UN UOMO DI FEDE E GRANDE BIBLISTA MA PELLEGRINO E FORESTIERO NELLA SUA CHIESA
E’ lui, Ortensio da Spinetoli, prete cappuccino, grande biblista e uomo di fede, conoscitore di sette lingue straniere tra cui l’aramaico e il greco antico, morto improvvisamente a 90 anni nel 2015. Ha lasciato una bibliografia che, pur senza i numerosi articoli e testi per conferenze, conta 27 testi di esegesi biblica, “un patrimonio che richiederà del tempo perché venga compreso e accolto”. Dopo la sua morte, senza tema di smentita, la diffusione e la conoscenza degli studi biblici di Ortensio hanno conosciuto una forte impennata sia per l’impegno degli amici di Ortensio che per il Centro Studi biblici di Maggi-Perez di Montefano che Padre Ortensio considerava “la sua comunità di riferimento perché –diceva- «qui non si respira l’invidia clericale!»”. Lo dimostra il successo editoriale de L’inutile fardello pubblicato nel 2017, sintesi del suo pensiero e manifesto per un rinnovamento teologico della chiesa, oggi giunto alla quarta edizione[1].
A febbraio scorso, pochi giorni prima delle restrizioni delle relazioni umane a causa della pandemia, G. Cortinovis, imprenditore, stretto collaboratore nella stesura dei testi di Ortensio ed erede letterario, insieme a due medici e ricercatori G.A. Fava e Nicoletta Sonnino, hanno pubblicato per Chiarelettere un secondo testo di scritti di Ortensio da Spinetoli dal titolo La prepotenza delle religioni. Il libro non ha avuto ancora l’attenzione che merita anche a causa del lockdown.
Anche per questo testo, come per L’inutile fardello, la prefazione è di Alberto Maggi.
I testi di p. Ortensio riproposti ai lettori sono 5:
- La prepotenza delle religioni[2]
La relazione inizia con una distinzione, ormai condivisa da molti, delle tre fasi di un’esperienza religiosa: il momento della fede, della riflessione teologica, della riflessione rituale. Dopo aver esposto la “espressione religiosa ebraica”, p. Ortensio dimostra che “la fede di Gesù è la stessa dei patriarchi, di Mosè, dei profeti. L’amore verso Dio è anche per lui il primo dei comandamenti (Mt 22,37), ma egli non ritiene che la comprensione giudaica della salvezza (teologia biblica) e la celebrazione della fede che si svolge nel tempio (religione ebraica) siano le più giuste e soprattutto siano le uniche. Gesù è un profeta (non un teologo, meno ancora un sacerdote)” (pag. 11). “Gesù non si appella alla teologia e alle pratiche religiose, ma alla fede, al rapporto personale che ognuno è chiamato a stabilire con Dio, con il suo Spirito, un incontro, un rapporto che esiste pur senza essere compreso, definito. La fede va normalmente capita e celebrata, ma può essere egualmente grande anche senza comprensioni e celebrazioni. La teologia è il più delle volte cultura; la religione folclore; culture e folclore hanno tenuto e tengono divisi i rispettivi credenti, mentre la fede che è ridondanza di bontà e di amore non fa che unire gli animi” (15). “La testimonianza di Gesù e la sua vita di fede, secondo p. Ortensio, è “rimasta appena abbozzata nei Vangeli, non si è imposta neanche ai suoi seguaci che hanno piuttosto preferito ritornare all’integrismo giudaico che avventurarsi nell’insicurezza della pura fede” (15). Dopo aver preso in considerazione tre punti dell’insegnamento cristologico ufficiale (la persona di Gesù, l’opera di Cristo e la redenzione, la monopolizzazione della salvezza), il relatore conclude: “Le assolutizzazioni teologiche da cui scaturiscono quelle religiose sono nate quando le esperienze, le testimonianze di fede, si sono distaccate dalla storia. Il cristiano deve tornare all’esperienza di Gesù Cristo anche se questa è ricordata solo a malapena nei Vangeli. (…). La vera fede è storia, antropologia, sociologia, cosmologia, perché il vero dio non è nella stratosfera ma nelle realtà esistenti, negli esseri che arricchisce di sé Stesso e mantiene in vita. Se si perde il contatto con il reale, si perde il contatto con Dio. L’immanentismo è il campo in cui tutti gli operai della vigna si incontrano concretamente tra di loro e con il Progettista. Il cristiano teorizza (fa teologia) e celebra (compie riti) in genere più di quanto operi, più di quanto cioè creda. Dovrebbe cominciare a fare il contrario” (29).
2. Interrogativi su Gesù e i Vangeli[3]
Che ha fatto e detto Gesù? “La testimonianza di Gesù rimane la più provocatoria che l’uomo incontra nel suo cammino. La «memoria» che ha lasciato di sé stesso ai suoi ricorda lo spezzamento che egli ha fatto della sua vita, il versamento fino all’ultima goccia del suo sangue per il bene di tutti ovvero per la realizzazione di una convivenza di amici, di eguali, di fratelli senza distinzione di razza, di cultura, di fede religiosa”(35). Gesù non ha avuto né il tempo né la necessità di dare una forma o una ristrutturazione al suo movimento. Cosa che hanno fatto i suoi seguaci a partire già dalla seconda e terza generazione del I secolo, quando è accresciuto il numero dei credenti. “Più persone che vivono insieme hanno necessariamente bisogno di organizzazione, solo che questa non può travisare le intenzioni del fondatore. La chiesa si è organizzata ma ha scelto modelli ambigui, quelli che Gesù aveva espressamente rifiutati, lo schema ellenistico o dei “gentili” (il re o l’arconte, l’assemblea, la moltitudine) o quello giudaico da cui era stato messo a morte (il sommo sacerdote, il sinedrio, il popolo)” (38). E già da subito la novità della testimonianza di Gesù non è compresa neanche dai suoi discepoli che l’hanno trasmessa. Perciò, sostiene p. Ortensio, come Jahvè non si confonde con l’ebraismo, nemmeno Gesù va confuso con il cristianesimo. Oltre che a una chiesa su modelli ambigui che Gesù aveva espressamente e ripetutamente rifiutati, l’attenzione di p. Ortensio si rivolge al grande capitolo della reinterpretazione ecclesiale dell’opera di Cristo circa il valore e il senso della morte in croce. La parte più interessante di questo scritto è nella tesi che solo la reale, autentica testimonianza di Gesù è intramontabile. Non basta leggere e capire il Vangelo scritto né si tratta solo o non tanto di una traduzione al linguaggio moderno. Se Gesù vivesse e parlasse oggi ripeterebbe lo stesso messaggio di allora: il regno di Dio si attua nella storia mediante la conversione degli egoismi e la realizzazione della comune famiglia dei figli di Dio. “Il Vangelo è un libro scritto ma si scrive ancora, nessuno sa qual è l’ultima parola, ma ognuno è tenuto a conoscere quella che lui è chiamato a scrivere” (…) in alcune nuove branche della vita moderna quali “l’ecologia, il rispetto della casa comune che ospita tutti, esseri e cose; la nuova antropologia, con tutti i problemi connessi (coppia, matrimonio, celibato, genetica); la pace, la fine della mentalità bellicistica ossia dell’uso delle armi per risolvere i problemi di giustizia o le contese ideologiche (guerre di religione). Occorre avviare un vero pluralismo teologico di fronte alla comune fede” (46).
3. Dal Gesù della storia al Cristo della fede[4]
Gesù è nato e vissuto nell’alveo del giudaismo ma se ne distacca radicalmente. Rompe con i riti, il culto, il tempio, più ancora con la teologia, l’ascesi giudaica, sia farisaica che essena. Ma alcuni suoi discepoli, quelli più qualificati e più intelligenti, a causa del loro bagaglio culturale e ideologico di provenienza, invece recuperano la dimensione spirituale da cui Gesù si era tenuto lontano. Gesù è innanzitutto un profeta, non un sacerdote. E’ un comune operaio nazaretano, non un rabbi. E’ morto crocifisso perché profeta scomodo che le autorità religiose e civili, appena conosciuti e compresi i suoi progetti (libertà, fraternità e uguaglianza), hanno giustiziato. Successivamente, invece, l’esperienza di Gesù è riletta e riproposta alla luce di moduli culturali presenti nella Bibbia, nella tradizione giudaica, come nella religiosità di molti altri popoli: lo statuto giuridico di Gesù non è più quello della classe operaia ma viene trasferito nella classe sacerdotale (che pure l’aveva osteggiato e fatto crocifiggere). Il senso storico della sua morte, dovuta alla necessità del potere religioso e civile di eliminare un pericoloso sovvertitore di un ordinamento ingiustamente costituito, viene a essere sostituito dalle categorie dell’agnello pasquale, del servo sofferente, del capro espiatorio, dal sacrificio richiesto da Dio per sentirsi ripagato dai torti ricevuti dall’umanità. Così non solo il senso storico della morte di Gesù svanisce nel nulla ma svanisce nel nulla anche il suo programma di liberazione e di lotta contro le ingiustizie e le iniquità per instaurare un regime di fratellanza e di pace. Così “il fermento portato da Gesù non è servito a invertire il corso degli avvenimenti umani, piuttosto ha consacrato quello esistente… La comunità cristiana ha saputo indire crociate contro gli infedeli e gli eretici ma non ha partecipato a nessuna lotta di liberazione (…). La fine della schiavitù, del colonialismo, dello sfruttamento operaio, il riconoscimento dei diritti della dignità della donna, non sono avvenuti in forza delle iniziative dei missionari cristiani, ma il più delle volte contro di essi. Si può parlare di alienazione da Cristo e dal Vangelo, da sempre, solo che a scusa di coloro che l’hanno provocata si può ripetere che anch’essi l’hanno fatto per «ignoranza» (cfr. At 3,17), in «buona fede», credendo di aver capito meglio Cristo, ma ciò non cancella la deviazione avvenuta (55).
4. Chiesa del Concilio dove sei?[5]
“Il Vaticano II, per quanto in certe sfere se ne voglia attenuare la portata, è senz’altro l’evento più sensazionale, certo più significativo, della chiesa dei nostri e per non dire di tutti i tempi” (57). Le forze portanti di questo concilio non furono solo i vescovi ma gli esperti, loro accompagnatori, cioè quelle persone ben informate sui progressi del sapere sacro (scrittura, teologia, spiritualità) e scienze similari (antropologia, etica, sociologia). La chiesa docente accettò di trovarsi accanto alla chiesa pensante, non per contrapporsi come era accaduto in passato, ma per leggere e capire i segni dei tempi nuovi. Le novità teologiche più sorprendenti e sconvolgenti del Vaticano II sono da ricercare nelle tre costituzioni degli anni 1964-65: la Dei Verbum, la Lumen gentium e la Gaudium et spes.
L’attenzione di p. Ortensio è rivolta alla Chiesa di popolo della Lumen gentium che si richiamava alla proposta originaria di Gesù, “che non solo non aveva previsto una forma di organizzazione per il suo «movimento», ma aveva persino rifiutato il modello familiare («né padri, né maestri»: Mt 23,8-10) e tanto più quello gerarchico, quale era presente in Israele (sommo sacerdote, sinedrio, popolo) e nel mondo ellenistico (re o arconte, assemblea, popolo). Aveva infatti categoricamente affermato: «tra le nazioni quelli che sono chiamati i capi le signoreggiano e i grandi hanno potere su di esse; ma tra voi non sia così; chi vorrà essere grande sia vostro servo; chi vuole essere primo sarà l’ultimo, servo di tutti» (Mc 10, 42-44 e paralleli) (61). “Ma nonostante questo severo ammonimento già i Vangeli registrano due ecclesiologie: una popolare e una gerarchico-monarchica. Negli sviluppi successivi la seconda ha finito per eclissare, quasi cancellare, la prima. Il Vaticano II ha restituito al popolo credente il posto d’onore ma ha lasciato alla gerarchia, benché declassata, tutti i titoli e i privilegi che aveva accumulato nel tempo, pensando, ma si illudevano, che questa, una volta accortasi della loro illegittimità, vi avrebbe spontaneamente rinunciato” (62). Le due ecclesiologie sono presenti nella Lumen gentium ma sono tra loro troppo divergenti e contrastanti per poter ritenere che entrambe provengano egualmente da Cristo. Se è vera l’una è difficile che possa esserlo contemporaneamente anche l’altra. Parole nuove sono state dette dal Concilio anche per il rapporto della chiesa con il mondo, sulla necessità di essere a servizio di esso, sulla libertà di coscienza. Ma queste novità sono state negate dalle alte sfere vaticane che si sono guardate bene dal mettere in atto, anzi le hanno fortemente ostacolate. “Nonostante tutto, conclude, p. Ortensio, è bene non lasciare spazio a sentimenti di scoraggiamento: Vangelo e Vaticano II rimangono pietre miliari nella storia dell’umanità e contengono i presupposti per cambiarne il corso fino a portarlo a compimento” (70).
5. Le piaghe che la «chiesa» preferisce tenere aperte[6]
“La chiesa, fin dal suo sorgere, si è trovata a essere una comunità pensante”, ricca di confronti e diatribe. Espressione di essi sono i quattro Vangeli pluriformi e gli altri scritti neotestamentari, tutti dissimili tra di loro pur sostanzialmente uguali. Le prime comunità cristiane, sostiene Maggi nella introduzione, “coscienti di dover trasmettere un messaggio che comunica vita, non hanno voluto tramandare un testo definitivo e immutabile dell’insegnamento del Signore, un testo sacro e pertanto inviolabile, ma quello per almeno i primi quattro secoli del cristianesimo è stato considerato un testo vivente”(VI). Per p. Ortensio il dialogo e il confronto nelle comunità cristiane che tiene presente un Vangelo non solo scritto ma anche vivente si protrae fino al Concilio di Trento. “La chiesa uscì da quel consesso compatta come non era mai stata, ma il periodo che seguì (Controriforma e Inquisizione) rimane fra i più oscuri della sua storia” (72). La chiesa post-tridentina, con la sua struttura gerarchica, si preoccupa solo di rinsaldare i suoi poteri fino a farli dichiarare inscalfibili. Con la dichiarazione del Vaticano I della infallibilità, persino personale, del papa, che si colloca al centro della cattolicità, distrugge qualsiasi pur minima forma di collegialità e di sinodalità, e avoca a sé insindacabilmente tutte le decisioni teoriche e pratiche riguardanti la collettività. La autorità diventa non tanto un punto di unità e di coesione, bensì di urto e di scontro, per non dire di scandalo, stando al rimprovero rivolto da Gesù a Pietro. “Con il paradosso che le società moderne civili si reggono da due secoli sui principi evangelici (libertà, uguaglianza e fraternità) riscoperti dai senza-Dio, mentre la chiesa, che proviene dal Vangelo, continua a poggiarsi sui canoni dei regimi assolutistici che il Vangelo condanna. Non sarà che nell’istituzione ci sia qualcuno o alcuni ai quali fa comodo ignorare questa contraddizione? “(75). E questo per mantenere un monopolio del potere ingiustificabile e inspiegabile. “E’ quello che si verifica nella chiesa cattolica, in cui a nessuno, per quanta informazione o competenza rivendichi, è consentito parlare ufficialmente dei problemi teorici e pratici della propria fede, poiché questo spetta unicamente a un gruppo, non di super esperti ma di persone costituite in autorità, più che per concorso per cooptazione, ossia raccomandazione, le quali sole presumono di conoscere i segreti di Dio e il pensiero di Cristo e di poterli proporre ai fedeli” (77). E’ la piaga sempre aperta della nomina dei vescovi e delle autorità alte. La chiesa osteggia chi attenta a questo monopolio, lo condanna, ma non lo può, come faceva una volta, imprigionare o bruciare. La conclusione di p. Ortensio è sferzante e fiduciosa: “se qualche volta riesce a metterne a tacere uno, deve presto rassegnarsi a vederne altri che si fanno avanti a prendere il suo posto” (78).
Il testo in esame si conclude con un Appendice. E’ un’intervista a Ortensio da Spinetoli, dal titolo “Un cammino difficile”[7].
Molte domande dell’intervista riguardano la vita e il cammino difficile di p. Ortensio, dalla sua famiglia, all’ingresso in collegio e la sua scelta di farsi cappuccino, dalla scoperta della bibbia ai suoi studi biblici a Friburgo e Innsruck, al Biblico di Roma, allo Studio Biblico Francescano di Gerusalemme, ai suoi guai con la gerarchia iniziati nel 1964, al suo isolamento nella chiesa e nel suo Ordine religioso. Nel 1994, incontrastato regnante era Giovanni Paolo II. Padre Ortensio, dopo aver affermato che i contatti con la chiesa ufficiale erano diminuiti e che si sentiva come “pellegrino e forestiero all’interno della istituzione”, sosteneva che “Giovanni Paolo II era contro la Lumen Gentium, la costituzione della nuova chiesa: non l’ha accettata allora e non l’accetta adesso. Lui parla ancora dell’infallibilità del magistero, della chiesa cattolica al centro delle chiese cristiane (affossando l’ecumenismo) e ignora la portata salvifica delle altre religioni”. Gli intervistatori a questo punto gli rivolgono la domanda: “Ma allora perché rimani nell’istituzione?”
La risposta di Padre Ortensio è la seguente:
“La fuga non è mai la migliore scelta, né la migliore strategia. E’ quello che qualsiasi avversario sempre desidera. Se uno crede alla causa che difende deve restare sul campo, diciamo, di battaglia. Il dissenso, la contestazione, hanno un senso se fatti dal di dentro, non dal di fuori. Oltre a ciò, di fronte alla comune mentalità clericale (grassetto mio), un cambio di schieramento, di collocazione, vanificherebbe tutti gli sforzi che sono stati finora compiuti. Non occorre avere una particolare fede nell’episcopato per dargli credito; basta il fatto che ci sia e che rappresenti ancora una delle «cinque piaghe della chiesa» per potersi impegnare e scoraggiare il potere. Certo non cambierà molto, forse non cambierà nulla; ma se non si assommano i granelli di sabbia, non si arriverà mai a quel «sasso», non diciamo macigno, che secondo il profeta Daniele (Dn 2,34-35) colpirà e farà traballare la statua del monarca e quelle dei gregari” (88).
Era molto ottimista sul futuro della chiesa e già nel 1994 aspettava un Giovanni XXIV e un Vaticano III o un Concilio Gerosolimitano II, perché riteneva che “in superficie e in profondità avanza il rinnovamento che dopo questa parentesi darà i suoi frutti”. Nel 2013 ha potuto vedere “il sorgere di un nuovo solare giorno con il pontificato di un papa che si chiama Francesco, uomo evangelico venuto a portare Dio agli uomini non mediante delle dottrine, ma attraverso la tenerezza di Dio, linguaggio universale che tutti comprendono” (A. Maggi, pag. VIII). P. Ortensio, a meno di due anni dall’improvvisa scomparsa, il 20 settembre del 2013, aveva scritto una Lettera a papa Francesco, senza lasciarsi andare a facili entusiasmi. In essa proponeva al vescovo di Roma di convocare “un raduno dei «dispersi d’Israele», cioè di quanti nella chiesa hanno subìto incomprensioni, preclusioni, esclusioni, condanne, a motivo non di reati ma delle loro legittime convinzioni teologiche, bibliche o etiche […]. Quante Lampeduse, non diciamo Gulag, si possono riscontrare nella storia della chiesa! (…) Non per un’assoluzione o promozione, ma per quel tanto di dignità e di rispetto loro dovuto e sempre negato”. Guardava con attenzione alle parole ed ai gesti di Francesco, auspicando che si concretizzassero in atti di riforma della Chiesa. Ma, non avendo ricevuto risposta da Bergoglio, la rese pubblica, prima di morire nel 2015[8].
Se la richiesta di un atto di riconciliazione nei confronti di tutti quei preti, teologi, religiosi, laici, donne e uomini di fede che hanno a tutti i livelli subìto il clima autoritario e repressivo seguito agli anni del fermento postconciliare, specie sotto i pontificati di Wojtyla e Ratzinger, è ancora senza risposta, ci sono più motivi. A mio parere, uno mi sembra decisivo.
P. Ortensio sapeva bene, come si evince da tutte le sue opere, che il clericalismo ha radici millenarie. Il clericalismo non deriva da una forma di devianza di alcuni soggetti, come lascia intendere papa Francesco nella Lettera al popolo di Dio del 2018, ma dal sistema clericale in quanto tale, cioè dell’attuale sistema ecclesiastico basato sul ruolo sacro dei ministeri ordinati e sui tanti privilegi che da esso derivano. E dall’interno o dall’esterno non sarà facile che questa struttura clericale cambi. Ma non vi è chi non veda, soprattutto oggi quando è acclarato che il regime di cristianità è finito, anche dall’interno della struttura ecclesiastica, quanto questo cambiamento strutturale sia necessario. Appare evidente quindi che per un eventuale e non facile abbattimento dell’«invidia clericale» sono necessari sia coloro che lottano dall’interno del regime ecclesiastico sia i tanti che hanno scelto e continuano a scegliere la diaspora. Lo «scisma sommerso» di tantissimi che ieri e oggi abbandonano la dottrina e la prassi, il culto e i sacramenti di un cristianesimo clericale fa parte di quel macigno, difficile da fermare, che “fa traballare la statua del monarca e quelle dei gregari”.
Accanto a p. Ortensio da Spinetoli, pellegrino e forestiero nella sua chiesa si collocano molti altri uomini e credenti (certamente da lui accolti come fratelli) che si definiscono con l’avverbio “senza”: “i cristiani senza chiesa”, “i laici battezzati senza chiesa” e “gli uomini e donne di nessuna chiesa”.
Tanti sono coloro che ripensando, con sofferta ricerca, la propria formazione religiosa si definiscono “cristiani senza chiesa” (espressione usata anche da Ignazio Silone), desiderosi e fautori di un cristianesimo capace di ripercorrere la sua storia per tornare alla purezza del messaggio evangelico delle origini. La distanza dell’attuale cattolicesimo (in particolare quello italiano) dal Vangelo di Cristo, come è stato letto da p. Ortensio da Spinetoli, è tra le cose che più feriscono e muovono a sdegno questi cristiani. Per questo scelgono di rimanere ai margini e alle periferie della istituzione ecclesiastica.
La condizione dei “laici battezzati senza chiesa”[9] è sempre più diffusa. Ma si può essere cristiani da soli? E’ arduo ma accade. Per essi l’esigenza non è di andare da qualche altra parte ma di uscire da un quadro nel quale ci si sente fuori posto o, semplicemente, non ci si ritrova più. “È questa un’uscita dalla Chiesa di Cristo? In nessun modo, sostiene Paolo Ricca, al contrario: quella uscita è possibile, come atto di fede, proprio perché si sa (ogni cristiano lo sa) che la Chiesa di Cristo è più grande di qualunque chiesa storica, grande o piccola che sia”[10]. Cattolica o protestante che sia.
Non mancano anche uomini e donne che si dicono non credenti ma che vivono e pensano la loro vita “senza chiesa”. E’ morto qualche giorno fa il filosofo Giulio Giorello, ricercatore della verità ma autodichiaratosi non credente[11]. Nel 2006 aveva scritto un testo dal titolo “Di nessuna chiesa”. Scriveva: “Essere di nessuna chiesa significa tollerare ogni chiesa, riconoscendone il diritto all’espressione anche nel libero atto di prenderne le distanze. In questo senso, l’indifferenza è la migliore garanzia di una piena fioritura umana”. Ovviamente non si riferiva alla «indifferenza» per l’uomo, per ogni uomo. Il riferimento è al “relativismo” nello suo spirito originario, ovvero scevro da distorsioni e strumentalizzazioni di ogni sorta[12].
La pubblicazione del libro La prepotenza delle Religioni (secondo testo pubblicato postumo) è l’ulteriore iniziativa con la quale gli amici più vicini a p. Ortensio da Spinetoli hanno inteso tenere viva la sua memoria e il suo profetico insegnamento. E’ bene che sappiano che P. Ortensio è vivo anche coloro che, togliendogli quel tanto di dignità e di rispetto a lui dovuto e in vita negatogli, hanno pensato che con la sua morte fosse sepolta la sua ricerca biblica e la sua ricerca teologica.
Nessuno – e forse ancor meno stesso p. Ortensio – chiede ‘riabilitazioni’ e patenti di ortodossia. Ma sarebbe bello se i cinque testi di La prepotenza delle religioni (titolo, per la verità, che non indica il filo rosso che li attraversa) aiutassero a continuare a far conoscere tutti i libri di p. Ortensio. Penso che il miglior segno di stima e di gratitudine per quanto egli ha voluto donare all’umanità sia quello di diffondere il suo pensiero e la sua difficile vita.
20 giugno 2020
Antonio Greco
[1] Manifesto4ottobre lo ha recensito, cfr. https://manifesto4ottobre.blog/2017/04/16/linutile-fardello/
[2] E’ relazione dell’autore al Seminario nazionale delle Comunità di Base che aveva per tema “Né padri, né maestri” svoltosi a Vico Equense nel novembre 1993. Il testo era stato pubblicato prima da Adista Documenti (Le religioni: prepotenza degli assoluti) e poi dalla Datanews editrice di Roma (La prepotenza delle religioni). Chiarelettere ha scelto quest’ultimo titolo.
[3] Il testo era stato pubblicato in “Tempi di Fraternità”, novembre 1996.
[4] Anche questo testo è stato pubblicato nel febbraio del 1998 in “Tempi di Fraternità”.
[5] E’ un testo pubblicato su «Adista Documenti», n. 29 del 14 marzo 2009.
[6] Il testo è il più recente, del 2011. E’ stato pubblicato in «Adista Documenti», n. 47 del 18 giugno 2011.
[7] Intervista a cura di Bruno Marabutto e Danilo Minisini. Tempo di Fraternità, luglio-agosto 1994.
[8] Il testo integrale della Lettera è in v. Adista Notizie n. 9/15 e in Appendice dell’Inutile Fardello del 2017.
[9] Definiti non-preti, in negativo, per distinguerli dai “laici non credenti”
[10] Paolo Ricca, in “Riforma” – settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 19 giugno
2020.
[11] “Ho preferito definirmi in un libro con Bruno Forte, ateo e non agnostico, cioè non uno che non sa, ma da uno dall’altra parte, perché mi sembrava troppo facile dire: “Sono agnostico e me ne lavo le mai”. So benissimo che l’ateismo può essere anche questo, una fede. Quello però non lo vivrei come fede, se mai lo vivrei come domande”. Intervista pubblicato su Il Grillo (5/1/1998).
[12] G. Giorello in “Di nessuna chiesa” presenta “l’atteggiamento relativistico” come apertura e disponibilità in tutti i campi; il relativismo come atteggiamento mentale per il quale ogni dottrina, ogni punto di vista, ogni stile di vita ha diritto di esistere; il relativismo come rifiuto dell’assolutismo e accettazione del fallibilismo.