civile dell’Europa, il racconto di Morin trasporta in modo stringente il lettore in un lungo percorso di orrori, distruzioni, crimini e sofferenza che sembra ancora costituire la cifra inamovibile della civiltà contemporanea e, insieme, il prezzo terribile del suo progresso e del sistema di idee che lo produce. L’orrore e il ribrezzo morale per Auschwitz e per il contesto di infame oppressione nazifascista che l’ha generato, ci dice, non possono cancellare l’analogo ripudio e terrore dei bombardamenti anglo-americani delle inermi popolazioni civili, con la loro irrevocabile ed esiziale akmé della bomba di Hiroshima. IL CAMPO DI STERMINIO e la bomba nucleare non si contrappongono, ma sono insieme a ricordarci che l’umanità vive da allora alla temperatura della propria autodistruzione e i modelli di pensiero lineari e oppositivi ai quali siamo ancora soggetti ci rendono incapaci di valutare i contesti di reazione complessa in cui ogni azione umana si inserisce: l’antico assioma latino del si vis pacem para bellum, lungi dal manifestare la propria improponibilità nel mondo globale e nucleare di oggi, continua a farci credere che le guerre si possano fermare soltanto vincendole. Per la valenza complementare di questo ragionamento, Morin non assolve nessuna delle parti in gioco e neppure assolve sé stesso. Anzi, «con la sua singolare capacità di concepire l’umano», si espone direttamente e con piena onestà al lettore – scrive in prefazione Mauro Ceruti – in un «esercizio di auto-osservazione diventa così il laboratorio di un pensiero complesso, teso a cercare in sé stesso, prima ancora che negli altri, l’origine ricorrente dell’errore, dell’illusione e della menzogna». Ne viene l’invocazione a un credibile percorso di speranza che si può originare soltanto in un profondo cambiamento del nostro modo di pensare. «Durante tutto questo lungo periodo di ottant’anni, ho potuto verificare la pertinenza di ciò che ho chiamato l’ecologia dell’azione: ogni azione entra in un gioco di interazioni e di retroazioni che possono modificare il senso dell’azione, se non invertirla, e farla ricadere sulla testa del suo autore»: per tali ragioni, anche una guerra di difesa, condotta per inibire l’estensione e la radicalizzazione di un’opposta guerra d’aggressione, può innescare processi interattivi incontrollati a livello globale con conseguenze che non sarà facile dominare ed evitare. Ed è davvero sorprendente, riflette ancora Morin, che in un contesto così esasperato e pericoloso non si levino che pochissime voci, in Europa, a favore della pace e che queste vengano per giunta tacciate di insipienza politica, di filo-putinismo o addirittura di volontà ignominiosa e complice di capitolazione, quasi il non voler fare la guerra non fosse l’unica politica capace di fermarla. E DOPO AVER PERSINO tracciato le linee di una possibile e praticabile negoziazione della pace, Edgar Morin conclude il suo racconto ribadendone l’immediata necessità: «L’Urgenza è grande: questa guerra provoca una crisi considerevole che aggrava e aggraverà tutte le altre enormi crisi del secolo subite dall’umanità, come la crisi ecologica, la crisi della civiltà, la crisi del pensiero. Che a loro volta aggravano e aggraveranno la crisi e i mali nati da questa guerra. Più la guerra si aggrava, più la pace è difficile e più è urgente. Evitiamo una guerra mondiale. Sarebbe peggio della precedente».

La coscienza sveglia

Alla ragione lucida occorre abbinare una coscienza sveglia.

Viviamo una pace bellica, il corpo comodamente in pace, la mente tra bombe e macerie. Attacchiamo a parole un nemico che ci attacca a sua volta con le minacce, ma noi dormiamo nel nostro letto, non in un rifugio. Eppure, partecipiamo alla vera guerra senza esservi entrati, ma portando armi e munizioni.

Una coscienza sveglia, non sonnacchiosa né indifferente, percepisce che le radici di tutte le guerre sono nel modo con cui ciascuno vive la vita quotidiana, nel suo modo di consumare, nel modo con cui una società si organizza e nel modo in cui è impostato il suo sviluppo economico.

Una coscienza sveglia, non galleggiante sul mare della storia, sa che le radici della pace sono nella scelta della nonviolenza come esercizio della giustizia che risana le situazioni senza fare vittime. Ognuno può contribuire a qualcuna delle azioni che occorre intraprendere (a mo’ di esempio: cura delle relazioni e impegno educativo alla nonviolenza, obiezione fiscale e obiezione di coscienza al servizio militare armato, vicinanza alle vittime, accoglienza dei profughi, pressione sui governi, … ecc) solo se riesce a spezzare dentro di sé il contagio di una pace bellica.

Ma chi sperimenta questa svolta interiore non può non esprimerla contemporaneamente nell’azione culturale e politica, educativa ed economica. Perché il sistema economico di accumulazione predatoria neocapitalista e di competizione universale permanente continua a essere imposto malgrado i danni mortali che determina all’umanità e alla natura.

Nel cammino del mondo verso un ordinamento di pace, intesa come giustizia nella società e tutela degli equilibri della natura, giocano un ruolo propulsivo le soggettività individuali ma anche quelle politiche e strutturali.

Il bisogno di non scindere mai coscienza individuale sveglia e impegno politico, azione locale e pensiero globale, è uno dei tanti insegnamenti che Michele Di Schiena non si stancava mai di ripeterci.

Ci mancano, e molto, le letture che Michele avrebbe fatto di questo tragico anno. Ma con il suo sguardo lungimirante il 13 aprile del 2017 aveva già intravisto “Venti di guerra e domande di pace”. Con l’Europa spettatrice alla finestra, in Siria, accadevano tragiche dinamiche di guerra tra USA e Russia, propedeutiche a quelle di oggi in Ucraina: situazioni diverse ma quasi stesse modalità, stesse dinamiche, stessi tragici eventi.

 Scriveva Michele:

«La notizia della morte di innocenti e di bambini provocata in Siria da gas letale in un’area controllata dai ribelli ostili al governo di Assad (che nega l’impiego bellico di sostanze tossiche) ha provocato un moto di indignazione e di protesta colto al volo, per affermare la sua egemonia planetaria, dal Presidente statunitense che, senza dar conto di asserite verifiche sulle responsabilità per l’accaduto del Governo di Damasco e senza alcuna preventiva autorizzazione internazionale, si è indotto, con dichiarati intenti ritorsivi e cagionando anche in questo caso l’uccisione di civili e di bambini, a ordinare il bombardamento con 59 missili della base siriana dalla quale sarebbe partito l’attacco. Una scelta avventata che ha determinato la stizzita reazione della Russia (…)

Fermo restando che la barbarie del regime di Assad dovrebbe essere efficacemente contrastata e fermata nelle forme legittime previste dal diritto internazionale, va detto che è veramente allarmante l’avventata disinvoltura con la quale Trump ha preso la solitaria iniziativa di scatenare una pioggia di missili sulla Siria e, forte di tanti irresponsabili consensi e di tanti complici silenzi, continua a minacciare la Corea del Nord sfidando in qualche modo la grande Cina. (…)

Preoccupa anche che nessun Paese dell’Europa e, più ampiamente, dell’intero Occidente si sia dissociato dalla grave iniziativa militare di Trump e gli abbia ricordato che l’art. 42 dello Statuto delle Nazioni Unite attribuisce solo al Consiglio di Sicurezza, qualora le misure non militari risultassero inadeguate, “il potere di intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace”. (…)

Si dirà che a fronte di gravi crisi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è spesso paralizzato nelle sue decisioni dal dissenso di uno dei suoi “Membri permanenti”. E questo è vero ma si tratta di un rilievo che, mentre chiama in causa le responsabilità dei governi che continuano a opporsi a riforme di democratizzazione dell’ONU, non può certo giustificare attacchi inconsulti né libera gli Stati Uniti o altri Paesi interessati dal dovere di cercare col massimo impegno le necessarie intese confidando anche nelle pressioni che, in presenza di ingiustificate chiusure, può esercitare l’opinione pubblica mondiale. (…)

Ma è motivo di amarezza anche il fatto che di fronte ai gravi e minacciosi avvenimenti internazionali di questi giorni, non si sia ancora fatta sentire alta e forte la voce di quel Movimento per la Pace (definito dal “New York Times” “la seconda potenza mondiale”) che nel 2003, se non riuscì a fermare la disastrosa operazione militare nell’Iraq, si impose all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale seminando nella coscienza di milioni di uomini principi e valori che alla prova dei fatti hanno dimostrato tutta la loro validità. Una semina che potrebbe oggi produrre utili frutti. C’è allora da chiedersi quale demone, con la perversa astuzia di chi predica il realismo e deride l’utopia per indurre alla rassegnazione, sta frenando gli aneliti di giustizia e di pace che racchiude tale movimento».

Dopo aver citato prima don Mazzolari e poi papa Francesco, «il quale proprio in questi giorni è tornato a denunciare la terribile proliferazione di attacchi bellici da lui definita “guerra mondiale a pezzi” e ha significativamente affermato che la violenza ottiene solo lo scatenamento di “rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo ai pochi signori della guerra”», Michele conclude il suo intervento con un imperativo categorico adeguato al suo carattere:

«Nessuna rassegnazione, quindi, e nessuna caduta di tensione civile: ogni marcia di protesta contro gli autori e i fautori di qualsiasi forma di violenza, ogni appello in favore dell’uguaglianza e della fraternità, ogni veglia di preghiera, ogni bandiera arcobaleno esposta, ogni segno di pace esibito costituisce un piccolo-grande atto di elevata politica inteso a promuovere un fecondo coagulo di energie morali e sociali capaci di togliere dalle mani dei padroni del mondo, per restituirlo a tutti gli uomini, il diritto che essi hanno di decidere il loro futuro e il loro destino».

Michele si rivolgeva a tutti e non era tenero, soprattutto con tanti cattolici, laici, preti e vescovi, che, sordi alla voce profetica e instancabile di papa Francesco, galleggiano da estranei sul mare della storia.

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