LA LETTERA SULLA NOMINA DEI VESCOVI: UN ATTO “CONCILIARE”

Col titolo IL CONCILIO E LA TIMIDEZZA NELLE SCELTE DETERMINANTI, il Nuovo QUOTIDIANO di Puglia ha pubblicato il 17 ottobre 2022 il seguente articolo di Fulvio De Giorgi, professore ordinario di Storia dell’educazione all’Università di Modena e Reggio Emilia e presidente della Società Italiana degli storici dell’educazione.

Fulvio De Giorgi

Nei giorni in cui si ricorda il sessantesimo anniversario del Concilio Vaticano II, un gruppo di battezzati e battezzate della Chiesa di Brindisi-Ostuni ha fatto un atto “conciliare”. Cioè non ha commemorato con celebrazioni di rito o con articoli omiletici e retorici quel grande evento dello Spirito, ma ha agito con stile conciliare: non parole sul Concilio, ma parole da figli e figlie del Concilio, camminando sulle vie del Concilio e per vivere veramente l’ecclesiologia conciliare. Ne è nata una Lettera che hanno scritto al Papa, che ha un valore almeno nazionale. A firmarla non sono giovani sprovveduti, ma donne e uomini maturi che, proprio fin da giovani, si sono impegnati nella Chiesa locale e sono perciò ben noti a chi conosca non superficialmente le vicende dei cattolici salentini dal Concilio ad oggi. Non a caso essi richiamano la evangelica figura di Tonino Bello: il simbolo incarnato di quanto di meglio le Chiese pugliesi hanno realizzato in termini di pastoralità secondo il Vaticano II. A fianco del grande vescovo salentino è pure idealmente presente (anche se non lo citano esplicitamente) la figura del laico Michele Di Schiena, che tanto si è impegnato per radicare il Concilio nel popolo cristiano salentino.

Che cosa, dunque, scrivono questi laici e laiche nella loro Lettera? A partire dalla contingenza della vicina nomina di un nuovo Arcivescovo per la diocesi di Brindisi-Ostuni, prendono la parola per esprimere – praticando la sinodalità e non solo parlandone – i loro voti sulle caratteristiche che, secondo la loro visione conciliare, sono richieste al nuovo Pastore e che, perciò, ne dovrebbero guidare la scelta. Non indicazioni di nomi, dunque, ma di criteri di discernimento. È una richiesta tanto responsabile e non velleitaria, quanto normale (normale ovviamente in una Chiesa che viva il Vaticano II: se non appare normale vuol dire che non siamo in presenza di una Chiesa conciliare). Normale e, direi, molto moderata (il “minimo sindacale”, per esprimersi in maniera irrituale). È chiaro, comunque, che il problema più ampio che, con questa Lettera, essi richiamano e pongono riguarda le modalità di scelta dei vescovi nella Chiesa cattolica. Si tratta di una delle “cinque piaghe” della Chiesa, indicate nell’Ottocento (quasi duecento anni fa!), dal Beato Antonio Rosmini, allora condannato per la sua franca audacia, ma poi visto come un profeta anticipatore del Vaticano II, recentemente beatificato da papa Ratzinger e al quale anche papa Francesco si è più volte richiamato. Rosmini suggeriva di ispirarsi all’antica pratica della Chiesa dei primi secoli con l’elezione dei vescovi da parte di clero e popolo. Dopo il Concilio si è ripresa questa proposta di Rosmini e la discussione è continuata, con alti e bassi, fino ai nostri giorni.

Al di là del riferimento storico ai primi tempi delle comunità cristiane (grosso modo dalla predicazione di Gesù all’editto di Costantino), è evidente che, nel XXI secolo, in questo cambiamento d’epoca (e non solo epoca di cambiamenti) che stiamo vivendo, una riflessione e un cambiamento istituzionale, anche su questo aspetto, siano necessari e urgenti per la Chiesa cattolica, anzi sono già in grave ritardo. Non è il caso, dunque, di essere “moderati”: ci vogliono più coraggio e più radicalismo evangelico. E non si possono rimandare decisioni di cambiamento radicale.

Nel regime di cristianità, e limitiamoci all’ultimo periodo, dall’inizio dell’età moderna al Novecento, quando cioè si era in presenza di una società che si pensava tutta cristiana, i capi politici (imperatori, re, principi, governi, ministri) si ingerivano – in quanto si ritenevano detentori di un dovere/potere “cristiano” nei confronti della Chiesa – nella vita ecclesiale interna e condizionavano (o imponevano) la nomina dei vescovi. Per uscire da questa “piaga” si potevano seguire due vie, ciascuna analogicamente parallela ai due differenti processi in atto di modernizzazione del potere politico: o la via della centralizzazione di tipo bonapartistico o la via della partecipazione democratica. La prima è la via che si è effettivamente seguita (con il passaggio fondamentale del 1917, quando fu promulgato un Codice di tipo napoleonico per regolare il diritto canonico), centralizzando tutto il potere nel papa e nella Curia romana. La seconda era la via a cui pensava Rosmini.

Tra le due guerre mondiali poi, in presenza della sfida mortale alla Chiesa che veniva dai regimi totalitari (soprattutto dal nazismo di Hitler e dal comunismo di Stalin, ma più sottilmente e nonostante i Patti Lateranensi anche dal fascismo, sempre più nazificato), anche la Chiesa assumeva, arroccandosi sulla difensiva, una forma totalitaria, con i pontificati di Pio XI e di Pio XII. Ma, dopo la caduta del fascismo e del nazismo, e con l’avvento di regimi democratici, questa struttura istituzionale centralizzata della Chiesa, che permaneva, creava disagio e produceva dinamiche contraddittorie. Il Concilio Vaticano II ha avviato il superamento del totalitarismo ecclesiale. Ma il processo ha avuto alti e bassi, non si è ancora compiuto e l’anacronismo (esistenziale prima ancora che istituzionale) di alcune permanenze totalitarie appare sempre più stridente e incomprensibile per le nuove generazioni. Poteva ancora essere accettato in presenza del comunismo. Ma dopo il crollo dell’Urss non si giustifica più. Anzi la Chiesa cattolica rischia di essere percepita – in modo esagerato, ma non completamente a torto – come l’ultimo dei totalitarismi. Fuori tempo massimo.

La lettera del gruppo brindisino, dunque, portando l’attenzione su uno dei più urgenti punti di necessario cambiamento, offre un grande servizio alla Chiesa cattolica. Forse ancora troppo moderato, per le necessità storiche. Ma forse fin troppo audace, per l’attuale timidezza (almeno a quel che appare) di gran parte del cattolicesimo italiano.

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