Emanato a novembre scorso da papa Francesco – che nel 2018, venticinquennale della morte, era stato sulla sua tomba – il decreto di venerabilità di don Tonino Bello è stato letto dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, il pomeriggio di sabato 15 gennaio, nella cattedrale di Molfetta (Ba) dove mons. Bello era stato per dieci anni vescovo e dove era morto il 20 aprile 1993. Un’altra analoga celebrazione si è svolta ad Alessano, città natale di don Tonino, la domenica 16 gennaio. Un decennio di episcopato tutto controcorrente, in cui si susseguirono gesti che sorprendevano sempre, perché rompevano costantemente gli schemi. Secondo una delle sue più celebri frasi, alla chiesa dei segni del potere preferiva quella del “potere dei segni”. Emarginato dalla quasi totalità dei suoi confratelli e dai benpennsanti in vita, ora la chiesa cattolica, come spesso accade, ha iniziato l’iter per la sua canonizzazione.
Prendendo spunto da un interessante articolo di Giancarlo Piccinni*, presidente della fondazione intitolata al vescovo salentino, apparso su Nuovo Quotidiano del 16.1.2022, Antonio Greco interviene sullo stesso giornale il 22.1.2022 che titola: “La ‘santità’ di don Tonino al di là dei miracoli”.
Antonio Greco
Ha ragione Giancarlo Piccinni e prezioso è il suo intervento del 16 gennaio u.s. su questo giornale. Don Tonino ci emoziona, perché è già “santo”, per tutti noi del popolo.
Un solo punto solleva perplessità: “La chiesa oggi e tutti fedeli aspettano il riconoscimento di un miracolo per la proclamazione della beatificazione e poi della santità”.
Se teniamo conto che a don Tonino guardavano e guardano anche cristiani non cattolici e più in generale persone con un totale disinteresse per le procedure ecclesiastiche di canonizzazione, perché non sono alla ricerca di eventi miracolosi e avvertono anzi che la sua santità racchiude un’altra densità di significati, mi rattrista il pensiero che dobbiamo aspettare “un miracolo” per beatificarlo e “due miracoli” per riconoscerlo “santo”.
Non è in discussione la funzione dei “santi autorizzati” nella vita della chiesa. Né è in discussione il fatto che il magistero possa occuparsi dei cristiani esemplari. I dubbi, invece, nascono sul cosiddetto “processo di canonizzazione” o su quella che è ormai uso chiamare, e non solo tra i cronisti, la «Fabbrica dei santi». L’espressione può suonare irrispettosa o inadeguata, nondimeno ha una particolare efficacia sintetica per descrivere ciò che è accaduto, nell’ambito dell’agiografia cattolica. Nei ventisei anni e mezzo del suo pontificato Giovanni Paolo II ha proclamato 482 santi e 1.338 beati (cfr. I Santi e i Beati, in «Oss.Rom», 17 aprile 2005, p. 6). A partire dalla fondazione della Congregazione dei Riti nel 1588 sino alla conclusione del pontificato di Paolo VI erano stati invece elevati agli onori degli altari 808 beati e 296 santi.
Le modalità della proclamazione dei santi da parte della chiesa sono cambiate nel tempo. Nel secondo-terzo secolo crebbe l’uso di proclamare “santi” i martiri; poi furono aggiunte le vergini e i confessori. Il tutto avveniva a livello di Chiesa locale. La centralizzazione a Roma di tali proclamazioni iniziò ad imporsi all’alba del secondo millennio.
Il processo per una canonizzazione, pur modificato più volte nel tempo, dura molto. Vede impegnate più figure responsabili del suo svolgimento. Per il costo, ogni causa di beatificazione fa storia a sé. La cifra record è di 750 mila euro (costo del processo di beatificazione di Rosmini). È indiscutibile la meticolosità e la serietà dell’indagine, ma possono pesare anche scelte di opportunità storica.
La via sapienziale del popolo nella individuazione di “un santo” appare sempre più separata e distante dalla via processuale codificata. Anche se canonizzazione popolare e canonizzazione magisteriale, mediante il tavolo anatomico del tribunale ecclesiastico, convivono da secoli.
La maggioranza dei fedeli non ha gli elementi per comprendere le distinzioni di “servo di Dio, venerabile, beato, santo” e prescinde, senza particolari imbarazzi, dalle deliberazioni ecclesiastiche per definire i propri luoghi di devozione o di culto per coloro che ritiene già “santi”. Migliaia di fedeli si recano silenziosamente alla tomba di don Tonino Bello, pur essendo il processo canonico appena all’inizio. In realtà per il sentire popolare don Tonino è già santo.
Tra questo popolo c’è chi Lo considera un intercessore, dal quale si esigono determinate risposte e c’è chi non avrebbe biasimato la decisione di non avviare un processo per la sua canonizzazione. E ciò non per dubbi sulla qualità delle virtù del cristiano don Tonino, ma proprio per la convinzione intima che il processo canonico, concepito come retaggio di un’età costantiniana della chiesa, è considerato ormai uno strumento inadatto a gestire, senza snaturarla, la sua ricchezza spirituale. Perché è innegabile che nel processo canonico, per la sua forma mentis inquisitoria, l’apparato giuridico prevale quasi sempre sulla «profezia», la prudenza sulla radicalità evangelica.
Le sue coraggiose prese di posizione, il suo amore viscerale per i poveri, i suoi gesti forti (l’accoglienza degli sfrattati nell’episcopio, la marcia pacifica su Serajevo…), la sua umanità, la sua povertà, la sua semplicità, la sua passione per la pace, il suo urto profetico…e molto altro, hanno reso unico questo vescovo, figlio del Salento.
Ha ragione Piccinni: “Chi lo ha conosciuto sa che lui stesso è stato un miracolo!”. Non un “eroe”, non solo un cristiano esemplare, ma “un «segno»secondo il vangelo di Giovanni”, “mosso” dallo Spirito, che soffia dove vuole, fuori dalle vesti sontuose del magistero e del suo vocabolario dottrinale e che ci ha visitato ad indicare che anche oggi è possibile una nuova umanità.
Se è necessario che per proclamarLo “santo” dobbiamo andare in giro a cercare piccoli o grandi miracoli a base di piccole o grandi guarigioni, allora vuol dire che abbiamo capito poco…della sua santità.
Don Tonino non era un vescovo qualunque. È stato “un vescovo nuovo, inedito, originale in mezzo alla mediocrità tanto diffusa”, secondo le parole di mons. Mincuzzi. Un esempio impegnativo offerto al difficile ministero episcopale. Don Tonino ha sofferto molto la «grande solitudine istituzionale». Più viveva il suo ministero episcopale con radicalità evangelica più era solo.
La novità della santità di don Tonino, per usare una espressione usata dal card. Lercaro per la santità di Papa Giovanni nel 1965, è da cercare nella sua “santità programmatica” cioè “santità di governo”. Egli ha esercitato la funzione profetica del rinnovamento ecclesiale mediante un nuovo archetipo di autorità episcopale.
Mi consta personalmente che la burocrazia ecclesiastica correggeva in vita, con la matita rossa e blu, gli scritti di don Tonino, umiliandolo. La stessa continuerà a vagliarlo nel processo classico canonico. Ma non è questo che pone problemi. L’attuale chiesa-istituzione cattolica italiana, che con molta fatica, sotto la spinta di papa Francesco (qualificato estimatore di don Tonino), ha avviato un cammino sinodale, finora è apparsa lontana dalla “santità di governo” di don Tonino. Sarà capace di riconoscere la santità del ministero episcopale di don Tonino oppure, pur mettendolo in una nicchia o innalzandolo all’onore degli altari, continuerà a vivere e a pensare come se egli non fosse mai venuto fra noi?
Antonio Greco
*https://www.quotidianodipuglia.it/pensieri_e_parole/don_tonino_bello_venerabilita_del_vescovo_celebrazioni_molfetta_alessano-6441665.html