Relazione al 38° Incontro nazionale della Comunità Cristiane di Base l’1-3 novembre 2019 a Vico Equense (NA) avente per titolo:“Vangelo e Costituzione oggi. Credenti disobbedienti nella Chiesa e nella società”. Le relazioni sono pubblicate su Viottoli 2/2019, periodico edito dalla Comunità di Base di Pinerolo (To)
Tonino Perna (professore Ordinario di Sociologia Economica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Messina)
Devo dire che, venendo con il trenino che da Reggio Calabria a Napoli ci mette esattamente le stesse cinque ore e passa che ci metteva quarant’anni fa, mi sono ricordato quando venni per il primo convegno nazionale dei Cristiani per il Socialismo, dal 1° al 4 Novembre del 1974, e oggi come allora piove dopo un mese di totale siccità. Certamente il mutamento climatico, di cui mi sono seriamente occupato (vedi “Eventi Estremi”, Milano, 2011) non si misura così, come faceva Bush, e oggi Trump, che dopo ogni nevicata commentano “dov’è il riscaldamento della terra?”.
Sono molto contento di essere qui, l’unica cosa che mi dispiace, ma è una cosa che condividiamo, è che questo movimento delle Comunità di Base (a Reggio Calabria ne avevamo una che si chiamava Comunità di Base ecumenica composta da battisti, valdesi e altre confessioni) non ha un evidente ricambio generazionale. Credo che questo sia il problema più grande che abbiamo di fronte, unitamente ad altri movimenti (pensiamo solo al Movimento per la pace…) e chi come me ha figli e nipoti si accorge della difficoltà già dentro casa.
Allora partirei da questo. Farei una premessa: la prima cosa che credo dovrebbe guidare credenti e non credenti, quello che mi ha unito, quand’ero ragazzo, da credente a un gruppo anarchico è questa idea che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Un gruppo di pacifisti e di anarchici, un movimento che veniva da lontano e l’idea che il sabato è una legge umana e come tale, come legge umana, non puoi diventarne schiavo, questo secondo me dà una grande libertà personale. Non sto qui a raccontare tutte le volte della mia vita in cui questa visione mi ha provocato delle rotture di relazioni, anche personali, ma è un principio fondamentale.
Faccio un’altra premessa: questo tema della legalità e, quindi, del rispetto della legge come valore in sé e per sé, è stato politicamente introdotto in Italia quando arrivò al potere Berlusconi. Prima di allora, soprattutto nella Sinistra, la legalità come valore assoluto non c’era, perché c’era l’idea del cambiamento. Attenzione! Tutti usano oggi questa parola cambiamento, ma la parola cambiamento nasce addirittura negli anni cinquanta, quando il movimento contadino e operaio parlava di cambiamento di sistema, quindi del capitalismo, e quando alla parola cambiamento si dava un’accezione positiva di trasformazione del modello sociale e istituzionale, e si è continuato a darla quando oggi non ha più senso. Non ha senso quando qualcuno mi viene a dire: siamo il partito del cambiamento, senza spiegare verso “quale” cambiamento andiamo. Cambiamento c’è comunque nella vita, c’è in ognuno di noi, c’è nella società. Che lo vogliamo o meno cambiano le cose, ma verso quale direzione?
Legge e giustizia sociale
Così è avvenuto con la legalità; devo dire che in questa direzione ha dato una forte spinta un movimento importante come Libera di don Ciotti, il quale poi l’ha rivisto negli ultimi anni, ne abbiamo anche discusso. La legalità, la legalità, la legalità… I patti per la legalità presso le Prefetture, delle cose assolutamente inutili, delle prese in giro, mafiosi e non mafiosi in Prefettura firmavano questi patti, i sindaci firmavano tutti i patti per la legalità: tutto fumo. Oggi, per fortuna, sempre di più si parla di giustizia sociale, quindi il tema che io vorrei affrontare è: legge e giustizia sociale, che è un tema vastissimo, per cui io provo ad affrontarlo solo dal punto di vista che mi è più congeniale, che è quello del rapporto fra l’economia e la società, partendo da un punto: le leggi dell’economia. Esistono delle leggi economiche? Tante volte si dice: eh, che volete fare! sono le leggi, è l’economia, sono le leggi dell’economia. Quest’idea che esistano delle leggi in economia come in natura, è un tema antico. In natura esistono delle leggi, quelle che studiamo nella fisica o nella chimica, ecc., ed anche in questo caso c’è un grande dibattito, se si tratti di leggi probabilistiche oppure deterministiche… però non affrontiamo questo tema. Sicuramente in economia, quindi nella storia economica, non ci sono leggi nell’accezione che noi diamo a questa parola; direi che in questo ha ancora ragione Marx, dopo due secoli, che si tratta di tendenze (trend). Si può parlare di tendenze, non di leggi assolute, e di tendenze di medio-lungo periodo. Va detto che negli economisti era molto forte questa esigenza, cioè l’idea, il sogno, di fare dell’economia una scienza esatta. Il primo fu Torrens nel 1820 che scrisse nel suo libro (scriveva nel periodo in cui era in auge l’Inghilterra) che l’economia deve diventare come la geometria, perché dev’essere una cosa esatta, precisa, e quest’idea va avanti e arriva fino a Marshall, alla fine dell’800, che scrive testualmente: “eliminiamo la parola politica, una volta si insegnava economia politica, eliminiamo la parola politica e mettiamo la parola economia, anzi economica in modo che si capisca che è una scienza e non c’è niente di politico”.
Questo è stato un cambiamento radicale, perché il grande Adam Smith, riscoperto solo negli ultimi decenni, nel suo volume Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni fece un’opera straordinaria, che tenne insieme le istituzioni, l’economia e la società con il governo e le leggi. Smith diceva: se la giustizia non funziona non c’è mercato. Quindi il mercato non è una cosa naturale, ma una costruzione sociale (e politica, dirà poi Karl Polanyi). Ecco, questa è la grande differenza che passa fra chi crede che il mercato capitalistico sia un fenomeno naturale, mentre la storia dimostra che è nato solo nel tardo Medio Evo: prima esisteva l’economia di mercato, che non aveva come fine l’accumulazione di capitale, ma il denaro funzionava quasi esclusivamente da intermediario negli scambi. Tutto questo è inutile ripeterlo, in quanto quelli che scrivono sui giornali o che parlano in televisione continuano a usare la categoria “mercato” senza specificare che tipo di mercato. Allora il mercato capitalistico è una cosa diversa dall’economia di mercato, così come l’economia senza il rapporto con la società e con le istituzioni non la spieghi. Smith ce l’aveva chiarissima quest’idea. Partiva dall’assunto che l’economia va vista nell’insieme dei rapporti sociali; non a caso prima di scrivere il libro che lo rese famoso scrisse La teoria dei sentimenti morali, dicendo che se non c’è l’empatia, se non c’è una reciprocità di sentimenti, stima, rispetto, non funziona nemmeno il mercato, ma abbiamo la giungla. C’è una sua famosa frase: “La più grande soddisfazione è quando incontri una persona che mi fa simpatia ed è reciproca, è la reciprocità”. Questo è il pensiero liberale, ben diverso dal neoliberismo, come scrisse in un libro più di vent’anni fa Georges Corm, Il nuovo disordine economico mondiale (Bollati Boringhieri 1994), che spiegò chiaramente la differenza tra pensiero liberale e l’attuale neoliberismo, che è un’altra cosa. Il neoliberismo abbatte l’idea che c’è bisogno di uno Stato, invece Smith si batté perché l’istruzione fosse data a tutti i bambini, si batté perché lo Stato costruisse le infrastrutture. E’ vero che in lui c’è un’idea che coniuga l’egoismo individualistico con il benessere della società, il famoso caso del birraio che fa i suoi interessi e al contempo gli interessi della società, ma sostanzialmente in lui c’è l’idea che c’è bisogno di istituzioni, c’è bisogno di cultura. Lui è quello che scrive contro il lavoro minorile, quando ancora nessuno lo faceva.
Quindi c’è stato questo cambiamento profondo. Per arrivare a proporsi come scienza esatta si è trasformata l’economia in econometria, in pure formule matematiche, come oggi si insegna alla Bocconi. Ora, mi dispiace per le madri che ho incontrato in questi anni e che con la bocca piena mi dicevano orgogliose: “mio figlio è alla Booocconi…”, cioè nel cuore di quella ideologia che sostiene e che non tiene conto che il comportamento economico – di imprenditori, consumatori, lavoratori – è connesso con la loro cultura, con le istituzioni che possono favorire l’uno o l’altro, con le tradizioni, con le relazioni sociali. La prova evidente che l’economia non è una scienza esatta è che nessuna crisi economica grave è stata mai prevista, che se i cicli economici fossero governabili, come governiamo le leggi della fisica che ci portano nello spazio, non ne saremmo travolti. Il fatto è che il comportamento umano è in parte imprevedibile e soggetto a numerose variabili che non possono essere rivolte unicamente all’interesse personale (massimizzazione del profitto) o a un comportamento puramente razionale (agire dell’imprenditore e del consumatore).
Quali leggi?
Non possiamo però non porci in generale la domanda: servono le leggi alla società? Sicuramente. Dire che il sabato è fatto per l’uomo non significa dire che il sabato non mi serve, che non ci sono leggi, che siamo liberi di fare tutto quel che vogliamo; dire che il sabato è fatto per l’uomo significa dire che mi servono le leggi che fanno bene alla società. Ma, quali leggi? E qui c’è il tema della giustizia sociale. Le lotte sociali dei lavoratori furono le prime forme di disobbedienza alle leggi del tempo che impedivano lo sciopero o la semplice associazione tra operai. Uno straordinario autore francese, che si chiama Emile Dolleans, scrisse una storia del movimento operaio in tre volumi e fece quest’analisi con documenti storici di prima mano. Quando nascono le prime forme di organizzazione sindacale nascono le prime forme di lotta, che chiederanno le famose dieci ore di lavoro, che vennero ottenute per la prima volta nel Regno Unito nel 1848. Pensate che il Times di Londra scrisse che l’economia sarebbe andata a pezzi perché si lavorava solo dieci ore al giorno, cioè il fatto di aver ottenuto dieci ore al giorno era uno scandalo nel 1848. Poi si deve arrivare agli anni ‘20 del secolo scorso per avere le otto ore in quasi tutta l’Europa. Ma adesso sono cento anni che non si è più mosso l’orario di lavoro, malgrado lo spettacolare aumento della produttività legata al progresso tecnologico. Cento anni in cui non c’è stata più una riduzione, se non piccole cose in Germania con le trentasei ore dei metalmeccanici, cose così. Quindi, diciamo, le lotte sociali, che erano tutte illegali – perché, lo ripeto, era proibito riunirsi, era proibito scioperare, era proibito organizzarsi – sono servite ad ottenere via via una serie di leggi a favore dei lavoratori e poi a favore della società.
Ci si domanda, in tempi come questi, in cui il welfare è stato in parte – in alcuni Paesi totalmente, in altri meno – fortemente ridotto: quando nasce quest’idea del welfare, quando nasce l’idea che lo Stato deve in qualche modo intervenire nell’economia per difendere i più deboli? Ecco, uno penserebbe “nella democratica Inghilterra”, che era la più avanzata, che ha fatto per prima la rivoluzione industriale. Invece, le prime forme di welfare nascono in Germania con Bismarck, con un dittatore. Le prime forme di welfare nascono in Germania perché Bismarck, che era un dittatore illuminato (anche Mussolini ha fatto le sue leggi sociali), aveva paura del movimento operaio, della sua forza politica. Così in Germania in quel momento, quando nascono le prime leggi a favore delle donne che non lavorano più la notte, dei bambini che assolutamente non devono lavorare, delle persone disabili, le prime pensioni… tutto quello che chiamiamo welfare nasce in un Paese non retto dalla democrazia, ma da una dittatura illuminata che ha paura del popolo che si sta organizzando, di un partito socialista che era diventato forte, di un movimento operaio che era ben organizzato. Quando è nata la migliore legge a favore dei lavoratori da noi, la legge più avanzata? E’ lo Statuto dei lavoratori, legge n. 300, 20 maggio 1970. Sapete cosa c’era? Mica c’era un governo di sinistra – noi pensiamo di cambiare il mondo con il voto! -, c’era una DC molto forte, due anni dopo addirittura ci fu il governo Andreotti/Malagodi e cosa succede: c’era la paura nelle stanze del potere. Quando il potere ha paura si fanno le leggi a favore dei lavoratori, della popolazione, dei più deboli. Quando il potere non ha paura si va indietro: questo è successo nell’ultimo ventennio in Europa e in tante altre parti del mondo.
Oggi il potere torna ad avere paura; guardate anche le ultime lotte sociali nel mondo: incredibile, hanno fatto marcia indietro tutti i capi di governo, dal Libano al Cile, dalla Francia alla Bolivia, ecc. Hanno fatto marcia indietro tutti, perché di fronte a una popolazione che si ribella in massa, che resiste alla repressione della polizia, se hai questa costanza e determinazione allora ancora oggi ottieni dei risultati. Negli ultimi tempi da noi in Italia al massimo facciamo una manifestazione a Roma con birra e panini e ti saluto, non fa paura più a nessuno.
Disobbedienza civile
Detto questo, oggi come si pone questo tema? La disobbedienza civile è tante cose, lo sappiamo, però per me rimane fondamentale quest’idea di lotta sociale che mette in difficoltà il potere e che indica una strada, una strada che diventa sempre più importante; perché, guardate, si parla tanto di diseguaglianze sociali, ed è giusto, è dimostrato, ma si parla meno di diseguaglianze territoriali. Cioè, mentre la divaricazione sociale, il famoso 1% di ricchi contro il 99% che s’impoverisce, che scatenò il movimento Occupy Wall Street., è entrato nell’immaginario collettivo, le diseguaglianze territoriali crescenti all’interno dello stesso paese, della stessa città, sono il fenomeno nuovo di questi ultimi quindici anni. C’è uno studio, che è stato fatto in Europa, che fa vedere come fra il Nord e il Sud Europa, e in Italia con una evidenza estrema, fra Nord e Sud Italia, è aumentata la forbice in maniera vistosa. Voi pensate solo ad alcuni dati: fra il 2008 e il 2018 il Mezzogiorno ha triplicato la disoccupazione, ridotto fortemente i consumi, il doppio che nel Nord, vi sono cifre che non vi cito. L’effetto della crisi per il Sud è stato il doppio, in termini macroeconomici, di quel che è stato per il Nord; perché? Perché nel Sud è sempre stata fondamentale, lo diceva Paolo Sylos Labini, la spesa pubblica, il motore dello sviluppo, ma non perché sia maggiore che al Nord, questa è una cosa che gli Italiani non sanno: la spesa pro capite in alcuni casi è inferiore al Sud rispetto al Nord. Il problema è che in percentuale sulla ricchezza prodotta è molto più alta: essendo più basso il reddito la spesa pubblica ha un’incidenza maggiore. Quando la riduci in modo uguale, perché non è stata fatta una scelta, la riduci di più al Sud, no? Se io faccio un taglio lineare al 10% a Nord e Sud succede che mi pesa molto di più dove è più importante, e questo ha prodotto un fenomeno che non c’era negli anni ’50: la fuga generalizzata dei giovani dai venti ai quarant’anni. Il Sud non è mai stato così disperato come in questa fase. E perché non si ribella? Perché emigra, cioè fa quello che fanno in Senegal, in Nigeria: se ne vanno, loro vengono da noi e i nostri se ne vanno in Nord Italia, in Nord Europa, ecc. I dati che la SVIMEZ [Associazione per lo SVIluppo dell’industria nel MEZzogiorno] ci propone ogni anno sono assolutamente sottovalutati, perché sono calcolati sul cambio di residenza, ma prima che un giovane sposti la residenza passano addirittura decenni, perché ci devono essere motivi fiscali che impongono di spostarla. Per cui noi abbiamo, da ricerche sul campo, questa stima: 2 giovani su 3 fra i venti e i quarant’anni sono fuori dalle regioni meridionali. Qualche regione è messa peggio, ed è sempre la Calabria, ormai ha un record storico in negativo. Qualche regione è messa meglio: sicuramente gli Abruzzi, una parte della Puglia, ma non tutta la Puglia, e la Sardegna, in alcune aree. Queste differenze territoriali, insieme alle differenze sociali, fanno sì che il tema del riequilibrio sociale, della riforma sociale, di una giustizia sociale, sia diventato, almeno a mio modesto avviso, il tema fondamentale del nostro tempo.
Crisi sociale e crisi ambientale
E qui la grande questione, che qui non possiamo affrontare, è come mettiamo insieme questa crisi sociale con la crisi ambientale. Come ci riusciamo, perché la via d’uscita – poi ve ne parlerà Marco Deriu – la via d’uscita classica, su cui ci si è divisi: austerity da una parte, politiche neokeynesiane dall’altra, non risponde più ai bisogni del nostro tempo; non è questa la via. L’austerità di per sé non è un concetto sbagliato. Dipende se io l’austerità la faccio pagare ai lavoratori, ai pensionati, ai disoccupati o se l’austerità significa che non spendo più per le armi, non faccio più opere inutili. Questo è il tema, la divisione che ha spaccato anche politicamente il Paese, tra l’Europa cattiva che ci impone l’austerità e noi che dovremmo invece spendere per far girare tanti soldi. Contemporaneamente, però, diciamo che abbiamo la crisi ambientale, quindi dovremmo anche avere un modello diverso: non si capisce cosa vogliamo. La verità è questa: si tratterebbe di ripensare a quanto sostenevano gli economisti dell’800 fino all’avvento dell’economia marginalista nel 1870 – con Menger, Jevons e Walras – che abbandonarono la strada dei fondatori dell’economia politica, passando dalle analisi macro a quelle micro. Per i primi economisti era chiaro che il capitalismo sarebbe entrato a un certo punto in una fase di stagnazione, che definivano di stagnazione secolare. “Crescita zero” la chiamava ed auspicava Sismonde de Sismondi, che significa che si può vivere bene arrivando a un certo livello di ricchezza, senza essere più ossessionati dalla “crescita”. E a noi invece è stata imposta questa paranoia: che dobbiamo comunque “far mangiare la bestia”, far marciare l’economia sempre più veloce, sempre di più… Per esempio, questa cosa che passa per scelta ecologica, l’auto elettrica, può essere la più grande fregatura del secolo, perché se queste auto elettriche non camminano con energie rinnovabili, addirittura aumenteranno l’impatto sull’ecosistema. Attaccando la spina per ricaricare la batteria faccio solo un favore all’Enel, che era in crisi perché abbiamo messo le lampadine a led che ci facevano risparmiare. Purtroppo, questa è l’unica scelta seria che sta facendo l’industria, perché in questo modo rilancia la domanda di auto che è entrata in crisi in quasi tutto il mondo. Per il resto… niente. Ci si continua a prendere in giro, non c’è un cambiamento di paradigma, tutti dicono che Greta è bravissima, ma poi non fanno niente. Brava questa ragazza… hanno ragione i giovani… ma non succede niente. Non è questo il tema, però è anche questo. Significa fare un grande sforzo, indicare una strada che metta insieme crisi sociale, che è pesantissima, e crisi ecologica. Se dovessi fare una scommessa, io credo che la crisi sociale precederà la crisi ecologica, nel senso che è più percepibile per le persone, le colpisce direttamente. La crisi ecologica richiede una mediazione culturale, per impegnarsi, capire, ecc.
Il modello Riace
Infine ho messo un quarto punto su questa mia introduzione al tema che mi è stato chiesto. Sempre sul tema del rapporto tra giustizia sociale e legge mi è stato chiesto di parlare esplicitamente sul caso Riace. Del caso Riace si è parlato tantissimo quest’anno, molti di voi lo conoscono, qualcuno ne parlava con me ieri sera, e mi raccontava che fa le vacanze a Badolato. Tutto nasce in questo piccolo paese delle Serre della provincia di Catanzaro, ma non sto qui a rifare la storia. Fu una storia spontanea, all’inizio, così come l’idea che le aree interne si potevano e si possono ripopolare grazie agli immigrati. Questo è un grande tema che ha a che fare con le diseguaglianze territoriali: noi abbiamo tutto l’Appennino (adesso pure l’Appennino tosco-emiliano, che sembrava diverso dal resto del Sud, comincia a spopolarsi e ad avere problemi seri) che si sta squagliando, sta scomparendo, non solo perché si spopola, ma perché lì c’è il dissesto idrogeologico: l’abbandono sta creando un danno enorme al patrimonio, anche al patrimonio storico. In certi paesini sperduti – l’Italia è ricchissima di patrimonio storico, è una cosa che sappiamo tutti – trovi delle cose fantastiche, ma tutto in abbandono.
Nacque, tra il 26 e il 27 dicembre del 1997, una risposta dal basso, per caso, a Badolato; l’anno dopo, quando Mimì Lucano venne con un gruppo di ragazzi, allora meno che trentenni, a Badolato per incontrare questa Organizzazione non governativa, che si chiamava CRIC, dicendo “vogliamo farlo pure a Riace”, partì quel progetto che oggi è diventato famoso in tutto il mondo. Badolato fallì dopo un paio di anni perché la popolazione locale, visto il successo dell’iniziativa, pensò di specularci, mentre a Riace il gruppo di giovani di Mimmo Lucano era idealista e motivato. Badolato fu in qualche modo un progetto che venne da fuori, a Riace la domanda veniva dal di dentro del paese, da questo gruppo di giovani dell’associazione Città Futura. Fu anche un grande progetto collettivo, perché se banca Etica non ci metteva cento milioni di lire, dati a quattro ragazzi spiantati che non avevano né arte né parte, se la rete del Commercio Equo non portava i primi turisti solidali, se il movimento per la pace non lo sceglieva come luogo per incontri e vacanze, se tutta la rete sociale e culturale dei movimenti non l’avesse sostenuto, quando non c’era ancora un euro dallo Stato, non ci sarebbe stato il modello Riace. Infatti, il modello Riace nasce per dimostrare che è possibile – grazie agli immigrati e ai giovani nostri (perché a Riace ci lavorano ancora molti giovani locali) – far rinascere le zone interne. Questo avveniva a Badolato nel 98 e a Riace nel 99; nel 2000 cominciò la vera storia di Riace.
Cambia di segno quando Domenico Lucano diventa sindaco nel 2004 e quando nasce lo Sprar e quindi entra lo Stato e comincia a dare dei contributi. All’inizio erano piccoli numeri e la popolazione lo reggeva. Appena la Prefettura dal 2010 comincia a dire: “Sindaco, abbiamo 200 Curdi, abbiamo 100 Palestinesi, 50 Tunisini: non li vuole nessuno, dove li mando? Mandatemeli, diceva Lucano. Voi pensate: la popolazione di Riace è sulla carta di 1350, ma in realtà arriva a poco più di 1000 persone, di cui 800 sulla marina, come tutta la zona calabrese ionica, dove la maggioranza sta sul mare, abbandonando le zone interne… A un certo punto siamo arrivati ad avere 700 immigrati su 1000 persone, una cosa che in Italia non c’è da nessuna parte. Merito di questo paese e della sua popolazione è che non c’è mai stato uno scontro, un conflitto interetnico. Io non ricordo il nome del Comune, ma rimasi molto colpito quando in un comune dell’Emilia in provincia di Ferrara arrivarono 12 immigrati: misero le barricate, non so se vi ricordate, l’anno scorso. Qui ne sono arrivati migliaia nel corso del tempo e non c’è stato un reato in tanti anni!
C’è sempre un rapporto tra qualità e quantità, come sapete: ad un certo punto la quantità, quando cresce troppo, cambia la qualità di qualunque fenomeno, e cambiò la qualità anche a Riace, perchè per gestire questi immigrati si sono inventate associazioni, sono nate cose che non avevano né la motivazione ideale né la capacità amministrativa e, quindi, sono nati dei problemi. Spesso Domenico Lucano – lo cito – ha usato quest’espressione: “le leggi vanno seguite, vanno applicate quando sono umane; le leggi razziali del fascismo erano leggi, ma non andavano applicate”. Lui ha sempre usato questo cavallo di battaglia: nel caso di Riace si poteva avere il rispetto formale della legge, dell’Amministrazione, della rendicontazione, semplicemente se non fosse diventato un numero ingestibile e le persone, diciamo le associazioni, fossero restate quelle iniziali.
Far rinascere le aree interne
Sono costretto a sintetizzare, ma voglio dire ancora una cosa sul linguaggio e la comunicazione.
Non è che esiste solo Riace, se voi fate cinque chilometri sopra Riace c’è un paesino che si chiama Camini, dove l’inserimento degli immigrati, con la nascita di cooperative di produzione di prodotti locali, funziona benissimo; Sant’Alessio d’Aspromonte, un paesino di quattrocento persone, era morto: sono arrivati una trentina di immigrati e ha ripreso la vita. Per avere un riequilibrio territoriale abbiamo bisogno di far rinascere le aree interne. Tra l’altro abbiamo un patrimonio dal punto di vista dei beni alimentari sani e di qualità, dal punto di vista naturalistico e della qualità della vita. Abbiamo però un paradosso: le cosiddette aree interne sono le aree che hanno a disposizione quattro elementi fondamentali della vita che sono l’aria, buona, l’acqua salubre, lo spazio e il tempo. Spazio: ognuno che vive in una città come Roma sa che cosa significa spazio; tempo, la stessa cosa: nelle grandi città non c’è mai tempo, non abbiamo mai tempo, per qualunque cosa che dobbiamo fare c’è una fila davanti. In questi paesi non c’è il pericolo di fila, c’è tanto tempo libero, l’acqua è buona, l’aria è pulita e la gente scappa. Ci può essere un modo per recuperare questo? Gli immigrati ci hanno dettato la strada, nel Sud in particolare, dove, secondo gli ultimi dati dell’INEA, siamo al 30-35% di terre agricole abbandonate, sulle colline e montagne del Sud: uno spreco enorme. E’ possibile un progetto nazionale, una seconda Riforma Agraria: se tu mi abbandoni la terra, la prendo e la do a chi la può coltivare, non facendo l’errore della prima Riforma agraria, di cui non abbiamo tempo di parlare…
Ma ecco perché è importante anche la legge. Cioè, è importante questa dialettica tra lotte sociali e leggi, però uno si deve sempre domandare: quale legge? Oggi avremmo bisogno di un piano, se vogliamo parlare di giustizia sociale e di giustizia territoriale, un piano per ripopolare le nostre aree interne, anche al Nord. Ricordo che, quando ero presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, andammo con trentacinque sindaci a fare il giro dei Parchi Nazionali, e siamo finiti sul Gran Paradiso. Siamo rimasti colpiti dal fatto che per fare un coro il Parco ha dovuto usare bambini e ragazzi di tutte le età, non aveva la possibilità di fare un coro di soli adolescenti o di soli bambini, perché non c’era più popolazione in quella parte della montagna che non ha turismo. Anche il Nord, anche le Alpi hanno delle zone sovraffollate che scoppiano, come Livigno, e delle zone abbandonate. Allora, si tratta di mettere insieme l’equilibrio sociale e l’equilibrio territoriale, ed è possibile. Ecco che in questo caso queste piccole esperienze dal basso, che sono state Badolato, Riace, Camini, Sant’Alessio, Acqua Formosa, un altro comune molto interessante, ci dicono: è possibile, ma se vogliamo aspettare che parta solo dal basso passerà qualche secolo. Ecco perché è necessario, quindi, mantenere libera questa dialettica fra leggi che ti proteggono, che ti danno la spinta necessaria, e la domanda di giustizia sociale ineliminabile, che ci distingue dal resto del mondo animale, perché la giustizia è un sentimento profondamente umano ed è quello per cui oggi avremmo tanto bisogno di impegnarci e di trovare delle soluzioni; soluzioni che peraltro esistono, lo stiamo vedendo con i corridoi umanitari. I siriani che sono venuti in Calabria con il corridoio umanitario lavorano tutti, perché non abbiamo più artigiani: sono scomparsi gli artigiani, presenza che una volta era scontata, sono scomparsi quelli che in campagna non fanno solo i braccianti super sfruttati, ma sono i contadini con la conoscenza della terra. Noi abbiamo bisogno di invertire quella visione negativa, quell’idea che l’immigrazione è solo un grave problema sociale, mentre invece è una risorsa non solo economica, ma sociale, culturale, di rinascita del nostro paese.
Bisogna rovesciare quest’immaginario negativo. Ora, come dice il nostro amico Serge Latouche – mi rivolgo a Marco Deriu – bisogna aggredire il nostro immaginario, liberarci da falsi miti e aprirci a nuove visioni. L’immaginario sull’immigrazione è stato veramente manipolato in maniera pazzesca, con un solo dato ineliminabile, questo bisogna dirlo: l’assoluta mancanza di programmazione, di interventi da parte dei governi che hanno preceduto l’attuale. Potevate vedere questi ragazzi africani di vent’anni accampati in Aspromonte, a 1350 metri sotto la neve, a non fare nulla in un albergo fallito, che è rinato con i soldi dello Stato… con quei soldi lo Stato ha foraggiato la speculazione privata e non ha aiutato quei ragazzi che sarebbero stati disponibili a lavorare e che, invece, l’ozio forzato ha indotto a compiere atti (furti in qualche villa…) che non avrebbero mai compiuto in condizioni di vita normale. Questo dovevamo dire, denunciare, ma non l’abbiamo fatto abbastanza. E questo ha dato il pretesto, a chi è visceralmente e politicamente razzista, di generalizzare creando un immaginario falso e catastrofico. Per modificare questo immaginario non bastano le parole, ci vogliono i fatti. I fatti sono: far conoscere ciò che si è fatto e ciò che è possibile fare, far rinascere addirittura dei paesi grazie agli immigrati. Senza gli immigrati la Calabria perde da trenta a quaranta mila abitanti l’anno: scomparirebbe fra trent’anni, perché c’è un numero di nati vivi nettamente inferiore ai morti… Basta. Mi fermo qui. Grazie.