DESMOND TUTU, NONVIOLENTO E MASCHIO CHE NON DISCRIMINA

Maurizio Portaluri

La morte di Desmond Tutu a novant’anni compiuti in questo finire di 2021 è stata accompagnata da una prevedibile ondata di commozione in tutto il mondo per la scomparsa di un personaggio già in vita entrato nella storia mondiale per il ruolo svolto nel superamento del regime di Apartheid nel suo paese, il Sud Africa, e nella successiva pacificazione nazionale. Senza dimenticare che l’arcivescovo anglicano era stato insignito del premio Nobel per la pace nel 1984.

Nel leggere i numerosi commenti apparsi sulla stampa italiana, tutti pieni di riferimenti alle varie attività che hanno caratterizzato la lunga vita di Tutu, alcuni aspetti hanno attirato la mia attenzione per la loro singolarità.

Un primo aspetto riguarda il modo di interpretare il suo essere uomo di religione. Su Nigrizia del 27 dicembre Efrem Tresoldi ha scritto: “A chi lo accusava di fare politica, lui, arcivescovo della Chiesa anglicana, rispondeva: «Non predico un vangelo sociale, predico il vangelo, e basta. È il vangelo di nostro Signore Gesù Cristo che si prende cura di tutta la persona. Davanti alla folla di affamati Gesù non si è chiesto se “stava facendo politica”. Semplicemente li ha sfamati. Perché la buona notizia per una persona che ha fame è il pane…».”

Tutu era anche un uomo profondamente libero, in grado di criticare senza sconti la sua parte politica fino a pagarne le conseguenze. Nel 2011 si scontra frontalmente con l’Anc (African National Congress ndr) che rifiuta il permesso di ingresso in Sudafrica all’amico Dalai Lama, invitato per celebrare l’80° compleanno dell’arcivescovo. Punta il dito contro il governo reo di “essersi inchinato” al potere della Cina, principale partner economico del Sudafrica, che ha posto il veto al leader tibetano. «In passato ho pregato per la caduta dell’apartheid, ora prego per la caduta del governo dell’Anc», le sue parole di durezza senza precedenti mandano su tutte le furie i rappresentanti del governo. Tutu è talmente deluso del partito al governo che nel 2013 dichiara di non essere più disposto a votare il partito erede di Mandela. Forse è stato in risposta a dichiarazioni come questa che i dirigenti del partito non hanno invitato Tutu a prendere la parola al funerale di stato di Nelson Mandela a Qunu nel dicembre 2013”. (Tresoldi E. Nigrizia 27 dicembre 2021).

Il poeta nigeriano Wole Soyinka, amico di Tutu e oppositore nonviolento del regime di Sani Abacha ricorda: «Non tutti hanno compreso lo sforzo per la riconciliazione di Tutu e Mandela, considerandolo troppo lento. Loro erano consapevoli della necessità di tenere insieme il Sudafrica, nonostante le ferite non suturate dalla fine del regime di apartheid». «L’esempio sudafricano ha avuto un tale impatto nel mondo intero da far sì che diversi Paesi ne abbiamo ripreso il modello, importandolo direttamente oppure adattandone le caratteristiche salienti alle rispettive aree di conflitto o di disgregazione sociale». «Quando pensiamo alla religione, per nostra fortuna la mente può rivolgersi a figure come l’arcivescovo Tutu, autentica buona notizia, in continuità con la tradizione degli eroi del clero mai toccati dalle imposture» (Gabriele Santori, Il Messaggero 27 dicembre 2021).

L’esperienza di giustizia riparativa condotta da Tutu all’indomani della fine del regime di Apatheid contiene elementi essenziali e attuali di gestione della violenza non solo razziale, sociale, politica ma anche individuale. Scrive Luigi Manconi il 28 dicembre 2021 su La Stampa: Ma è la Commisione per la verità e la riconciliazione nel Sudafrica del dopo-apartheid che ne costituisce la più importante realizzazione: sia per il grande numero di persone coinvolte sia per il fatto di operare al termine di una crudele guerra civile. E perché la Commissione mirava a ricomporre una forma di unità nazionale dopo una frattura talmente profonda da apparire irreparabile, e dopo sofferenze tanto atroci da essere percepite come non rimarginabili. La Commissione mise vittime e carnefici le une di fronte agli altri, senza mai confondere i rispettivi ruoli e solo dopo che i responsabili avevano riconosciuto le proprie colpe. Eppure, il confronto, certo assai doloroso, consentì di andare alle radici delle cause individuali e collettive, soggettive e sociali delle politiche dell’odio. E permise una qualche proficua interazione tra chi aveva inflitto il dolore e chi l’aveva subito, rispondendo a una pulsione tanto irresistibile quanto rimossa. Quella della vittima che si chiede perché mai sia stato il bersaglio dell’aggressione; e quella del colpevole che si interroga su come sia giunto a oltrepassare il limite estremo”. “Si tratta di un’idea di giustizia che nulla ha di utopico o di profetico: è al contrario un esperimento, per quanto gracile, intelligente e razionale, che affida alla vittima un ruolo di protagonista, sottraendola a due esiti entrambi regressivi: quello del testimone muto del proprio eterno dolore e quello del giudice ultimo, al quale si chiede di indicare l’entità della pena, di valutare l’equità della sentenza, di concedere il perdono o di esigere la vendetta. In entrambi i casi, si torna a una concezione tribale della giustizia, che nega la terzietà incondizionata del giudice, come voluto dal diritto moderno. Con la giustizia riparativa, la vittima può diventare la parte offesa che ricompone, insieme al proprio dolore, la lacerazione inferta al corpo sociale”.

La non violenza per Tutu era un metodo irrinunciabile perché più forte di ogni violenza. Richiedeva più tempo ma tutte le rivolte violente si rivelavano, uno dopo l’altra, infruttuose. Quando nel secondo dopoguerra il National Party prese il potere, la segregazione razziale divenne legge. “Per Desmond Tutu scoccava il momento per scendere in campo. Con un’arma che sembrava incapace di fare male agli oppressori: il dialogo. Il cercare di capire le ragioni di tutti. E anche i torti. Come vescovo aveva più libertà di movimento e di parola. E li usò entrambi. Ogni metro e ogni sillaba per mostrare al mondo il vero volto del suo Sudafrica. Altri come lui avevano ceduto a rabbia e violenza. Uomini come Stephen Biko, la cui protesta aveva provocato solo altra repressione e morte. E una canzone indimenticabile di Peter Gabriel. Nel 1976 la rivolta di Soweto obbligò il mondo a fare i conti con l’emergenza Sudafrica. Tutu da allora ha appoggiato l’embargo economico contro il suo Paese. Il dissenso non violento. Ci voleva pazienza e tenacia. L’importante era non stare a guardare. La neutralità quando in gioco c’è la dignità umana è l’errore più imperdonabile. «Se siete neutrali in situazioni di ingiustizia, avete scelto la parte dell’oppressore. Se un elefante ha la zampa sulla coda di un topo e voi dite che siete neutrali, il topo non apprezzerà la vostra neutralità».” (Carlo Baroni, Corriere della Sera, 27 dicembre 2021)

Si è scritto che Tutu era uomo libero al punto di criticare la sua stessa parte politica quando necessario. Ma era libero anche come uomo di religione. “ Tutu, figlio di una famiglia povera che per studiare aveva dovuto scegliere la strada del seminario, divenne il primo nero vescovo anglicano del Sudafrica. Tutti i suoi predecessori nella cattedrale di Saint Mary erano stati bianchi. Il suo primo atto fu di rifiutare il lussuoso alloggio che gli toccava per la carica nel quartiere ricco. Era la trappola della assimilazione, diventare bianco ad honorem, il momento della dannazione. Era all’interno della contraddizione, prete nero in un regime che era razzista ma insieme cristiano. La compromissione, il peccato che incallisce il cuore, era dappertutto. Uomini di Chiesa e laici per lei si sono dati al demonio”. “Sfuggì alle strettoie di una devozione comoda e grama, chiusa in sé, incapace degli eccessi del Bene, delle grandi imprudenze dei magnanimi. «Ha servito il Vangelo», come ha detto il Papa. Divenne il portavoce dell’uomo che non poteva parlare, chiuso nell’isola da cui doveva, secondo i piani dei suoi carcerieri, uscire solo da morto. Lo minacciarono di espulsione, gli tolsero il passaporto. Tutto inutile. Implacabile, paradossale, irresistibile, cercava il corpo a corpo con il Potere. Erano anime che sapeva buona preda, che fossero i burocrati del potere bianco rantolante o i grandi della terra, da Blair e Bush che voleva processare per la guerra in Iraq a Israele che accusava di apartheid nei confronti dei palestinesi. Il premio Nobel della pace nel 1984 lo mise al di sopra di ogni minaccia, ma non lo consegnò alla imbalsamazione”. (Domenico Quirico La Stampa 27 dicembre 2021)

Uomo contro tutte le discriminazioni: Desmond Tutu non ha mai taciuto di fronte alle discriminazioni. Memorabile fu lo scontro con il presidente dell’Uganda, Museveni, al quale chiese di non promulgare la legge anti-gay che prevedeva l’ergastolo per i recidivi omosessuali: legiferare contro l’amore tra adulti consenzienti evoca il nazismo e l’apartheid, urlò, aggiungendo: «Non esiste alcuna dimostrazione scientifica che giustifichi i pregiudizi e la discriminazione e neanche alcuna giustificazione morale: la Germania nazista come il Sudafrica ne sono un esempio». “Si è persino arrabbiato platealmente con Papa Francesco quando si rifiutò di incontrare il Dalai Lama a Roma, durante un summit dei premi Nobel per la pace. «Sono rattristato e sconvolto che il Papa abbia ceduto alle pressioni di Pechino».“ (Franca Giansoldati, Il Messaggero 27 dicembre 2021).

Fu persino profetico nello scorgere in largo anticipo le conseguenze dei cambiamenti climatici: È stato anche uno dei primi leader religiosi, oltre vent’anni fa, ad aderire convinto alla campagna sul cambiamento climatico, consapevole che il riscaldamento terrestre stava già facendo parecchi danni in Africa, provocando i primi migranti climatici, gente obbligata dalla desertificazione a fare fagotto e trasferirsi senza nulla”. (F. Giansoldati, idem)

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