CHIARA CASTELLANI: ALTRO SAPERE, ALTRA COSCIENZA, ALTRA CONDIVISIONE

Il 13 dicembre scorso presso il Santuario di Jaddico, Brindisi, la dott.ssa Chiara Castellani, “medico  di guerra nella terra dei migranti” e missionaria in Congo da 25 anni (prima in Nicaragua), ha tenuto una conferenza di cui si riporta qui la trascrizione (realizzata da Angela Colasuonno e rivisitata da Alba Monti, alla quale si devono anche   l’appendice. Ha animato l’incontro Aldo Cellie).

Quando avevo sette anni, nella mia scuola è venuto un missionario. Era un missionario francescano e sulle orme di San Francesco curava i malati di lebbra. Curava, ma non era medico, né infermiere; li curava nel senso di “prendersene cura” e di farli sentire persone come tutte le altre: portava loro da mangiare e si sedeva insieme a loro come si fa in Africa, per mangiare tutti dallo stesso piatto. Che diventa uno spezzare il pane assieme.

Ci impressionò tanto con questo racconto, e alla fine di questa bellissima storia, che era storia di condivisione e di carità intesa come reciprocità, ci disse: “Voi bambini non avete letto il Vangelo, perché se solo leggeste il Vangelo, verreste tutti in Africa con me”. I miei compagni un poco si rattristarono, io invece rimasi ammutolita perché il mio papà tutte le sere ci leggeva il Vangelo. E quando quella sera papà venne nella nostra stanza con il Vangelo in mano gli dissi: “Sai papà, io quando sarò grande voglio essere medico e andare a lavorare in Africa per curare i malati di lebbra”.

Poi, finito il Liceo, mi sono iscritta a Medicina.

E avevo con me questo sogno.

Perciò voglio darvi subito questo messaggio: se avete un sogno, anche se avete sessanta anni come me, tenetelo quel sogno e lasciate che il sogno sia il motore della vostra vita. Perché se all’Università ho avuto buoni voti, è perché avevo quel sogno che mi faceva da motore, che mi spingeva, e io dovevo realizzarlo. Ed è stata una naturale conseguenza che andassi prima in America Latina e poi in Africa per poter realizzare questo sogno.

Purtroppo, però, mi sono resa conto quasi subito che quello che io volevo realizzare assomigliava sempre più a un sogno romantico… Perché io ho studiato da ostetrica, da ginecologa, ho studiato per far nascere bambine e bambini… Che bello – pensavo – utilizzare il bisturi, utilizzare le mie mani per aiutare la vita, per aiutare il mistero della vita… Invece mi sono resa conto quasi subito che il sogno poteva diventare crudele.

E fu Pierre che me lo insegnò: ero appena arrivata in Nicaragua; era ancora quel mese di marzo del 1983. Pierre era venuto a casa nostra per quella che doveva essere la nostra prima cena insieme… ma fu l’ultima. Io non lo sapevo, e quando lo vidi lì, silenzioso, mi venne in mente quello che mi aveva raccontato il mio amico Zeno. Che mi aveva detto: “Sai, lui non è qui per ideali rivoluzionari, lui è un ricercatore dell’Istituto Pasteur ed è venuto per una ricerca clinica, per aiutare i malati di leishmania. Ma ha paura… Non vuole andare a Rancho Grande. Forse non ci andrà”.

Allora mi avvicinai a lui e gli chiesi “Pierre, quando tornerai in Francia all’Istituto Pasteur?

Lui mi guardò con uno strano sorriso e mi disse: “Io in Francia non tornerò più.”

Ma perché dici così Pierre?

Pierre mi guardò ancora e non mi rispose, e io non capivo… non capivo la sua paura. Per capirlo fu necessario aspettare il giorno dopo, quando vidi sul giornale quello stesso strano sorriso che mi spiegava la sua paura. Ma era troppo tardi ormai per sorriderne ancora. Troppo tardi per chiedergli “perché hai paura”. E troppo tardi anche per me, per capire che già quel giorno ero arrivata al punto di non ritorno. Perché per Pierre, per Tonino, per Maurizio, per Enzo, per Maria, Rosy, ultimamente per il mio amico dottor Richard, per tutti questi amici e amiche io dovevo continuare; anche se in certi momenti potevo aver voglia di scappare.

E fu così che mi trovai a essere chirurga di guerra.

Io che non avevo mai pensato di utilizzare il bisturi per essere mutilante… io non sono una Gino Strada. Perché anche se avevo imparato a farlo – e dovetti impararlo ancora meglio, non sulla mia pelle, ma sulla loro pelle – ogni volta, dopo, erano lacrime: perché non riuscivo ad accettare di utilizzare quel bisturi per mutilare. Io ero diventata chirurga perché volevo aiutare la vita!

E vi assicuro che di queste cose non ne parla nessuno: non c’è nessuna telecamera che denunci quelle mine che chiamano anti-uomo, ma che io ho ribattezzato anti-donna perché erano soprattutto donne quelle che saltavano sulle mine. Ogni volta per me era una crisi di pianto, dopo. E per riuscire a capire il perché di tutto questo e trovare un significato – se mai l’ho trovato – alla sofferenza umana provocata da altri esseri umani, o alle guerre atroci e assurde che chiamano “di bassa intensità”, ma non certo perché uccidano di meno… nel caso del Congo sono 5 milioni di morti in 15 anni di guerra… mi ci è voluto tempo.

E soprattutto mi ci è voluto che ad un certo punto della mia vita la stessa cosa capitasse a me.

Per me non fu una mina anti-uomo, fu un incidente per sfuggire ad un agguato. Però quel braccio, quando me lo tirarono fuori dalle lamiere contorte, non era poi tanto diverso da quello di tante donne e di tanti giovani che avevo dovuto amputare.

Sapete, fa bene a chi è medico qualche volta nella vita trovarsi dall’altro lato del bisturi. Perché solo così capisci delle cose che sui libri di medicina non sono scritte: capisci il dolore atroce di quell’arto morto in carne viva che devi portarti dietro ancora per ore e ore fino al soccorso… e preghi Dio perché finisca presto.

Ma capisci anche quella sensazione meravigliosa di quando ti svegli dall’anestesia e puoi dire: “Grazie Dio ce l’ho fatta, sono viva, posso ricominciare!

Ricominciare cosa? A ricostruire il sogno!

Perché sarebbe stato molto peggio se quell’incidente, anziché strapparmi un braccio, mi avesse strappato l’ala del sogno. E se dico “ala” è perché ho letto quella poesia bellissima di un poeta, vescovo, santo di questa terra di Puglia: don Tonino Bello. Il quale dice che Dio creò noi, uomini e donne, angeli con un’ala soltanto: perché per volare dobbiamo andare abbracciati!

E lì ho capito fino in fondo che stavo sbagliando tutto, perché ero io da sola, con le mie mani sole che assistevo i parti, che facevo i cesarei; mentre è solo adesso, perdendo il braccio destro, che ho scoperto di avere centinaia di braccia destre. Sono loro il mio braccio destro: i ragazzi, le giovani, anche le mamme, anche le nonne…

Come nonna Kandongo, la quale a sessanta anni ha scoperto che anche a sessanta anni si può sognare.

Io ho imparato da loro che costruire il mio sogno è costruire un sogno collettivo: quello di crescere, e di crescere insieme. E noi stiamo crescendo insieme: stiamo crescendo nella coscienza dei nostri diritti. Primo fra tutti, il diritto di realizzare i nostri sogni.

Come papà Mahunda, che proprio in quei giorni in cui io persi il braccio lui aveva perso l’uso delle gambe. Speravo che con la riabilitazione potesse camminare di nuovo, ma forse non era questo il disegno. Il disegno era più importante: non aveva più l’uso delle gambe, ma aveva una testa e un cuore! E questo è ciò che è realmente necessario per realizzare i sogni. Infatti papà Mahunda è diventato infermiere, cura gli altri, soprattutto quelli che come lui, anche per ragioni diverse, non possono più camminare. Lui è diventato il primo riabilitatore dell’Ospedale di Kimbau.

E poi come le tante storie belle di sogni realizzati.

Come la storia di papà Bukheti che cominciò come malato di tubercolosi: si ammalò due volte, temeva di non guarire; poi, grazie alla sua determinazione, guarì definitivamente. E allora mi disse: “Io sono guarito, ora voglio che anche gli altri possano guarire. Non voglio più che si muoia di tubercolosi”. E anche lui è diventato infermiere.

Ma la storia forse più bella è quella di papà Kikobo. Era malato di AIDS e piangeva: “Devo morire…” Ma ci siamo detti: “NO! Devi essere più forte del virus!”. E piano piano, ma con determinazione, ha cominciato a battersi, e quella battaglia l’abbiamo combattuta insieme per il trattamento farmacologico gratuito, e alla fine l’abbiamo ottenuto. E non solo per lui, ma per tutti i malati di AIDS del Congo, e per i malati di AIDS africani. E insieme a lui, quando si è laureato, ci siamo comprati una moto e con quella andiamo in giro per la nostra diocesi di Kenge: da nord a sud sono 600 chilometri, da est a ovest più di 400; questa diocesi è più vasta del Belgio! Andiamo nei nostri centri sanitari e insieme aiutiamo i giovani infermieri ad apprendere il loro lavoro e a curare adeguatamente i malati di AIDS. E non solo quelli. E lui accompagna tutti i malati di AIDS fino a far prendere coscienza che hanno diritto non solo al trattamento gratuito ma anche a non essere discriminati. Siamo cresciuti insieme, io e lui, nella presa di coscienza dei diritti.

E proprio per la coscienza dei diritti che ho visto crescere in questo popolo, io vorrei ancora trasmettervi un altro messaggio, per oggi e soprattutto per domenica: il 19 dicembre, in Congo, è il giorno zero in cui l’attuale presidente Joseph Kabila deve lasciare il potere. Dopo il secondo mandato, nel rispetto della Costituzione votata da 70 milioni di congolesi, deve cedere il passo al suo successore. Ma non lo farà, perché ha congelato le elezioni.

In queste ultime settimane la Chiesa cattolica, incaricata anche dalla comunità internazionale, compreso il Congresso nord americano, sta seguendo la sua azione; la Chiesa cattolica si è impegnata a promuovere il dialogo e la mediazione tra l’opposizione. Una opposizione divenuta assai radicale a causa del suo rifiuto; di questo presidente che non se ne vuole andare, anche se un intero popolo gli dice che è il momento di andarsene, che i congolesi hanno diritto a costruire una nuova democrazia, che hanno diritto all’alternanza.

Io vorrei che in tutte le chiese italiane il 18 si preghi affinché si possa riuscire in questa opera di mediazione, per restituire al popolo congolese il diritto a sognare e a costruire partendo dal basso, dai diritti troppe volte negati. Quattrocento anni di tratta degli schiavi; cinquanta anni di atroce colonialismo; trenta anni di mobutismo, e ora anche quindici anni di cabilismo in cui il Paese è divenuto sempre più povero.

Il Congo ha il diritto di costruire il proprio futuro, magari anche di sbagliarsi! Attraverso questa opera di mediazione, bisogna permettere a questo popolo di portare avanti un disegno di pace e di democrazia, senza nuovi spargimenti di sangue. Perché, purtroppo, in questi anni ce ne sono stati tanti, troppi.

E allora vi chiedo questo: preghiamo perché il popolo congolese possa realizzare i propri sogni. Perché quando ci credi fino in fondo, i sogni si realizzano davvero.

Grazie!

Appendice. 1

Ho fatto un sogno.

Ero su una piroga intagliata in un tronco d’albero e traversavo un grande fiume, la Wamba, un affluente del fiume Congo. Avevo percorso kilometri di sabbia, per uscire dal “deserto” di Kenge dove non piove da mesi. Mi ero seduta sulla piroga, stanchissima. Il fondo era bagnato, ma mi avevano dato una canna di bambù per sedermi.

Mentre traversavo ho alzato lo sguardo verso l’altra riva. Una montagna verde smeraldo mi si profilava dinanzi, impervia, e verso la vetta i palmizi che si alternavano ad alberi giganteschi.

Quando approdiamo, qualche minuto più tardi, il suolo è cambiato: non più sabbia ma argilla rossiccia. Un sentiero che sparisce fra i palmizi, in salita.

Mi aiutano a trasportare lo zaino, senza che io lo chieda. Mi conoscono: molti degli abitanti di Kenge2 sono Yaka e Suku provenienti dal sud del Kwango. Fuggono la povertà e la sabbia di Kimbau e Popokabaka, per raggiungere il paradiso di Kenge2.

Arriviamo alla Parrocchia, e io penso bene di entrare per lavarmi un poco, sono piena di sabbia negli occhi, nei capelli… Mi aspetto che mi diano dell’acqua del fiume, è la stagione secca e la Wamba è vicina. Ma mi presentano damigiane e secchi di acqua sorgente “ce ne sono molte, più vicine del fiume”. Mi dico che se con l’ISTM di Kenge2 è stato un passo falso, almeno sono venuta fin qui per lavarmi come si deve.

Ma non è stato un passo falso: dopo ulteriori dieci minuti di passeggiata fra i palmizi, arrivo all’ISTM e mi stupisco ancora: la scuola si trova in un vecchio ospedale, identico a quello di Kimbau e, come quello, abbandonato dai Belgi nel 1956.

Da allora nessuno ci ha più passato una mano di vernice. Funzionano solo la maternità e la sala operatoria.

Eppure la scuola funziona, molto meglio di quanto avrei mai pensato. Le ragazze e i ragazzi sono preparati, attenti, motivati. La sola differenza con l’ISTM di Kenge è che qui le tasse sono meno esose. Non è quindi, come temevo, “l’ISTM del tonti” che non riescono a passare di classe a Kenge, ma l’ISTM dei poveri, che non riescono a pagare le tasse.

I sogni sono processi a catena: da quando ho scoperto che Kenge2 non era un’avventura, ho chiesto di insegnare in più corsi (adesso ne ho 6).

Adesso si parla di affidarmi una responsabilità accademica, gli insegnanti e gli studenti lo reclamano.

E io sto sognando…. CHE CI VERRETE UN GIORNO ANCHE VOI !

Ho diritto di sognare?

1 Da una lettera di Chiara all’Associazione Amiche e Amici di Chiara Castellani, settembre 2016.

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