di Sergio LUZZATTO
in “Il Sole 24 Ore” del 24 aprile 2016
Da una trentina d’anni in qua, il rapporto fra storia e memoria è divenuto centrale nella riflessione degli storici più avvertiti. E tanto più in quanto, nel frattempo, una varietà di dinamiche ideologiche, epistemologiche, stilistiche, ha contribuito a rendere la distinzione fra storia e memoria relativamente poco chiara – o volutamente opaca – allo sguardo dei non addetti ai lavori. Oggi, è sopra una studiata confusione fra storia e memoria che si regge tutta una produzione di libri o di film ambientati nel passato e irriducibili ai distinguo tradizionali, realtà o invenzione, fiction o non fiction, saggio o romanzo.
Storico di assoluto livello, Aldo Schiavone non è sospettabile di ignorare la distinzione fra storia e memoria. Al contrario, ce l’ha chiara al punto da esplicitarla già nel (sotto)titolo del suo libro Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria. La storia essendo, qui, storia dell’impero romano: la vicenda del governatore della Giudea al tempo della predicazione e della crocifissione di un ebreo di Nazareth chiamato Gesù. E la memoria essendo memoria della buona novella: il racconto degli eventi quale è stato trasmesso dalle prime fonti cristiane, a cominciare dai Vangeli. Mentre l’enigma del sottotitolo è quello relativo al comportamento del prefetto Pilato. Il comportamento di chi – proverbialmente – se ne lava le mani, lasciando ad altri (i sacerdoti del sinedrio, il popolo di Gerusalemme) la responsabilità di decidere del destino di Gesù? Oppure il comportamento di chi subisce – in cuor suo – la fascinazione del Maestro, e che lasciando compiersi la tragedia del Golgota intende contribuire, paradossalmente, alla storia della Salvezza?
Il primo merito del libro di Schiavone consiste nella maniera in cui è scritto. Senza alcuna bardatura accademica, né la minima concessione al gergo specialistico. Districandosi entro una letteratura sterminata, Schiavone consegna un racconto tanto palpitante nella forma quanto trasparente nella sostanza: il suo Ponzio Pilato può essere percorso e capito anche dal meno ferrato dei lettori generalisti. Anche le più intricate questioni testuali e interpretative che da un secolo e passa affaticano gli specialisti risultano quasi miracolosamente spiegate, senza perciò riuscire banalizzate.
L’ambito dove Schiavone ci mette maggiormente del suo, dove più aggiunge alle ricostruzioni correnti, è quello del rapporto fra Pilato e Gesù come un frammento fra i tanti nel quadro generale del governo romano delle province durante l’età di Tiberio. Restituita alla storicità del suo contesto, la crisi occorsa a Gerusalemme intorno all’anno 30 – la necessità politica in cui il quinto prefetto della Giudea romana si è trovato, di gestire lo scontro fra un giovane e carismatico profeta della Galilea e le massime autorità del Tempio di Gerusalemme – può apparire un episodio comune, quasi ordinario, entro le schermaglie di potere, le logiche di compromesso, le esigenze di consenso che sovrintendevano all’amministrazione imperiale in Oriente. Negli anni immediatamente precedenti la crisi del 30, il prefetto Pilato era stato spinto talora a impuntarsi, talora a cedere, intorno a faccende quali il diritto dei soldati romani di penetrare a Gerusalemme con insegne imperiali, o il diritto delle autorità romane di attingere al tesoro del Tempio per la costruzione di un nuovo acquedotto.
Banale dunque, a suo modo, la crisi del 30. Ma anche epocale, evidentemente. Ed epocale – secondo Schiavone – non tanto per le fatidiche conseguenze giudiziarie di chissà quale “processo a Gesù”, ma per la straordinaria accelerazione culturale che Gesù stesso sarebbe riuscito a impartire alla storia d’Occidente attraverso il suo incontro con Pilato. Sulla base della narrazione evangelica, e in particolare del resoconto del dialogo tra Pilato e Gesù secondo il Vangelo di Giovanni, Schiavone sostiene infatti che Gesù sia stato capace di condurre Pilato, vertiginosamente, fin sulla soglia di un mondo nuovo.
«Il mio regno – spiega Gesù a Pilato – non è di questo mondo». Il regno cristiano non era più quello delle antiche Scritture, dove il potere di Dio si rifletteva senza mediazioni nel potere mondano, e l’abbagliante luce del Regno coincideva con la terribile maestà del Dio degli eserciti. «Quel che è di Cesare, rendetelo a Cesare, e quel che è di Dio, a Dio»: la vertigine della soglia verso cui Gesù accompagna Pilato è quella della separazione fra i due regni, dove al Dio degli eserciti subentra, attraverso il sacrificio del Figlio voluto dal Padre stesso, un Dio d’amore. Gli storici del cristianesimo antico potranno trovare, nella ricostruzione di Schiavone, alcune cose che non tornano. E non solo per la sua scelta di impiegare come uniche fonti protocristiane i Vangeli sinottici a scapito dei cosiddetti apocrifi, o per la scelta di considerare il Vangelo di Giovanni più immediatamente utile di quelli di Matteo, Marco e Luca nella restituzione della «realtà» della Palestina del I secolo. Il problema deriva soprattutto dalla maniera in cui Schiavone riconosce o rigetta – di volta in volta – il valore di testimonianza storica dei Vangeli stessi. Cioè senza definire con rigore i criteri filologici o storiografici che lo guidano in un caso come nell’altro. E ancor più il problema deriva dalla maniera in cui Schiavone accetta di considerare il Vangelo di Giovanni, per il dialogo fra Pilato e Gesù, un resoconto largamente fedele e sostanzialmente attendibile. Quasi una trascrizione stenografica.
Ma il libro di Schiavone non chiede di essere giudicato sulla base di parametri strettamente scientifici. E il modo stesso in cui l’autore ragiona dell’«enigma» tra storia e memoria viene presentato – già in sede di prologo – come un modo sbilanciato verso il piatto della memoria piuttosto che verso il piatto della storia. Sensibilmente, il cuore di Aldo Schiavone batte ormai più forte per la potenza (e per il mistero) della rammemorazione cristiana di quanto non batta per la scienza della storia giudaico-romana.
Così, e sebbene l’autore definisca niente più che un «bel romanzo» il libro recente di Emmanuel Carrère sulle conventicole dei primi cristiani, Il Regno, càpita al lettore di chiudere questo Ponzio Pilato con l’impressione di avere letto un altro romanzo bello, o addirittura bellissimo. Che poi la storia «sia anche accaduta – nei fatti e non solo nella memoria, e per giunta nei termini in cui la raccontiamo – potrebbe anche essere, fra tutte, la cosa meno importante».
Aldo Schiavone, Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria , Einaudi, Torino, pagg. 176, € 22
Sergio Luzzatto