Paolo Ricca
Pubblichiamo una parte dell’introduzione al Lezionario “UN GIORNO UNA PAROLA” 2021, casa editrice CLAUDIANA, Torino, che in quel libro porta il titolo IL CORONAVIRUS E LA CHIESA, a firma di Paolo Ricca, pastore della Chiesa Valdese con una lunga attività come professore di Storia della Chiesa nella Facoltà Valdese di Teologia a Roma. La pandemia ha permesso l’emersione di tre “ambiti nei quali la «convivenza con il virus», com’è stata chiamata, e le sue conseguenze possono aver generato in noi una nuova sensibilità, o quanto meno maggiore attenzione: l’esperienza della «chiesa invisibile», quella della «chiesa domestica», e la questione dell’«essenziale cristiano».”
È logico supporre che nel prossimo futuro, e forse anche in quello lontano, l’anno 2020, che sta ormai alle nostre spalle, sarà ricordato come l’anno del Coronavirus e della pandemia che questo virus (di cui quasi tutti ignoravamo anche l’esistenza) ha generato, in misure variabili, in tutti i continenti del nostro pianeta. È forse la prima volta che abbiamo preso chiara coscienza che il mondo nel quale oggi viviamo è effettivamente un «villaggio globale», i cui abitanti – ferme restando le enormi differenze e soprattutto disuguaglianze che esistono tra loro – condividono, nel bene e nel male, lo stesso destino. Piaccia o dispiaccia, siamo davvero tutti sulla stessa barca… Il Coronavirus – come tutti sappiamo bene – ha condizionato profondamente la nostra esistenza quotidiana, imponendoci, tra le altre cose, una clausura generale e prolungata che non avevamo mai sperimentato, ed esigendo da noi, una volta ridiventati liberi di uscire all’aria aperta, di mantenere le famose distanze di sicurezza, diventate improvvisamente una sorta di salvagente individuale e sociale, Per tutelare la salute propria e degli altri. Ma la distanza è anche, fatalmente, la nemica (sia pure involontaria) di ogni vera relazione, che nasce e si nutre di vicinanza, tanto più che si circola disciplinatamente mascherati, con quella specie di niqab salvavita, diventato moralmente obbligatorio, che, nascondendo il volto del prossimo (che non è più affatto prossimo, anche se è solo a un metro o due di distanza), lo rende irriconoscibile, e quindi infinitamente lontano. In questo senso, il distanziamento e la mascherina (il diminutivo «mascherina» ingentilisce l’oggetto, ma non cambia la sostanza) rendono immancabilmente qualunque prossimo, l’altro che incontri per strada (meglio però se non lo incontri), un potenziale pericolo per te, e tu un potenziale pericolo per lui. E dunque «da evitare» il più possibile, proprio come, in tempi lontani per fortuna tramontati, era considerato l’«eretico»: in Italia il peggiore di tutti era considerato il Valdese, e perciò dichiarato, nel latino della (santa) Sede Romana, vitandus, «da evitare», cioè, appunto, da non avvicinare, perché costituisce un pericolo mortale per la tua anima. Oggi, chiunque altro che percorre la tua stessa strada e nel quale ti imbatti è l’«eretico» da evitare, il potenziale pericolo mortale per la tua salute (e tu per la sua). Certo, lo sappiamo, e ce lo ripetiamo ogni giorno per non dimenticarlo: tutto questo è necessario per evitare o almeno arginare la diffusione del virus. Quindi così sia, perché così ha da essere. Ma ci dobbiamo rendere conto che il prezzo che stiamo pagando, forse senza neppure accorgercene, in termini di perdita di qualità della relazione umana fondamentale Io-Tu, è molto alto. Ma il Coronavirus ha modificato anche la nostra esistenza come chiesa. Categorie teologiche e, prima ancora, dimensioni spirituali dimenticate o mai veramente vissute (anche se teoricamente affermate) si sono di nuovo affacciate al nostro animo e siamo stati indotti, forse per la prima volta, a prenderle sul serio e, forse, a comprenderne e apprezzarne il valore. Così, ad esempio, può darsi che, essendo stati vietati tutti gli «assembramenti», e quindi anche i culti pubblici di tutte le religioni, qualche cristiano si sia chiesto se il «culto in Spirito e verità» che Gesù, conversando con la Samaritana, attribuisce ai «veri adoratori» di Dio (Giovanni 4,23-24) debba necessariamente essere pubblico, con la Comunità riunita in uno stesso luogo a un’ora convenuta, o non possa anche essere altrettanto autentico se si svolge, come ancora dice Gesù in un altro discorso, «nella tua cameretta», senza altare e senza pulpito, senza prete e senza pastore, solo, ma non solitario, al contrario in comunione con tutti perché in comunione con il Padre di tutti, che è sopra tutti, fra tutti e in tutti, e che «è nel segreto» e «vede nel segreto» (Matteo 6,6). Ma sono soprattutto tre gli ambiti nei quali la «convivenza con il virus», com’è stata chiamata, e le sue conseguenze possono aver generato in noi una nuova sensibilità, o quanto meno maggiore attenzione: l’esperienza della «chiesa invisibile», quella della «chiesa domestica», e la questione dell’«essenziale cristiano». Consideriamoli brevemente uno dopo l’altro.
- La chiesa invisibile. La chiesa – lo sappiamo – è visibile, visibilissima. Una volta molto più di oggi. Nel Medioevo, nel profilo di una città o di un villaggio spiccava, per la sua altezza, il campanile della chiesa, che era la costruzione più alta di tutte, il grattacielo dell’epoca: impossibile non vederlo! Oggi tutto è cambiato: molte chiese non hanno più né campanile né campane, sono sempre meno visibili e udibili. Comunque, con o senza campanile, la chiesa è visibile perché è fatta, sì, di anime, ma anche e altrettanto di corpi – uomini e donne in carne e ossa. La chiesa è visibile perché è un corpo, il corpo di Cristo, cioè «la forma propria della sua esistenza terrena e storica» (Karl Barth), un vero corpo, «ben collegato e ben connesso, mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture» (Efesini 4,16), quindi ben visibile. Tanto che Gesù può affermare: «Chi ha veduto me, ha veduto il Padre» (Giovanni 14,9). Anche il corpo risorto di Gesù era visibile, benché non riconoscibile. Era sempre Gesù, ma «totalmente altro». Eppure era sicuramente Gesù, perciò Maria Maddalena si lanciò verso di lui per abbracciarlo, tanto lo amava. Dunque la chiesa, corpo di Cristo, è visibile. Ma al tempo del Coronavirus è diventata invisibile, perché sono stati vietati gli «assembramenti», e la chiesa è, appunto, un «assembramento», un insieme di «membra» che si riuniscono e formano una «assemblea». Ma un’assemblea che non si riunisce diventa inevitabilmente invisibile. Siamo diventati invisibili senza volerlo, anzi talvolta protestando (a torto! e con discorsi che non stavano né in cielo né in terra). Sarebbe stato molto meglio invitare la chiesa a riflette e sul possibile guadagno che questa esperienza inedita poteva procurarci. In che senso? Nel senso che era l’occasione propizia per prendere coscienza del fatto che la chiesa è, sì, visibile, ma la sua verità è invisibile: infatti la sua verità è lo Spirito Santo, invisibile come il vento; è la Parola, in visibile come Dio; sono fede, speranza, amore, tutte «cose che non si vedono» (II Corinzi 4,18), sulle quali dobbiamo posare il nostro sguardo. La chiesa, dice molto bene Lutero, è «una assemblea dei cuori», che, certo, stanno nei corpi, ma non è guardando i corpi che tu vedi i cuori. L’improvvisa e inattesa invisibilità della chiesa era l’occasione propizia per riflettere sulla sua verità segreta, come Dio che – lo abbiamo appena ricordato – è anche lui «nel segreto». C’è da chiedersi se l’occasione sia stata colta o non sia piuttosto stata sprecata.
- La chiesa domestica. Lo sapevamo e ce lo siamo detto e ripetuto: la prima forma di esistenza della chiesa è stata quella domestica, riunita in case private. Oggi anche queste riunioni sono ancora vietate perché evidentemente, secondo il Governo, i fratelli e le sorelle di chiesa non sono «Congiunti»: la parentela spirituale non conta. Resta però il fatto che il grande e unico comandamento del tempo del Coronavirus è: «Restate a casa!» e questo richiamo non può non farci tornare in mente il fatto che proprio in casa si sono costituite e hanno cominciato a vivere le primissime comunità cristiane del secolo apostolico. Abbiamo sempre amato espressioni come queste: «Salutate la chiesa che si riunisce in casa loro» di Priscilla e Aquila (Romani 16,5); «Gaio, che ospita me e tutta la chiesa, vi saluta» Romani 16,23); «Salutate […] Ninfa e la chiesa che è in casa sua» (Colossesi 4,15); «Paolo […] alla sorella Apfia, ad Archippo, nostro compagno d’armi, e alla chiesa che si riunisce in casa sua» (Filemone 2). Le abbiamo amate, queste espressioni, per due ragioni maggiori. La prima è che l’Evangelo apre i cuori e quindi anche le case, che diventano aperte e accoglienti. L’ospitalità è stata un tratto caratteristico dei primi cristiani, sull’esempio del loro padre Abramo che, nella persona di tre «uomini» (Genesi 18,2.16), ospitò Dio stesso, e come segno di gratitudine per l’ospitalità di Dio, che ci accoglie alla sua presenza, e di Gesù, che ci accoglie alla sua mensa. La seconda ragione è che Dio abita nei cuori più che in basiliche o templi, dato che – anche questo lo sappiamo – «il tempio di Dio siete voi» dice l’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto, anzi «il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo, che è in voi» (I Corinzi 3,16; 6,19). La nostra verità non sta nel chiuso di qualunque cattedrale, ma all’aria aperta, sulla collina del Golgotha, appesa a una croce, ora però risorta, vivente e regnante nei secoli dei secoli, alla destra di Dio. Essa abita ora dovunque sia cercata, creduta, amata, custodita e praticata. Ecco perché i primi cristiani si trovavano perfettamente a loro agio, per il culto, tanto nel Tempio di Gerusalemme quanto nelle loro case: sapevano infatti che, comunque, il tempio erano loro. Dopo la distruzione del Tempio a opera dei romani nel 70 d.C., l’unico tempio cristiano fu la casa. Il programma imposto al virus «lo resto a casa» avrebbe potuto e potrebbe ancora risvegliare la memoria felice della «chiesa domestica», della casa come chiesa, che fu un’esperienza cristiana rivoluzionaria rispetto alla tradizione religiosa pagana. Potrebbe darsi che la situazione odierna della cristianità rassomigli a quella del I secolo più che a qualunque altro secolo della storia cristiana. Se così fosse, non ci sarebbe da stupirsi se la forma «domestica» della chiesa riacquistasse una sorprendente attualità. È vero che l’espressione «Chiesa invisibile» è stata da qualcuno messa in discussione nel timore, forse, che potesse essere fraintesa come se significasse «chiesa irreale», o «chiesa che vive sulle nuvole», o che, ricorrendovi con insistenza, la realtà della chiesa finisse per volatilizzarsi. Timori comprensibili, ma infondati e del tutto inconsistenti. Se poi qualcuno temesse di dimenticare che i cuori stanno tutti in altrettanti corpi e che questi sono vivi e vegeti, può sempre ricorrere a Skype o Zoom o ad altri analoghi sistemi e vedere, se non i corpi, per lo meno i volti di altri membri di chiesa riuniti per culti virtuali oppure udire la loro voce per telefono. Tutte cose ottime, che la tecnologia moderna consente e che dobbiamo essere grati di poter praticare. Ma sappiamo bene che tra il virtuale e il reale c’è una differenza sostanziale: vedendoci, abbiamo l’impressione di essere vicini, e in un senso lo siamo, ma al tempo stesso restiamo irraggiungibili gli uni per gli altri, e in questo senso siamo lontanissimi. Lo schermo del computer o del cellulare miracolosamente ci unisce e inesorabilmente ci divide. Aspettiamo dunque con una certa trepidazione il passaggio dall’attuale visibilità virtuale della chiesa alla sua visibilità reale, senza però dimenticare che la verità della chiesa reale visibile è invisibile.
- Essenziale cristiano. Essendo stati vietati non solo i culti pubblici, ma anche battesimi, matrimoni e funerali e ogni tipo di riunione, essendo state cancellate tutte le funzioni liturgiche e cultuali, tutte le attività culturali, tutti i catechismi e i corsi di formazione, tutte le numerose altre iniziative che implicano la partecipazione di più persone, compresa la preghiera comunitaria, la cura d’anime e, in generale, le visite pastorali che esigono un rapporto ravvicinato tra le persone (le uniche attività pastorali possibili sono la predicazione in video e le telefonate), essendo quindi in sostanza stata azzerata o quasi l’intera vita della chiesa, di solito assai ricca e varia, è comprensibile che siano sorte in qualcuno domande come queste: ma una chiesa che, per superiori e inderogabili ragioni sanitarie, non può più fare nulla, o quasi, di ciò che le è proprio, ed è perciò come morta, che cos’è? È ancora una chiesa? Che cosa le permette di considerarsi ancora tale? Che cosa fa, di un gruppo, grande o piccolo, di uomini e donne di tutte le età, una chiesa? Che cosa è essenziale a una chiesa per essere chiesa? Qual è dunque, propriamente, l’essenziale cristiano? La risposta a questi interrogativi non è difficile: “Tutta la vita e la sostanza della chiesa sta nel la Parola di Dio» (Lutero). Certo, «Parola di Dio» vuol dire tante cose: Legge ed Evangelo, promessa e adempimento, giudizio e perdono, preghiera e azione, sapienza e profezia, croce e risurrezione, incarnazione e trasfigurazione, ubbidienza e libertà, trasgressione e conversione, peccato e giustificazione, elezione e santificazione, persona e comunità, guerra e pace, alienazione e riconciliazione, silenzio e canto, tribolazione e felicità, sconfitta e vittoria, lotta e concordia, conflitto e alleanza, unità e separazione, vita e morte, nascita e rinascita, questa vita e quella futura, e ancora tante altre, tutte le cose di Dio e del mondo, del cielo e della terra, tutto si trova nella Parola di Dio, scritta in primo luogo «non con carta e inchiostro» (Il Giovanni 12), ma con lo Spirito Santo nella carne viva, cioè nella storia unica del popolo ebraico e in quella di Gesù di Nazareth e dei primi seguaci della «nuova Via» (Atti 19,9.23), e raccolta nel corso di circa mille anni nei 66 libri della Bibbia, 39 dell’Antico Testamento, 27 del Nuovo. La Bibbia è il campo nel quale si trova il tesoro nascosto della Parola di Dio, ed è lei, questa Parola, l’essenziale cristiano, perché è lei che genera la fede, come dice l’apostolo Paolo: «La fede vien dall’udire, e l’udire si ha per mezzo della parola di Cristo» (Romani 10,17), ed è lei che cambia la vita così da indurci a impostarla e spenderla come servizio al prossimo (anziché come servizio a noi stessi), come dice Gesù: «Il Figlio dell’uomo [cioè Lui] non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti» (Marco 10,45), come hanno fatto 155 medici, molte decine di infermieri e di altro personale sanitario che fino a oggi (8 maggio 2020) sono morti cercando di strappare alla morte le vittime del virus. Ecco dunque la risposta: fede e servizio al prossimo sono l’essenziale della vita cristiana e quindi della chiesa, che non ha altra ragion d’essere che questa: predicare la fede e praticare il servizio al prossimo, ma sia la fede sia il servizio sono frutti della Parola di Dio, che dunque è la madre della chiesa. Non è un caso che la (più volte) chilometrica esposizione della fede cristiana intrapresa nel secolo scorso da Karl Barth con la sua Dogmatica ecclesiale (12 poderosi volumi per un totale di 8953 pagine!), che Eberhard Busch, suo discepolo, biografo e fedele interprete, ha felicemente descritto come «un Magnificat perenne», prenda le mosse da due grossi volumi iniziali (1504 pagine!) dedicati unicamente alla Parola di Dio. Tutto comincia lì, tutto finisce lì, o meglio nulla finisce lì, tutto continua e finisce in Dio. E lei l’arca di Noè, dove trovi rifugio e salvezza tanto nel tempo della prova quanto nei giorni felici della vita. È lei che ti accompagna per le strade spesso impervie e accidentate, come pure in quelle piane dell’ esistenza. È lì che impari a sillabare l’alfabeto cristiano, è lì soltanto che nasci e cresci come uomo o donna di fede. È quello l’unum necessarium (= l’unica cosa necessaria), «la buon parte» di cui parla Gesù e che Maria, sorella di Marta aveva scelto (Luca 10,42). É lì che imparai a pregare, forse anche a piangere come Pietro (Marco 14,72). E lì che conoscerai. E lì che conoscerai meglio i misteri del cuore umano, ma soprattutto «le cose profonde di Dio» (I Corinzi 2,10). Nella Bibbia troverai decine di migliaia di parole, ma te ne basta una sola, e sarai salvo. «Di’ solo una parola», chiede il centurione romano a Gesù «e il mio servo sarà guarito» (Matteo 8,5). Una parola! Una sola! Niente! Quel niente è tutto. Quel «niente che è tutto, è l’essenziale cristiano, la vita e la sostanza della chiesa.