ANNIVERSARI: CONCORDATO E TITOLI DI STUDIO ECCLESIASTICI.

Antonio Greco

Fra pochi giorni ricorrono i 90 anni della firma del vecchio Concordato fra Pio XI e Mussolini (11 febbraio 1929) e 35 anni dal nuovo Accordo di Villa Madama fra Bettino Craxi e il cardinal Casaroli (18 febbraio 1984).

L’anniversario dell’11 febbraio, ogni anno, risveglia attenzioni da parte cattolica e rilancia appelli soprattutto da parte laica contro questo accordo tra Stato e Chiesa, evento storico che incide fortemente sia nell’Italia ecclesiale che in quella civile e politica.

Quando si pensa al Concordato l’attenzione prevalente è: per l’insegnamento della religione nelle scuole statali di I e di II grado; per il diritto di famiglia e per il finanziamento diretto della Chiesa da parte dello Stato (congrua) sostituito dall’autofinanziamento da parte dei fedeli grazie al meccanismo dell’8 per mille.

A 35 anni dalla revisione dei Patti lateranensi rinviamo alla lettura, per una rassegna serena delle promesse deluse e dei semi di speranza per chi ancora crede in un’Italia e in una Chiesa migliori, ad un interessante libro di Marco Ventura dal titolo “Creduli e Credenti, Il declino di Stato e chiesa come questione di fede”.

Riteniamo però che l’Accordo di Villa Madama non ha solo per oggetto i tre aspetti della vita civile ed ecclesiastica indicati sopra. Vi sono altre conseguenze del Concordato che appaiono secondarie ma che sono solo apparentemente tali. A mo’ di esempio ne indichiamo due (ma sono molte di più): una di carattere teologico e una di carattere civile. Sulla seconda abbiamo condotto una approfondita ricerca.

  1. La sera del 13 marzo del 2013 da un balcone di piazza San Pietro, il nuovo papa di nome Francesco rivolgeva al mondo queste parole «Fratelli e sorelle buonasera. Voi sapete che il dovere del Conclave è di dare un Vescovo a Roma. (…) «E adesso – ha proseguito – incominciamo questo cammino, Vescovo e popolo, questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità a tutte le chiese. Un cammino di fratellanza, di amore e di fiducia tra noi”. In un brevissimo discorso di due minuti il papa ripeterà 5 volte il termine “Vescovo” e 4 volte la città di “Roma”. Pochi si sono chiesti perché Francesco non dice “papa” e non dice “vescovo della città del Vaticano”.

Dirsi “vescovo di Roma” fu comprensibile a tutti. Un po’ meno il perché e le conseguenze di questa scelta. E’ una scelta teologica: Francesco è vescovo di Roma e solo per questo può presiedere nella carità tutte le chiese. Se fosse vescovo-papa di uno stato non sarebbe più colui che presiede nella carità tutte le chiese.

Chi quella sera ascoltò papa Francesco non si rese conto, perché lontano nel tempo, che con la scelta di presentarsi anche agli italiani come “vescovo di Roma” bruciava alla radice il Concordato del 1929 per affermare un principio teologico ecumenico essenziale: non più papa-re ma vescovo di Roma che presiede tutte le chiese nella carità e non nel potere.

L’articolo 3 del Trattato fra Pio XI e Mussolini del 1929 riconosceva alla Santa Sede “la piena proprietà e la esclusiva ed assoluta potestà e giurisdizione sovrana sul Vaticano, come è attualmente costituito, con tutte le sue pertinenze e dotazioni, creandosi per tal modo la Città del Vaticano”. Nasceva uno Stato, chiamato “Città del Vaticano” o “Santa Sede” con tutte le prerogative statali.

Un testimone, Ernesto Buonaiuti, che ha vissuto e ha pagato personalmente per il Concordato del 1929, a commento di questo articolo del Trattato così scriveva: “Anche questa volta, come suole succedere, il significato profondo, quasi si direbbe preterintenzionale, di solenni decisioni storiche, era sfuggito alla percezione di chi le aveva assunte. Con quell’articolo 3 del Trattato Pio XI veniva implicitamente a riconoscere uno dei più paradossali stati di fatto che l’evoluzione della cristianità romana avesse mai potuto immaginare. Le prerogative del vescovo di Roma di fronte all’episcopato ecumenico si basano, com’è noto, sul presupposto dell’episcopato romano di San Pietro. A parte la dimostrabilità storica o meno della venuta di San Pietro a Roma e quindi del suo episcopato romano, sta di fatto che Roma è inscindibile dal papato, come l’episcopato romano, e quindi la residenza romana, sono inseparabili dall’esercizio del supremo ministero cattolico. Altra volta, nella storia, circostanze storiche avevano indotto il vescovo di Roma ad andare in esilio; ad uscire cioè da Roma Ma in tali casi l’esilio del papa era stato sempre una sua cattività. La cattività babilonese ad Avignone insegni. Ora, l’11 febbraio 1929, Pio XI si costituiva spontaneamente esule da Roma e quindi «captivo», facendo riconoscere carattere e prerogative statali alla «Città del Vaticano». Gli storici della cattolicità decadente troveranno particolare pieno di simbolo la circostanza che Pio XI abbia potuto tanto a cuor leggero costituirsi di preferenza sovrano della Città del Vaticano, lasciando Roma ad uno Stato straniero, lo Stato italiano”1.

Si chiudeva la questione romana con una rinuncia da parte della chiesa di Roma a una verità teologica (il primato di Pietro nella carità) per una verità senza fondamento alcuno, né evangelico né storico, quella di un papa-re a capo di uno stato più che a capo di comunità di credenti.

  1. Di altro tenore è la seconda questione che nasce dal Concordato e che appare marginale e secondaria ma in realtà è rilevante sia da un punto civile che ecclesiastico: il riconoscimento dei titoli universitari ecclesiastici da parte dello Stato e la loro equipollenza.

Il riconoscimento dei titoli accademici ecclesiastici è frutto di una disciplina pattizia di doppio livello: un accordo principale e di vertice nel quale è fissato il principio della riconoscibilità dei titoli accademici ecclesiastici (accordo Villa Madama del 1984) ed una successiva intesa non di vertice che stabilisce la regolamentazione concreta delle tipologie dei titoli riconoscibili e delle modalità di riconoscimento. Questa seconda intesa, in Italia, è stata già realizzata nel 1994 e chiamata “di prima attuazione”. Dopo 25 anni, con uno scambio di note diplomatiche in questi giorni sta per essere concordato tra Conferenza Episcopale Italiana e Stato Italiano un aggiornamento “di seconda attuazione” in considerazione delle novità intervenute nella formazione superiore europea con il Processo di Bologna (2003) e con la istituzione degli Istituti Superiori Scienze Religiose (ISSR) (2008). Un altro documento rilevantissimo, datato gennaio 2018, “Veritatis Gaudium”, che reca la firma di Papa Francesco, ha indicato nel Proemio i principi a cui devono ispirarsi gli studi accademici religiosi.

Con la ricerca che segue (LA FORMAZIONE ACCADEMICA RELIGIOSA) abbiamo cercato di capire perché sono stati istituiti gli ISSR pur in presenza di tante Facoltà ecclesiastiche di Teologia e di Seminari; se l’adesione del Vaticano al Processo di Bologna e l’adeguamento degli istituti di formazione superiore ecclesiastica al Processo è un fatto sostanziale o solo burocratico; se e come sono state superate le criticità rappresentate dalla anomalia italiana di non avere Facoltà di Teologia Statali; perché lo Stato delega gli studi delle scienze religiose (non della teologia) alle varie istituzioni religiose confessionali.

Sono emerse alcune rilevanti anomalie:

  • Il numero dei docenti (12.000) delle Facoltà ecclesiastiche sparse nel mondo è sproporzionato rispetto al numero degli studenti (64.500);
  • la trasformazione degli ISSR, a gestione esclusivamente ecclesiastica, sembra fatta al solo fine di mantenere il controllo della formazione degli insegnanti nelle scuole statali;
  • la distanza degli ISSR dai principi indicati dal Proemio della Veritatis Gaudium appare enorme.

A 35 anni di distanza dell’Accordo di Villa Madama il mondo, anche quello italiano, è totalmente cambiato: siamo ad un radicale passaggio da una società a monopolio cattolico e alla nascita di un nuovo panorama religioso caratterizzato da un inedito e inatteso pluralismo religioso.

Scartata la ipotesi di una reintroduzione delle Facoltà di Teologia nell’Università Statali dopo la loro soppressione del 1873, la nostra ricerca, per le ragioni in essa illustrate, sostiene che il traguardo, tanto auspicato dalle autorità ecclesiastiche, del riconoscimento dei titoli di studio ecclesiastici da parte dello Stato, forse legittimo giuridicamente, risulta oggi in realtà molto datato e appare del tutto secondario rispetto alle questioni di fondo che l’impostazione attuale degli studi teologici pone alla Chiesa e alle autorità pubbliche statali.

Se il prossimo 11 febbraio ci troveremo “una seconda attuazione” dell’Accordo di Villa Madama, a prescindere dal Proemio della VG, vuol dire che alle autorità ecclesiastiche e a quelle politiche, per fini diversi, non importa nulla non solo del “cambiamento d’epoca” e della “rivoluzione culturale” degli studi ecclesiastici superiori, ma nemmeno del paradigma evangelico che li ispira e li fonda.

La nostra ricerca si è basata su una convinzione: anche se ben altri appaiono i problemi sia della società che della chiesa italiana, il tema della formazione dei quadri e delle élite (vescovi, preti dirigenti laiche e laici di associazioni, gruppi e movimenti…), come in ogni istituzione, è fondamentale per capire la radice di quei problemi ritenuti più importanti e sperare o no nella loro soluzione.

1 E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, Editori Laterza, Bari, 1964, pp. 265-266.

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