Michele Di Schiena
La tragica proliferazione in Europa e nel mondo di efferati attentati ed eccidi orgogliosamente rivendicati dall’Isis, forse anche come contromisura rivolta a mascherare i rovesci militari subiti in alcuni territori occupati, ha dato nuovo slancio al motto “siamo in guerra”, un vero e proprio grido di battaglia fondato sulla tesi che per fermare la criminale follia islamista non ci sia altra via che quella di reagire con la cultura, la strategia e le operazioni proprie dei conflitti bellici. Saremmo quindi di fronte ad una guerra contro l’Occidente da parte dell’Islam per colpire la sua storia e la sua cultura e dell’Occidente per difendere i “valori” e “lo stile di vita” che questa parte del mondo rappresenta. Una guerra che, proprio per la sua natura, si caratterizzerebbe per uno “scontro di civiltà” fra la concezione religiosa e politica della vita personale e sociale di matrice islamica ed il modo di pensare e di vivere di quell’Occidente che, pur essendo il frutto di filosofie e rivoluzioni assai diverse, non può non dirsi cristiano almeno nel senso dato a questa qualificazione dallo storicismo agnostico di Benedetto Croce.
Rischia quindi di fare ritorno, con i suoi sinistri bagliori, l’idea del ricorso alla guerra per tutelare l’identità della nostra cultura dagli attacchi di quella islamica. Una scelta sbagliata e capziosa come dimostrano alcuni incontrovertibili argomenti: la frequenza e la gravità degli attentati in danno dei “fratelli” di fede musulmana che sono largamente maggiori (a fronte di una minore attenzione mediatica) di quelle registrate per gli atti terroristici contro l’Occidente; le indagini ex post sulla vita e la storia di molti attentatori che mettono in luce l’assenza in costoro di qualsiasi apprezzabile esperienza di fede; le dichiarazioni e gli appelli delle autorità religiose del mondo cristiano e di quello musulmano che denunciano come falsa e strumentale l’etichettatura religiosa del terrorismo. Assunto quest’ultimo che ha trovato in questi giorni piena conferma nelle ferme parole del Papa secondo il quale “non è giusto identificare l’Islam con il terrorismo” nonché nella numerosa partecipazione in Italia e in Francia di Imam e fedeli musulmani alle celebrazioni rituali nelle chiese cattoliche in accoglimento dell’iniziativa promossa dall’autorità islamica francese dopo l’uccisione di padre Jacques Hamel.
Ha ragione allora Papa Francesco quando respinge l’idea di una guerra di religione. Egli parla, è vero, di guerra ma lo fa per denunciarne la immane iniquità e per sollecitare i governi, le politiche e tutti gli uomini ad adoperarsi per farla subito cessare. Una guerra “a pezzi”, tanto in senso cronologico quanto in senso geografico, perché si combatte a tratti e in diversi scenari geopolitici. “Non è una guerra di religione – dice il Pontefice – è invece una guerra di interessi, per i soldi, per le risorse della natura, per il dominio dei popoli”. Il Papa non si limita quindi a contestare la matrice religiosa del terrorismo. Egli fa molto di più: indica la vera causa di quel “conflitto a pezzi” che sta insanguinando il mondo parlando di scontri originati da una sfrenata cupidigia di denaro e di ricchezze e da una smisurata fame di potere e di dominio.
Parole, quelle del Papa, che vanno inquadrate nella più vasta e organica riflessione del Pontefice sulle condizioni socio-politiche dell’intero pianeta: la denuncia di una “cultura” dello scarto e di una economia “della esclusione e della iniquità”, una economia “che uccide” e condanna al rifiuto di “grandi masse senza lavoro, senza prospettiva, senza via di uscita”. Un grido di dolore e un’apertura alla speranza che si stanno facendo strada nel cuore e nella mente di milioni di uomini i quali, in modo diverso e con diversi stati d’animo, chiedono un radicale cambiamento. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e così si spiega il fatto che nei palazzi dei governi e nei quartieri alti della politica e dell’economia ottengono scarso ascolto, talvolta diplomaticamente condito con qualche rituale quanto sterile apprezzamento, le parole di quanti indicano nel sistema economico e sociale dominante la causa principale delle guerre, dei terrorismi e delle violenze che mai come oggi si presentano con il loro tragico volto così diffusamente anche in forme del tutto inedite.
Resta il fatto che la disuguaglianza economica ha raggiunto livelli estremamente elevati che la rendono eticamente inammissibile se è vero come è vero che l’1% della popolazione possiede quasi la metà della ricchezza mondiale mentre 3,5 miliardi di persone vivono in condizioni di povertà e quasi 1 miliardo di uomini soffrono per sottonutrizione rischiando la vita. Qual è allora la vera partita che si sta giocando nel mondo? Non certo quella della guerra tra religioni o dello scontro di civiltà che si appalesano piuttosto come diversivi rivolti a distogliere l’attenzione dal grande scandalo per il quale una esigua minoranza dell’umanità, di cui indubbiamente fanno parte i vertici dell’estremismo jiadista carichi di denaro e assetati di supremazia, riesce per bramosia di beni e di potere a tenere sotto scacco la stragrande maggioranza degli uomini.
In un suo recente saggio (2014, G. Laterza e figli) il sociologo Marco Revelli afferma, facendone il titolo della sua pubblicazione, che “la lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi” e lo fa mettendo in rilievo che le disuguaglianze continuano a crescere, che la crisi economica è gravissima e che lo stato ambientale del pianeta continua a peggiorare. Il riferimento di Revelli alla lotta di classe (una scelta dell’autore presumibilmente suggerita dalla valenza suggestiva dell’espressione) può sembrare a molti improprio perché è difficile considerare “classe” la stragrande maggioranza dell’umanità. Ma non vi è dubbio che lo studio di Revelli fotografa una drammatica realtà e mette fondatamente sotto accusa l’intero impianto dell’ideologia neoliberista. Per combattere davvero il terrorismo islamista occorre allora un articolato progetto fondato non sullo slogan “siamo in guerra” ma sulla idea-forza per la quale la pace è un obiettivo di vitale importanza per il futuro dell’umanità che si può raggiungere solo costruendo una società più libera, più solidale e più giusta.
Se si guardano in questa ottica gli eccidi e le violenze del nostro tempo si comprende quanto sia necessario rilanciare il ruolo dell’Onu, non solo come condizione necessaria per assicurare una coordinata direzione di tutte le operazioni di polizia rivolte a combattere il terrorismo ma anche come esigenza di affidare alla massima autorità internazionale il compito di mettere in cantiere, in linea con le finalità del suo Statuto, un piano di aiuti economici e finanziari in favore dei paesi in sofferenza per le conseguenze della povertà e delle guerre. Una sorta di quel piano Marshall più volte evocato, una idea che sembra incontrare crescenti consensi fra i quali quello dello scrittore e saggista israeliano Amos Oz secondo il quale “un nuovo piano Truman-Marshall per il mondo islamico darebbe forza e coraggio ai musulmani moderati che sono l’unica forza al mondo davvero capace di combattere i fanatismi musulmani”.