Antonio Greco
“Dio, certe volte non si riesce a capire e ad accettare ciò che su questa terra i tuoi simili si fanno l’un l’altro, in questi tempi scatenati. Ma non per questo io mi rinchiudo nella mia stanza, Dio: continuo a guardare le cose in faccia e non voglio fuggire dinanzi a nulla, cerco di comprendere i delitti più gravi, cerco ogni volta di ritrovare la traccia dell’uomo, nella sua nudità, nella sua fragilità; di quest’uomo che spesso è diventato irriconoscibile. Sepolto tra le rovine mostruose delle sue azioni insensate” (Etty Illesum, 1943).
Questa riflessione, anche di speranza, di Etty è autentica e credibile perché scritta in un campo di concentramento nazista, liberamente scelto, prima di morire.
Dal mio piccolo mondo ovattato e tranquillo, però, non riesco a formulare auguri di Pasqua dopo i drammatici fatti (europei e mondiali che sfuggono al clamore dell’informazione!) di una settimana che per ragioni rituali, noi cattolici, continuiamo a chiamare “santa”.
La Pasqua biblica è liberazione dalla schiavitù politica dell’Egitto, è l’esodo da una terra di oppressione, è il passaggio dalla morte alla vita. Un mito, un sogno, una speranza?
E’ Pasqua se è accompagnata da uno scossone: “uno scossone di quelli che potrebbero fare epoca, perché sono convinto che non basti un Papa, neppure se si chiama Francesco, a modificare dal profondo stili e procedure che si perdono nella notte dei tempi. Occorrerebbe chiudere le chiese per non meno di cinque, dieci, vent’anni, motivando la scelta per fallimento e per restauro” (Paolo Farinella, in “la Repubblica” – Genova – del 20 marzo 2016).
E’ Pasqua se la nostra angoscia per questo terribile momento storico non ci toglie la gioia di una speranza, non rituale né retorica, e l’impegno concreto verso un mondo che non soffochi la libertà e la giustizia per i singoli e i popoli.
23 marzo 2016