L’ATTUALITA’ DELLA NONVIOLENZA

Antonio Greco

Quella appena trascorsa è stata una settimana da libri di storia. Il Parlamento tedesco ha modificato il freno costituzionale al debito per consentire spese militari illimitate. Nel frattempo, nessuna generosità fiscale sarà destinata a investimenti in ospedali, istruzione, vigili del fuoco, asili nido, pensioni, tecnologie verdi, ecc. In breve, quando si tratta di finanziare la vita, l’austerità resta sancita nella costituzione tedesca. Solo gli investimenti nella morte sembrano meritare di superare ogni limite.

Il keynesismo militare avanza prepotentemente anche in Italia, oltre che negli altri 26 paesi dell’UE. La retorica bellicista, che credevamo morta e sepolta dalla fine della Seconda guerra mondiale, impera sui mass-media. Non sono bastate due guerre mondiali: ed ecco che si torna a parlare di “pace che intorpidisce”, di necessario “spirito combattivo”, di un’Europa che “non può avere una mentalità di pace”, anzi deve usare il “linguaggio della forza”.

Possiamo anche lamentare l’opportunismo e la povertà del pensiero nonviolento venuto dopo Gandhi, Simone Weil, Etty Hillesum, Capitini e più indietro, Tolstoj e Rolland. Ma come è possibile che la radicalità del pacifismo integrale di questi grandi maestri e testimoni non solo non riesca ad emergere e ad avanzare nei tornanti tragici della storia ma spaventi anche i pacifisti più convinti? Ma come è possibile che le nuove barbarie a cui assistiamo in questi giorni con migliaia o milioni di vittime non scuotano cittadini comuni e gente del popolo? Come è possibile che molti di noi, se non si può dire che abbiamo una complicità diretta in questi eventi, siamo scioccamente indifferenti?

Tornare a rileggere i giganti del pensiero nonviolento può aiutare a rispondere a questi interrogativi.

Un aureo libretto”: Aldo Capitini, le tecniche della nonviolenza

L’editore Manni, nell’agosto del 2024, ha ristampato “Le tecniche della nonviolenza1, che Capitini2 ha scritto nel 1967, mentre infuriava la guerra del Vietnam.

L’editore non specifica il o i perché ripubblichi un libro vecchio di 60 anni, ma, conoscendolo, si intuiscono. La ristampa non è una operazione commerciale. Non si tira fuori un libro dalla polvere della storia o dal museo delle biblioteche per far soldi. Quasi sempre i cosiddetti “classici” sono riprodotti per passione o per “persuasione”.

La ristampa non ha nulla di nostalgico per il pacifismo nascente degli anni Sessanta del secolo scorso, in cui forte emergeva il rifiuto, il disgusto, il “ripudio della guerra” e ci si apriva al tema e al metodo della nonviolenza. Non vi è nostalgia per tempi in cui si condannavano le guerre come una pazzia (Giovanni XXIII: «Bellum alienum a ratione»3) o tempi in cui era fortemente condivisa la tesi di Alberto Moravia e di Umberto Eco, secondo cui occorreva rendere la guerra un tabù (come la schiavitù, l’incesto, il cannibalismo).

La ristampa del libro è spiegata dal bisogno di combattere quel fatalismo della guerra che favorisce i violenti, rafforza le strutture e le economie di guerra, distrugge l’ambiente e fa pagare ai più deboli e poveri il prezzo più alto anche in termini di vite umane.

Il libro di Capitini è un libro radicale di fronte al massiccio non-pensiero della cultura e della politica ufficiale; un libro necessario e infinitamente utopico; un libro sconsolante alla luce di quanto oggi avviene.

Scrive Goffredo Fofi nella Introduzione: “ma è ancora attuale il pensiero di Capitini? Sull’attualità di Capitini io non ho alcun dubbio, ma ne ho invece molti sulla nostra, di attualità… L’epoca è quella che è, la sua confusione, il suo conformismo, i suoi opportunismi sono sotto gli occhi di tutti, e l’accettazione del presente e delle sue regole è diventata così generale e collettiva – senza domande sui perché e sui come e sui dopo – da lasciare assai pessimisti sul futuro di ogni possibile alterità. (…) Ma proprio per questo Capitini é attuale, perché il suo “non accetto” può ancora esserci di stimolo e di modello per il nostro tempo” pp. 9,11).

Il titolo del libro può indurre a pensare a un manuale di tecniche. È anche questo, ma non solo questo. Alla base delle tecniche c’è soprattutto uno stile di vita, una strategia e non solo una tattica. C’è un progetto ampio ma il più possibile concreto e c’è la messa in gioco individuale da non ridurre a mera testimonianza. La nonviolenza va liberata dal suo significato solo negativo per farla diventare qualcosa di organico e di positivo, che va dall’individuo al gruppo e alla comunità, al “potere di tutti” (omnicrazia). Le tecniche sono solo i modi tramite i quali la visione capitiniana della nonviolenza deve essere attuata, tenendo conto delle situazioni, dei problemi, degli scopi relativi a determinate circostanze. Il metodo nonviolento, quindi, si presenta aperto alla creatività di nuovi modi, propri di determinate situazioni. Non è un semplice strumento, perché in esso fondamentale è “ciò che è nell’animo, cioè apertura allo spirito di nonviolenza” (p.18).

Alla introduzione di Goffredo Fofi seguono 15 capitoli suddivisi in quattro parti:

Parte prima: IDEE SULLA NON VIOLENZA: 1. Il metodo nonviolento; 2. Tesi sulla nonviolenza; 3. La nonviolenza come rivoluzione permanente

Parte seconda: TECNICHE INDIVIDUALI E COLLETTIVE DELLA NONVIOLENZA: 4. Tecniche individuali; 5. La noncollaborazione; 6. L’obbiezione di coscienza e impegni civili; 7. Tecniche collettive4

Parte terza: PIANI PER L’AZIONE DIRETTA NONVIOLENTA: 8. Principi dell’addestramento alla nonviolenza; 9. Il lavoro di un centro di addestramento; 10. I rapporti con la comunità circostante; 11. Il piano de Ligt contro la guerra (1934); 12. Il Manuale di Charles C. Walker (1961)

Parte quarta: GRANDI CAMPAGNE NONVIOLENTE: 13. Campagne di Gandhi; 14. In Norvegia; 15. Contro il razzismo in Africa e in America.

Il libro di 165 pagine è chiuso dalla Nota bibliografica e dalla postfazione di Giuseppe Moscati (Presidente della Fondazione Aldo Capitini – Perugia), dal titolo: “Dalla persuasione all’azione nonviolenta, andata e ritorno”.

Nel 1967 Capitini non poteva prevedere la terza guerra mondiale a pezzetti del nostro tempo, né il dramma della Ucraina o del popolo palestinese. Oggi il libro di Capitini si cala in un mondo in subbuglio e in cambiamenti politici accelerati e deflagranti. Ma assolutamente non è datato.

Il suo metodo nonviolento poggia su due pilastri fondamentali:

– su una concezione della democrazia intesa come partecipazione e

– sulla “radicalità di un pacifismo integrale”.

La omnicrazia

La democrazia come potere di tutti (popolo, ogni vivente, morti – omnicrazia) teorizzata da Capitini deve fare i conti con le nostre democrazie contemporanee, appagate e ripiegate sul presente. E c’è chi sostiene che le democrazie moderne sono gusci vuoti e “il potere del popolo” non esiste più. Il nostro tempo, soprattutto in occidente, è “l’era del materialismo onesto”: poiché del domani non c’è certezza, i cittadini si ingozzano di conforti, di beni, di ogni cosa, allegramente, spensieratamente, oltre ogni misura. Già Tocqueville nel classico La democrazia in America (1840) descriveva in modo preveggente la nostra attuale condizione: il torto delle democrazie non è di “trascinare gli uomini a inseguire godimenti proibiti” ma di “assorbirli nella ricerca di godimenti permessi”. Per questa via, “si potrebbe benissimo stabilirsi nel mondo una specie di materialismo onesto, che non corromperebbe le anime, ma che le renderebbe molli e finirebbe per fiaccare, senza chiasso, tutte le loro energie”.

E Anna Frank nel suo Diario scriveva: “non credo affatto che la guerra sia soltanto colpa dei grandi uomini, dei governanti e dei capitalisti. No, la piccola gente la fa altrettanto volentieri, altrimenti i popoli si sarebbero rivoltati da un tempo5.

Allora che fare?

Sono tornati i pifferai che sostengono che la guerra rafforza e irrobustisce un popolo e che la pace intorpidisce. E sempre con gli stessi argomenti: “non si può e non si deve immaginare un mondo senza guerre. Le guerre accompagneranno sempre la storia dell’umanità. Le armi sono deterrenza nei confronti di chi vuol prevaricare e imporsi con la forza. La nonviolenza è per anime belle, deboli e vili”.

Aldo Capitini, invece, sostiene l’opposto, sia per gli individui che per un popolo:

Non posso predicare la nonviolenza a un vile, più di quanto non possa indurre un cieco a godere di scene salutari. La nonviolenza è il culmine del coraggio. E nella mia esperienza non ho incontrato difficoltà a dimostrare a uomini allevati alla scuola della violenza la superiorità della nonviolenza. Vile, quali fui per anni, albergavo la violenza. Cominciai ad apprezzare la nonviolenza quando cominciai a liberarmi della viltà. Uno che alberga violenza e odio nel suo cuore, e ucciderebbe il nemico se potesse farlo senza nuocere a sé stesso, è estraneo alla nonviolenza. Non devo permettere che un vile cerchi rifugio nella cosiddetta nonviolenza. La mia fede nella nonviolenza è una forza estremamente attiva. Non lascia posto alla viltà e neppure alla debolezza. La nonviolenza va annunciata a coloro che sanno morire, non a coloro che temono la morte. Proprio come nell’allenamento alla violenza uno deve imparare l’arte di uccidere, così nell’allenamento alla nonviolenza uno deve imparare l’arte di morire. Chi non ha superato ogni paura, non può praticare la non violenza alla perfezione (pag. 22).

La difesa dell’umanità e della giustizia verrà per le vie della nonviolenza attiva e coraggiosa, disobbediente ai poteri armati. La violenza fa male a tutti, produce violenza, e non ottiene giustizia. Uccidere non difende, anzi peggiora la società.

A conferma di questa tesi aggiungiamo il dato probatorio che Erica Chenoweth, Università di Harvard, «Come risolvere i conflitti senza armi e senza odio con la resistenza civile» (ed. Sonda) riporta a pag. 42: “dal 1900 al 2019 le lotte non violente hanno avuto successo nella difesa dei diritti umani nel 50% dei casi e le lotte violente solo nel 26%. Anche storicamente la nonviolenza si dimostra più efficace delle armi”.

La radicalità

Il secondo pilastro del metodo nonviolento è la radicalità.

Con il pensiero e con il metodo della nonviolenza di Capitini non si può giocare a ribasso, non si può scendere a compromessi, la nonviolenza non può essere utilizzata solo come mezzo e a basso costo. Pena il tradimento, sposa la radicalità. Capitini più che un utopista è un radicale. Ma non un settario. La differenza si basa sul fatto che il radicale cerca in primo luogo di comprendere criticamente quali siano le principali sfide collettive e personali del mondo nel momento in cui vive, senza evadere dalla storia. In secondo luogo, il radicale si basa sul fatto che realizza tutta la propria opzione esistenziale e pratica nel confronto con queste sfide; dispone tutto a partire da lì. Il settario invece, segue analisi e consegne già elaborate da altri e senza cercarvi approfondimenti. Il radicale riflette sempre in forma critica e amorosa, umile e comunicativa, senza il fanatismo del settario. E ci spende la vita.

La radicalità che chiedeva a sé stesso, Capitini chiedeva anche a coloro che intendevano seguire il suo metodo.

Ma è proprio questo che faceva e fa anche oggi paura. Ha ragione Fofi quando sostiene che Capitini non solo è attuale ma anche necessario, perché il suo “non ci sto”, “non accetto”, “cerco altro” può ancora esserci di stimolo e di modello per il nostro tempo.

La nonviolenza: non utopia ma storia

La vita e la storia ci pongono dinnanzi alla drammatica esperienza e presenza del male, del dominio, dell’ingiustizia e della violenza. Questa violenza non è solo quella delle armi, diretta, materiale, è molto più spesso una violenza strutturale, nelle divisioni sociali, nelle leggi discriminanti, nell’economia che non serve alla vita ma al profitto. C’è una violenza statica esercitata delle enormi diseguaglianze che causano povertà e offesa.

A tutti questi mali la storia ci dice che l’uomo ha reagito scegliendo, nella risposta, tra i mezzi violenti e i mezzi nonviolenti. Ma chi racconta la storia preferisce sostenere che il male si vince solo con altro male e con mezzi violenti e distruttivi. E si preferisce nascondere la realtà che “tecniche nonviolente sono state usate qua e là da millenni, qualche volta collettive, il più delle volte individuali. Anzi la storia stessa dell’uomo non sarebbe quella che è se, a fianco delle tecniche della violenza, indubbiamente tanto sviluppate da lontanissimi tempi, non fossero esistite le tecniche della nonviolenza” (pag. 21).

In breve, se la competizione ha alcune volte portato avanti la causa del progresso, la cooperazione è stata fondamentale per la sopravvivenza della specie. Ma la vulgata si cura molto bene nel nascondere il fiume sotterraneo della cooperazione e della nonviolenza come pericolose utopie.

Scrive G. Fofi: “Rileggere oggi certe sue (n.d.r. di Capitini) pagine contro “l’assoluto del benessere” (il modello capitalista occidentale) e “l’assoluto dello Stato” (il modello imposto a tanti popoli dall’Unione Sovietica) e sulla necessità di mettere in discussione le ideologie dello Stato alla pari di quelle del consumo – che vanno spesso di pari passo – è ancora fortemente istruttivo, nonostante l’epoca sia cambiata”.

Ma proporre oggi, che i fatti raccontano di 56 guerre nel mondo, questo libro di Capitini e le sue tesi, per molti “retori” appare una illusoria utopia o, peggio, una provocazione.

Io leggo il libro, invece, con lo sguardo al futuro: il metodo nonviolento mi appare l’unico disegno realistico per non sprofondare nel più cupo pessimismo e non pensare al futuro del mondo con la paura per la stessa sopravvivenza del genere umano e della natura.

Chi è più intelligente, l’intelligenza artificiale o quella umana?

Ho posto, provocatoriamente, all’intelligenza artificiale (ChatGpt, Gemini, Copilot) la stessa domanda che spesso sentiamo nei dibattiti televisivi, nei gruppi e fra amici:

Oggi tu credi ancora alla favola che la guerra possa diventare un tabù?”

Le risposte:

  1. ChatGPT ha detto:

Capisco il tuo scetticismo. Guardando la realtà dei fatti, con guerre ancora in corso e nuove tensioni che emergono continuamente, sembra difficile immaginare un mondo in cui la guerra diventi un tabù. Gli interessi economici, politici e strategici che la alimentano sono profondamente radicati, e la storia ci ha dimostrato che l’uomo fatica a rinunciare alla violenza come strumento di potere.

Tuttavia, sebbene non si possa essere ingenui, si può riconoscere che alcuni progressi sono stati fatti. Un tempo la guerra era vista come una componente naturale e inevitabile della politica, oggi almeno viene percepita sempre più spesso come un fallimento. Il diritto internazionale, le istituzioni globali e l’opinione pubblica esercitano una pressione maggiore rispetto al passato per limitare i conflitti.

Detto questo, rendere la guerra un vero tabù richiederebbe un cambiamento radicale nella mentalità globale, cosa che non sembra vicina. Più che una “favola”, direi che è una speranza: difficile da realizzare, ma non necessariamente impossibile. Forse non sarà la nostra generazione a vedere questo cambiamento, ma ciò non significa che non valga la pena lavorare per avvicinarsi a quell’obiettivo.

  1. Gemini ha risposto:

La trasformazione della guerra in un tabù rappresenta un ideale complesso, la cui realizzazione si scontra con le sfide del mondo contemporaneo. Sebbene l’aspirazione alla pace permanga, diversi fattori ostacolano il raggiungimento di tale obiettivo.

I fattori indicati sono 5: La persistenza dei conflitti; la proliferazione delle armi; le dinamiche geopolitiche; l’ascesa del nazionalismo e dell’estremismo; la complessità dei conflitti moderni.

Tuttavia, nonostante queste sfide, la speranza di un mondo senza guerra non è del tutto vana. Numerosi sforzi vengono compiuti per promuovere la pace e la risoluzione pacifica dei conflitti dalla diplomazia e la cooperazione internazionale; dall’educazione alla pace; dalla società civile con le organizzazioni non governative e i movimenti pacifisti.

In conclusione, sebbene la guerra rimanga una realtà persistente, l’aspirazione a un mondo senza conflitti continua a guidare gli sforzi di molti individui e organizzazioni.

  1. Copilot ha detto:

Considerare la guerra come un tabù può sembrare un’utopia in un mondo che continua a essere profondamente segnato da conflitti armati e tensioni geopolitiche. Tuttavia, l’idea non è una “favola” nel senso di qualcosa di irraggiungibile; piuttosto, è un’ambizione che richiede un cambiamento lungo e complesso nelle strutture culturali, economiche e politiche della società.

Se guardiamo indietro, molte cose che oggi consideriamo tabù erano una volta accettate o addirittura comuni: la schiavitù, per esempio, o il duello come mezzo per risolvere i conflitti personali. Questi cambiamenti non sono avvenuti dall’oggi al domani, ma grazie a un’evoluzione culturale e morale alimentata da individui, movimenti e idee che inizialmente sembravano “irrealistiche”.

Rendere la guerra un tabù richiederebbe un impegno globale per trasformare le norme sociali, ridurre le disuguaglianze che alimentano i conflitti e costruire istituzioni capaci di risolvere le controversie senza ricorrere alla violenza. Certo, ci sono ostacoli enormi: interessi economici, mentalità consolidate, e la complessità delle relazioni internazionali. Ma ogni passo verso una riduzione del conflitto – che sia attraverso l’educazione alla pace, la diplomazia o la cooperazione internazionale – è un passo che porta quell’idea più vicina alla realtà.

Quindi, più che una “favola”, è una sfida. La questione è: quanta volontà ha l’umanità di accettare questa sfida e lavorare insieme per realizzarla? Anche il solo discutere e riflettere su questa possibilità è un modo per alimentare il cambiamento.

Non so che autorevolezza abbiano questi strumenti artificiali ma queste risposte mi hanno sorpreso, positivamente. Lo sguardo sulla nonviolenza è incoraggiante. Inaspettatamente, almeno per me, danno ragione a chi, già nel lontano 1964, sosteneva che “la società non violenta del futuro è un neonato molto robusto che lotta per nascere in mezzo a noi. Ponendo fine alla violenza noi sostituiremo la società politica con la società umana” (Peter Cadogan, in Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, pag. 28).

Ancora oggi è un neonato. Facciamolo crescere.

Note

1 Aldo Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Manni editore, San Cesario di Lecce, 2024, pp.168.

2 Si rinvia su Aldo Capitini agli altri interventi sul nostro blog:

Michele Di Schiena e Capitini: https://manifesto4ottobre.blog/2022/06/25/con-noi-dopo-due-anni

Recensione di L’atto atomico della nonviolenza: https://manifesto4ottobre.blog/2022/05/20/esiste-nel-mondo-unanima-nonviolenta/

3 Così nel 1963 l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII qualificava al n. 67 l’uso della guerra.

4 Il capitolo settimo indica fra le tecniche collettive: la comunità nonviolente, marce, sciopero, boicottaggio, sabotaggio, la pubblicità delle iniziative, la disobbedienza civile, le tecniche più recenti.

5 A. Frank, Il Diario, Einaudi, Torino 1958, p. 209.

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