Dipinto di Safet Zec*
Questo quadro è esposto nella chiesa monastica di Bose (Biella), sopra la vasca dell’acqua sorgiva, ed è accompagnato da queste parole:
«Questa Deposizione del maestro Safet Zec è una grande memoria di un gesto umanissimo che sta tra morte e seppellimento. Zec attornia quel corpo morto con l’amore fedele di chi lo discende dal patibolo, lo scioglie dalle corde, lo sorregge e lo abbraccia. È un atto pieno di tenero e fortissimo amore, dolente ma senza ostentazione del dolore. Deposizione o ultimo abbraccio? Le braccia, le mani dell’amico-memoria di tutta l’umanità compassionevole – assecondano il corpo dell’uomo deposto, sorreggono il suo capo e il busto perché resti sempre composto.
Immagine che rimane per sempre, chiede il ripudio di ogni guerra e denuncia il dolore della povera gente. Ma anche richiamo del mistero dell’umanizzazione di Dio: un Dio che si è fatto carne fragile e mortale fino a condividere con noi la condizione umana, la sofferenza, la morte. Un’icona che è confessione di fede radicale nell’incarnazione di Dio».
Il critico d’arte Tomaso Montanari commenta:
“Esistono artisti ancora capaci di rappresentare il corpo umano e insieme di farcelo sentire sacro. Safet Zec è tra questi: e non si riesce a non pensare che la sua arte sia stata affinata, come l’oro nel crogiuolo, dalla guerra che ha massacrato la carne viva della sua Bosnia. Della Sarajevo dove studiò, e divenne artista.
Forse è per questo che la carne dei suoi quadri è carne viva, e carne sacra. Tanto che i suoi quadri vivono nella liturgia, come è accaduto per secoli alle grandi opere d’arte che oggi languono nei musei: dove nessun ginocchio, lamentava già Hegel, è più capace di piegarsi, nemmeno davanti alla loro bellezza” (in “Venerdì” 6 dicembre 2019).
La conclusione è folgorante:
“Un’immagine della morte che è una potentissima contestazione della morte: e per questo sacra non alla religione, ma alla nostra comune umanità”.
20 marzo 2020
Antonio Greco
* Safet Zec è nato in Bosnia nel 1943, ultimo di otto figli di un calzolaio. Si forma alla Scuola superiore di arti applicate di Sarajevo e all’Accademia di Belgrado è considerato quasi un prodigio. Con lo scoppio della guerra, il mondo in cui Zec è cresciuto, di armoniosa convivenza tra persone di diverse culture e religioni, è sconvolto. Pocitelj, vicino a Monstar, dove vive con la moglie Ivana, viene distrutta. E, con essa, tutte le opere incisorie del pittore. Morte e distruzione a Sarajevo lo costringono a fuggire con la famiglia.
Nel 1992 è a Udine dove ricomincia a lavorare, per poi giungere a Venezia nel 1998. Dalla fine del conflitto l’artista ha ripreso un’assidua frequentazione con la sua terra. Nel cuore di Sarajevo, lo Studio-collezione Zec è stato riaperto ed è ora un centro di iniziative culturali, oltre che sede espositiva delle sue opere. La sua casa-studio di Pocitelj, ora restaurata, ospiterà una scuola di grafica. E’ autore anche di un’altra bellissima deposizione, commissionata dai Gesuiti per l’altare della cappella della Passione della Chiesa del Gesù a Roma e benedetta da Papa Francesco il 27 settembre 2014.
Certamente profonda l’immagine che raccoglie la morte che ha contenuto la vita. Un simile che ricompone ciò che resta della vita per dare alla vita la memoria del vivere. L’artista della figura compone con colori ciò che le parole non saprebbero dire. La scultura e la pittura ne fanno memoria, entrambe escono dall’arte per rientrare con l’arte nella memoria che resta in chi guarda per farne sale di sapere.
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