Dopo la nostra Lettera Aperta sulla nomina dei vescovi datata 11 ottobre scorso, la notizia della nomina del nuovo arcivescovo di Brindisi è giunta il 9 dicembre. Si tratta di Giovanni Intini nato a Noci (Ba) nel 1957, parroco a Monopoli per molti anni, ordinato vescovo nel 2016 con sede a Tricarico (MT).
Tutte le iniziative che richiedevano un coinvolgimento del popolo nella nomina del vescovo si sono fermate al momento della scelta, avvenuta con il solito metodo, cioè senza nessun coinvolgimento delle comunità. Lo stesso mons. Intini nella sua lettera di saluto indirizzata alla diocesi dice che la sua nomina è frutto del “discernimento del Santo Padre”. Sappiamo che in alcune diocesi cattoliche svizzere la nomina avviene sentiti i consigli pastorali. Ciò vuol dire che il metodo può essere cambiato.
Nominato il nuovo arcivescovo, al quale rivolgiamo il nostro benvenuto e la nostra disponibilità al dialogo, l’impegno per cambiare il metodo di nomina dei vescovi continua. In fondo è l’impegno per riconoscere al Popolo di Dio la dignità che gli ha riconosciuto il Concilio Ecumenico Vaticano II.
Pubblichiamo la lettera che all’indomani della nomina Antonio Greco, anch’egli autore della Lettera Aperta, indirizzava a tutti i firmatari.
Ai 22 firmatari della Lettera aperta dell’11 ottobre 2022
Buona sera a tutte e a tutti.
Condivido le annotazioni di alcune/i di noi fatte in queste ore dopo il trasferimento del vescovo Giovanni Intini a pastore della nostra diocesi: alcuni segnali della sua formazione umana e presbiterale sono incoraggianti. Scontato è il rispetto, in vigile attesa porgiamo accoglienza e ascolto.
Mi permetto, con questa nota, di fare alcune annotazioni. Mi preme che tutti i firmatari della lettera aperta (ma non solo) contribuiscano a far crescere la consapevolezza della responsabilità di tutti i battezzati per cambiare il metodo attuale con il quale è nominato il vescovo di una diocesi, anche dopo che il nostro è stato già nominato.
La nostra lettera aperta era composta da due parte: la seconda parte auspicava un pastore che seguisse le linee stabilite da alcuni vescovi del post-concilio, definite “Patto delle Catacombe”, e chiedeva che la copertura della cattedra vescovile di Brindisi non avvenisse per trasferimento di un vescovo da altre diocesi; la prima parte, invece, argomentava “con parresia che le attuali modalità di nomina dei vescovi in Italia non sono più compatibili con una Chiesa che, sulla scia del Concilio, sia lievito del mondo …”.
Il principio che la Chiesa particolare incarna e rappresenta la Chiesa universale e quello che tutti i membri del Popolo di Dio portano una responsabilità comunitaria e sinodale nei confronti di tutti i problemi della Chiesa, sia universale che particolare, esigono la revisione di molte strutture attuali. Come esempio di questo necessario cambiamento potrebbe essere preso quello della nomina dei vescovi, che sta diventando ormai acuto in tutta la Chiesa.
La questione del metodo attuale di nomina di un vescovo diocesano
Criticare la nomina di un vescovo “calato dall’alto” non è un capriccio di pochi contestatori. È prima di tutto una esigenza e coerenza teologica.
Il Concilio ha fatto l’affermazione teologica di fondo sulla Chiesa particolare nell’art. 26 della Lumen Gentium: «Questa Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime comunità locali di fedeli, le quali, in quanto aderenti ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiesa nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, nella loro sede, il Popolo nuovo chiamato da Dio con la virtù dello Spirito Santo e con grande abbondanza di doni». Così definita una chiesa diocesana non può essere espropriata del tutto dell’atto costituente quale è la nomina del suo Pastore. Quindi non è solo per un fatto sociologico e di tendenza di democratizzazione che la Lettera Aperta ha posto il problema del superamento della procedura finora utilizzata.
Metto da parte una lettura storica del modo di nominare un vescovo (cfr. la qualificata noto di Fulvio De Giorgi a riguardo). Mi soffermo, per poterlo valutare correttamente (pochi conoscono nei dettagli la procedura) su come si esplicita concretamente l’attuale nomina che, per brevità, chiamo “nomina dall’alto” di un vescovo.
I passaggi salienti sono:
- I vescovi di una provincia ecclesiastica o dell’intera della Conferenza episcopale sono tenuti a redigere la lista di preti candidabili all’episcopato almeno una volta ogni tre anni.
- Quando si deve nominare il vescovo di una diocesi, il Nunzio Apostolico chiede al vescovo dimissionario di redigere una relazione che definisce la situazione e le necessità della diocesi. Il rappresentante pontificio è obbligato a consultare l’arcivescovo metropolita e gli altri vescovi della provincia, il presidente della Conferenza episcopale e i membri del collegio dei consultori e del capitolo della cattedrale. Secondo la legge canonica è necessario che le persone consultate forniscano informazioni ed esprimano le loro opinioni in modo del tutto confidenziale, in seguito a una consultazione individuale e segretissima.
- A questo punto il nunzio compila una breve lista di tre candidati per effettuare le indagini necessarie e cercare informazioni precise su ogni candidato con la massima riservatezza sulla consultazione. Dopo di che invia alla Santa Sede una lista, chiamata “terna”, con i nomi dei tre candidati più appropriati a ricoprire l’ufficio. Ogni candidato deve possedere particolari qualità, elencate nel CdC (canone 378), che qui non riporto.
- Una volta ottenuta la documentazione, la Congregazione dei Vescovi, responsabile della nomina esamina quanto ricevuto dal nunzio. Può accettare la terna proposta o può chiedere di prepararne una nuova, oppure può chiedere maggiori informazioni su uno o più sacerdoti presentati.
- Dopo aver scelto i nomi dei candidati, la Congregazione presenta le sue conclusioni al Papa, chiedendogli di effettuare la nomina. Se il Papa concorda con queste decisioni, la nomina papale viene comunicata al nunzio per raggiungere il consenso del sacerdote alla sua nomina e scegliere la data per la pubblicazione.
Cosa non funziona in questo metodo?
- La comunità diocesana (la quasi totalità dei preti, religiosi e religiose, diaconi, vari ministeri, gli organismi di partecipazione diocesani e parrocchiali, dove esistono) è spettatrice passiva, sta a “balconare”.
- La scelta di un vescovo è appannaggio di soli maschi e taglia fuori la metà della comunità: le battezzate.
- Il potere ecclesiastico con questo metodo, perpetua sé stesso. Se “lo stampo” è unico e centrale non ci si può meravigliare se le comunità diocesane sono quasi tutte uguali, cioè morte spiritualmente e senza profezia.
- Non è questo il modo giusto di prendere sul serio l’ecclesiologia del Vaticano II, né la procedura attuale è adeguata alla realtà sociale che condividiamo, che non tollera forme autoritarie e poco dialogiche su una questione essenziale per la vita e la fede di una comunità diocesana. Quello che riguarda tutti, deve essere approvato da tutti. Diversamente, senza alcun coinvolgimento, deresponsabilizza sia i preti che i laici.
- Non ultimo, l’attuale metodo pone molti interrogativi a cui, per la segretezza che lo sostanzia, è difficile rispondere: chi entra nella lista dei preti candidabili? Quale ruolo ha il vescovo uscente nella individuazione della “terna”? L’iter, che appare complesso, è esente da pressioni o da cordate vescovili? Quale ruolo gioca nella formazione di un prete la dinamica di “fare carriera”? Ci sono preti che rinunciano? Quanti sono? E perché? Ed altri interrogativi ancora…
A difesa dell’attuale procedura non basta citare il dato che ha prodotto anche vescovi di grande spessore. Dato indubbio. Ma innegabile è anche il dato che un vescovo di grande valore non cambia da solo una chiesa locale per adeguarla al Vangelo e alle linee pastorali del Vaticano II. Non sono in questione le virtù del singolo scelto, anche se queste vanno cercate e benedette, ma in questione è un metodo che mortifica la chiesa diocesana e la clericalizza sempre più.
Una diversa procedura e in essa il ruolo dei laici
Abbiamo scritto: “Vorremmo, con le dovute modalità attuative, che l’antica tradizione della chiesa che vedeva vescovi come Ambrogio eletti dal popolo, fosse ripristinata”. Non molti conoscono, per es., la esperienza in vigore nelle diocesi cattoliche svizzere di Basilea e San Gallo. Qui non è il papa a proporre i candidati. Invece di designarli, egli nomina il vescovo legittimamente eletto dal capitolo della cattedrale. Oggi questa procedura è un’eccezione a livello mondiale. Ai vecchi tempi, invece, era la norma.
Se quest’esperienza svizzera è unica, molti sono, invece, i contributi, le ricerche interessanti, e non ultimo il documento del Sinodo dei vescovi tedeschi, che spingono perché migliorando, anche giuridicamente, quella di Basilea, si giunga a coinvolgere nel processo tutta la comunità diocesana. Ma di queste proposte si può parlare in altra sede.
Non mi nascondo che è ancora lunga la strada per un laicato consapevole e protagonista per una procedura “secondo Tradizione”. Sono consapevole che ci vorrà tempo perché l’eccezione svizzera diventi una regola per tutta la chiesa cattolica. Ma non per questo dobbiamo rinunciare a invocare questa riforma e a sostenerla anche nel caso in cui per la nostra diocesi la nomina di Giovanni Intini risultasse carica di novità evangeliche.
Dalla parte del nominato
Il 2022 è stato un anno importante per la diocesi di Brindisi: ad aprile è stato nominato un prete locale vescovo di Cerignola, a dicembre è stato trasferito un vescovo dalla Basilicata a Brindisi: nomina vescovile e trasferimento non sono la stessa cosa ma nascono dalla stessa fonte, dalla Santa Sede. Senza coinvolgimento della comunità diocesana che ha cresciuto l’uno e sta per accogliere l’altro.
Tenendo presente l’attuale procedura di nomina, provo a mettermi dalla parte dei preti che si caricano sulle spalle il ministero episcopale.
Ho sovrapposto due dichiarazioni significative: la prima è di Giovanni Intini, del 15 dicembre 2016, fatta nella cattedrale di Conversano-Monopoli, subito dopo la lettura della Bolla Pontificia di nomina a vescovo della diocesi di Tricarico; la seconda è quella di Fabio Ciollaro, del 2 aprile 2022, rilasciata in una Speciale intervista a Tele Dehon.
Senza mezzi termini, don Giovanni ha confessato di aver vissuto uno “tzunami”, una tempesta emotiva dopo aver sottoscritto la nomina a vescovo e aggiungeva: “In questi anni ho sempre accolto quello che mi è stato proposto e chiesto. Per un semplice motivo: ho imparato nel corso di questi anni a conoscere colui al quale ho dato fiducia e sapendo colui a cui ho dato fiducia ho imparato a fidarmi. E fidandomi non ho mai scelto io quello che dovevo fare. Ma è meglio così. Quando scegliamo noi le cose da fare scegliamo quelle più comode ma non le migliori secondo il progetto di Dio”[1];
Anche don Fabio Ciollaro, dopo aver dichiarato di essersi trovato all’improvviso e solo e con l’urgenza di dichiarare subito, senza possibilità di pensarci qualche giorno, la accettazione della nomina, sosteneva: “Tutte le volte che i vescovi mi hanno chiesto qualcosa, gradita o no, anche quando mi costavano molto, ho dato sempre la mia disponibilità. A maggior ragione l’ho fatto con la richiesta del Papa”[2].
È facile notare in Intini e Ciollaro il timore, comprensibile, per il nuovo ruolo da ricoprire ma soprattutto il disagio umano, quasi nascosto, per lo sradicamento da una comunità diocesana, da una parrocchia, da parenti, amici, da contatti umani in loco, da radici estese in molti anni. L’attuale sistema di nomina centralizzato taglia le radici di una vita lunga anni per trapiantarla in un’altra comunità che non si conosce. Qualcuno ha sostenuto che immettere in una diocesi un vescovo che viene da fuori può essere, spesso, come mettere una mucca in un pollaio. O meglio una gallina in un canile.
Il frastuono di una promozione, l’essere posto sul candelabro del potere possono lenire questo disagio umano e spirituale del soggetto ma non per questo vengono annullati i limiti di una procedura giustificata da Intini e Ciollaro, quasi allo stesso modo, con una obbedienza “perinde ac cadaver” (lat. «nello stesso modo di un cadavere»), formula adottata dai gesuiti per esprimere, iperbolicamente, la sottomissione assoluta alla regola e alla volontà dei superiori, con rinuncia alla propria personalità.
Mi chiedo se, nell’attuale situazione della chiesa italiana vescovi che considerino l’obbedienza cieca ad altri vescovi che li hanno scelti sia davvero una virtù. Mi rendo conto che cambiare questo aspetto non è facile perché quando si parla di vescovi si tocca il potere e il potere tenta in tutti i modi di preservare sé stesso e di organizzare la sua impenetrabilità: più resta immobile nella sua forma, più si accresce.
Non mancano coloro che giustificano l’attuale procedura con altri argomenti e, in particolare, con l’assistenza dello Spirito Santo. Si dice: “ci pensa Lui”. E i problemi magicamente sembrano scomparire.
Nel 1974, dopo le dimissioni di mons. Semeraro, in attesa del nuovo vescovo, mons. Armando Franco, allora vicario generale, in occasione di un pellegrinaggio a Roma, si era recato nella sede della Nunziatura apostolica italiana per depositare documenti. Da come era stato accolto aveva capito che non sarebbe stato lui il nuovo vescovo a succedere a mons. Semeraro. Di ritorno da Roma sosteneva, con argomenti inoppugnabili, che prima della nomina di un vescovo lo Spirito Santo non c’entra nulla. La nomina è legata a logiche umane, in qualche caso anche indicibili. Solo con la imposizione delle mani, sosteneva, inizia ad agire lo Spirito Santo. Ma l’argomento non glielo ho più sentito ripetere dopo che, nel 1977, fu nominato vescovo di Melfi. Chi sostiene che lo Spirito non può sbagliare in questi affari, nonostante la fragilità degli uomini, si assume una grave responsabilità nell’affermarlo, visto quante brutte figure, in giro per il mondo, fa fare allo Spirito Santo, anche in questi giorni, con alcuni vescovi e cardinali.
Un discorso approfondito teologicamente, porta non a negare la assistenza dello Spirito che guida ma anche a non dimenticare che lo Spirito agisce su tutta la comunità diocesana e non solo sul suo vertice. Cosa che non può essere invocata quando la nomina prescinde totalmente dalla comunità diocesana.
Un’ultima annotazione a proposito di trasferimenti episcopali.
Il numero elevato di diocesi italiane (227), che la CEI non riesce a ridurre (nonostante le raccomandazioni di Papa Francesco), genera sostanziali differenze tra le diverse diocesi. La diocesi deve essere una realtà grande a sufficienza (popolo, clero, strumenti e beni sufficienti), per poter realizzare i predicati essenziali della Chiesa universale. In Italia non è sempre così ed esistono diocesi più piccole e diocesi grandi, povere e ricche, ben organizzate e male organizzate, esistono sedi vescovili e sedi arcivescovili, in alcune il vertice è stabile fino ai 75 anni, in altre il vertice è di passaggio. E spesso i limiti di guida di una diocesi sono inferiori a quelli di un parroco in una parrocchia (9 anni). Questi spostamenti e trasferimenti “chiesti o imposti” di vescovi, sempre decisi dall’alto, avvicina il ministero più al ruolo di funzionari che a quello di pastori.
La diocesi di Brindisi, da 70 anni e forse più, non ha avuto vescovi di prima nomina: a Margiotta subentrò Semeraro, trasferito da Cariati; a Semeraro, subentrò Todisco, trasferito da Molfetta; a Todisco subentrò Talucci, trasferito da Tursi in Basilicata; a Talucci subentrò Caliandro, trasferito dalla diocesi di Nardò; a Caliandro è subentrato Intini, trasferito dalla diocesi di Tricarico.
Perché questa costante dei trasferimenti? È una diocesi difficile da gestire e ha bisogno di un vescovo esperto? Ma esperto in che cosa? Nella vita amministrativa ed economica di una diocesi o anche nella vita spirituale di tutta la comunità?
Interrogativi a cui è molto difficile rispondere fino a quando rimarrà la attuale nebulosa procedura di nomina vescovile.
Mi scuso per la lunghezza. E ringrazio chi è arrivato alla fine di questo testo.
Questo mio scritto non chiede sottoscrizioni, non è nato per essere pubblicato anche se non ha nulla di segreto. E può essere usato come meglio si crede. È destinato ai 22 amici con i quali ho condiviso una bella esperienza di una lettera aperta che ha avuto un’ampia risonanza, non per i suoi meriti ma perché il problema sollevato è urgente e molto sentito.
12/12/2022
Antonio Greco
[1] https://www.youtube.com/watch?v=TqD9JAGhX1g&t=1802s (dal minuto 27) – 15 dicembre 2016.
[2] https://www.youtube.com/watch?v=4GE7TJ8ETA4 (minuto 4) – 2 aprile 2022