ARTURO PAOLI: PROFETA DI UNA CHIESA IN USCITA

Il 20 novembre 2015 in Ostuni (BR)  al Centro di Spiritualità Madonna della Nova  SILVIA PETTITI, segretaria personale e biografa di ARTURO PAOLI, ha svolto la sua relazione che riportiamo di seguito. L’incontro è stato introdotto e moderato da SABINO CHIALA’, monaco del Monastero di Bose in Ostuni che ha promosso l’iniziativa insieme al “Fondo di Documentazione Arturo Paoli” ed al “Centro di Spiritualità Madonna della Nova”. Hanno aderito all’iniziativa anche  Azione Cattolica Diocesana AIMC – UCIM – MEIC, Centro di cultura “Donato Cirignola”, Amici Biblioteca Diocesana “R. Ferrigno”,Vicaria di Ostuni, Manifesto 4 Ottobre, Oreundici, Caritas Diocesana, Bottega del Libro.

Arturo è stato per me il “maestro” che mi ha mostrato – non insegnato, ma mostrato con la sua vita –l’esperienza di una vita trasfigurata perché resa trasparente, luminosa, gioiosa dalla fiducia totale, senza riserve e senza condizioni, nel progetto di Gesù e nella bontà del Padre.

Abbiamo tutti nel cuore e nella mente il sangue versato una settimana fa a Parigi, che ci ha sconvolti e spaventati, di fronte al quale – più passano i giorni – meno sono certe le parole per spiegare quello che è successo, meno ancora sono chiare e condivise le azioni necessarie per porre fine a questa brutalità e a questo odio che alcuni esseri umani hanno compiuto e ancora si preparano a compiere.

Pensando a questo “presente” che si consegna a noi come “segno” che ci provoca e interroga, ho cercato nelle parole di Arturo qualche traccia che ci indichi una direzione, un atteggiamento.Mi pare di vedere, oggi, in questi giorni, il suo sguardo che scava nel cuore dell’uomo per trasformare la pietra in carne, donandosi disarmato e impotente, mentre soffre le “doglie del parto” per questa umanità, cui anche lui appartiene, così lontana dal progetto di “amorizzare il mondo” che è il solo grande obiettivo dell’esperienza umana nel mondo.

Molti di voi lo avete conosciuto, personalmente o attraverso i suoi scritti, qualcuno di voi certamente avrà avuto modo di venire a Lucca in questi ultimi anni e avrà potuto ascoltare Arturo nella celebrazione della messa o lo avrà incontrato nella sua casa, nella vita di tutti i giorni. Avrete presente la familiarità semplice ma speciale che era capace di riservare a chiunque gli si avvicinasse, la pace serena che si respirava accanto a lui anche senza dire nulla, la rettitudine morale e spirituale che esprimeva nei gesti della vita, dal camminare allo scrivere, al sedersi a tavola, all’ascoltare le confidenze e le sofferenze di moltitudini di persone travagliate dalle fatiche della vita.

Ora ha scelto di farsi seppellire proprio dirimpetto la casa in cui ha vissuto. Ha scelto un cimiterino minuscolo, e di farsi seppellire sulla terra nuda. Quel semplicissimo e poverissimo pezzetto di terra in cui lui riposa, su cui si erge una croce di legno, non è sufficiente ad accogliere tutti i fiori e le piante che gli amici e le amiche gli offrono per continuare a stare vicini a lui; la sua memoria (che è amore, spirito, amicizia, tenerezza) continua ad essere meta di viandanti, uomini e donne, bisognosi di accoglienza umana, paterna, misericordiosa.

Parlare con voi di Arturo dunque, per me, è sederci insieme e creare fraternità intorno a lui, con quella semplicità solenne e allo stesso tempo sobria che sapeva creare e infondere.

Arturo Paoli: profeta di una chiesa in uscita” è il tema di questa sera. E proprio la figura di “chiesa in uscita” per testimoniare “la via e la vita”, nello scenario devastato del mondo, è l’orizzonte che terremo presente.

Per iniziare la nostra riflessione vi consegnole parole del testamento spirituale di Arturo.Parole che furono lette nella cattedrale di Lucca il pomeriggio del 15 luglio scorso, durante il rito delle sue esequie – cui presenziò tra l’altro anche il priore di Bose Enzo Bianchi. Dopo avere ringraziato e ricordato le persone che gli sono state più vicine nell’ultimo periodo della sua vita, Arturo ha voluto lasciare questo messaggio:

«[…] Se mi si chiedesse a quale Chiesa appartengo, quella cui aderisco direi, senza esitazioni, è quella del Concilio Vaticano II, è quella della Lumen Gentium, della Gaudium et Spes e confesso, senza tortuose ipocrisie, che penso che i due pontefici succeduti a Paolo VI sono incorsi nel rimprovero-lamento espresso da Gesù in Mt 16 e in Lc 12, sui segni dei tempi.

Credo fermamente che GESÙ sia misericordioso non solo perché lancia un salvagente all’anima che sta per naufragare nella condanna eterna ma anche e soprattutto per la sua decisione, suggerita dal suo amore infinito, di fare di ogni creatura umana, direttamente o anche a sua insaputa, un partecipe al suo progetto di amorizzare il mondo.

Abbiamo motivo di credere che una lagrimetta finale ci salverà dall’inferno. Ma i veri cristiani sono quelli che fanno quanto possono per portare frutto: “Io sono la vite e voi i tralci”. Questo e solo questo è il nostro Salvatore».

Avete sentito: la Chiesa del Concilio Vaticano II – i segni dei tempi – la misericordia incarnata nella persona di Gesù – il progetto di amorizzare il mondo affidato ad ogni creatura umana – l’identità del vero cristianocome colui che porta frutto perché la sua vita è innestata in quella del Cristo.Tutti questi passaggi parlano di quella “chiesa in uscita” che non è uno slogan e neppure frutto di comportamenti esteriori bensì nasce dal Vangelo.

Ma partiamo da noi. Dalla nostra storia. Senza edulcorarla, senza cercare consolazioni immediate (come suggeriva nei giorni scorsi Liliana Segre rispondendo alla domanda: come parlare ai giovani del terrorismo che ha insanguinato Parigi?). Allora facciamoci coraggio, cerchiamo di essere “veri” e lasciamoci provocare dalle parole di Arturo.

«È difficile negare che la schiavitù nell’epoca cristiana, l’invasione delle terre altrui camuffata sotto il pretesto di diffondere la fede che aprirà le porte del paradiso, tutte le guerre e i conflitti che hanno insanguinato l’umanità nel tempo che chiamiamo modernità, sono nati qui nell’Occidente cristiano. […] La parte cristiana dell’umanità è la principale responsabile dei conflitti che periodicamente hanno macchiato di sangue la terra. Nella prima metà del Novecento abbiamo avuto due guerre che ci siamo vantati di definire mondiali e da allora siamo cresciuti con la pretesa di creare più benessere nell’umanità, allontanandoci invece sempre più dall’etica cristiana che dovrebbe essere guidata dalle ultime parole che il Maestro ha pronunziato nella sua vita: amatevi come io vi ho amato».

Il mondo cristiano è arrivato, sviluppando la sua cosiddetta civiltà, a una conclusione che ha reso l’individuo schiavo di strumenti sempre più raffinati, guidati dall’intenzione di sciogliere l’individuo dal bisogno dell’altro, il che significa [concludere] che non c’è nessuno da amare, che il prossimo è morto. La morte del prossimo: è questa la sfida che ci lancia “il presente storico”, come lo definisce Arturo. Che poi si domanda, e ci domanda: «Come potrà sopravvivere l’uomo se uccide l’altro, cioè l’amore di coppia, l’amore di amicizia, l’amore tra genitori e figli e finalmente l’amore politico?».

«Noi cristiani ci sentiamo smarriti e cerchiamo dei rimedi anche rispettabili ma lontani da quel progetto che Gesù ha annunziato a Nicodemo: bisogna rinascere».

Rinascere.Per poter “rinascere” è necessario prima trovare una risposta alla domanda: perché tanto male? Luigi Zoja, il filosofo psicanalista autore del libro “La morte del prossimo” cui si riferisce Arturo, «propone un esame accurato della nostra cultura partendo [dalle tragedie greche].[…] In questi poemi si trova il virus che rende così tragica la nostra storia, è quello che viene chiamato hybris, che vuol dire la tracotanza dell’uomo che pretende di avere il potere di Dio». «L’uomo di oggi è l’uomo esiliato [dall’umanità]: l’uomo è una piccola impresa autogestita, aperta alla concorrenza e alla competitività». Ogni individuo è «un pezzo staccato dalla specie [umana]»e il rischio è che per sopravvivere – in questa condizione di isolamento, separazione, competizione che finisce col trasformarsi in odio e morte – l’individuo annienti completamente la sua umanità. È ciò che oggi vediamo con chiarezza, riflesso allo specchio, nella disumanità dei kamikaze e dell’ideologia folle che li ispira.

Ma torniamo ancora a noi e lasciamoci ancora guidare da Arturo che confessa lo «sgomento che ci prende constatando l’inefficienza del cristianesimo che ha promesso pace sulla terra». «Mi sono trovato spesso a pensare se questa parola così semplice – pace – non sia stata dispersa nel cumulo di concetti filosofici formato da ricercatori della verità. Mi chiedo se gli annunziatori della pace non siano stati troppo affascinati dai costruttori del sapere che si spingevano ben lontani dalle cose e dalla vita degli uomini. Se questa passione della verità non ci abbia allontanato troppo dalla intenzione di Dio che nella materialità della carne, nella prossimità degli uomini dalle mani callose, ci ha detto «io operaio come voi, io povero come ognuno di voi sono [venuto a portarepace sulla terra]».

Il papa emerito, teologo, Joseph Ratzinger in uno scritto del 1972 affermava: «Lo scandalo più grave della fede cristiana sta nella sua mancanza di incidenza storica. Essa non ha cambiato il mondo, ma se la fede non produce nulla, allora anche tutto quello che si può dire è vuota teoria». Tutte le astrazioni teologiche, tutte le definizioni della fede – ammoniva colui che diventerà papa Benedetto XVI – sono “vuota teoria” se non cambiano il mondo. EArturo aggiunge: «la [ricerca della] verità staccata dalla vita, frutto dell’esercizio della ragione, separata dalla vita reale, diventa potere, esaltazione dell’io, follia della guerra perenne fra gli uomini».

Potere, esaltazione dell’io, follia della guerra perenne tra gli uomini.

Se questa è la realtà storica, prodotta in buona misura dalla civiltà occidentale cristiana e che oggi vediamo , di cui dobbiamo prendere atto, dobbiamo anche pensare e “fare memoria” diquel “momento di rottura” della nostra storia umana, dal quale è fiorita una possibilità nuova ancora in gran parte potenziale e inedita, che è il progetto incarnato e annunziato da Gesù di Nazareth, un Dio uomo.

Un filosofo ebreo contemporaneo, Emmanuel Lévinas, chiamato a tenere una conferenza alla Sorbona di Parigi (la stessa Università in cui lavorava come ricercatrice Valeria Solesin, uccisa al Bataclan la settimana scorsa) dal titolo “Un Dio uomo?”, lui ebreo descrive il volto di Cristo come il volto del servo sofferente del profeta Isaia, e presenta un’idea di verità che non è astratta né separata dalla vita. Dice Lévinas parlando di Gesù: «L’idea di una verità la cui manifestazione non è clamorosa, l’idea di una verità che si mostra nella sua umiltà come la voce di fine silenzio secondo l’espressione biblica – l’idea di una verità perseguitata non è forse l’unica modalità possibile della trascendenza?». Una verità che si manifesta «come umile alleato del vinto, del povero, del perseguitato», come «mendicante e senza patria che non ha dove posare la testa».Non è questo il volto del Dio uomo che leggiamo nelle pagine del vangelo?

Scrive Arturo: «Lévinas ci presenta la scena drammatica del confronto di Gesù con Pilato: ecco l’Uomo. Travestito da re, flagellato, coronato di spine, umiliato fino a perdere ogni connotato umano si presenta come “l’immortale altro” che l’uomo della tecnica, il fai da te non potrà mai sopprimere». Quel prossimo che si vorrebbe dichiarare morto è immortale.«Più cerca di dimenticarlo e [meno ci riesce], non sa come diminuirne la forza e l’invadenza nella propria vita, lo maltratta, lo ferisce, lo lacera, gli sputa in faccia e più ne accresce il potere. Questo volto coperto di sangue, di schiaffi, di sputi interrompe e interromperà sempre il cammino e i progetti ispirati dalla hybris che l’uomo fai-da-te, l’uomo della tecnica ha pensato e pensa siano infiniti.

Progetti che infiniti non sono, non possono esserlo se non al prezzo della distruzione totale, perché è “il volto”, la “prossimità dell’altro” a derivare “enigmaticamente” «dall’Infinito» e dunque ad essere infinito. Scorgiamo un paradosso in questo “volto” dell’altro, immortale e allo stesso tempo indifeso, inerme. Un paradosso che si spiega con l’irruzione di un divieto: “tu non mi ucciderai”, con l’avvento della responsabilità. «L’alleanza tra la povertà del volto e l’Infinito si iscrive nella forza con cui il prossimo è imposto alla mia responsabilità, […] l’alleanza tra Dio e la povertà si inserisce nella nostra fraternità…», scrive ancora Lévinas.

Responsabilità e fraternità sono le due parole che la vita umana di Gesù ci rivela, le due azioni presenti nel progetto “amorizzare il mondo”, da cui discendono i due grandi «valori terrestri che stanno a cuore al Padre e al Figlio (e credo anche a noi cristiani e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà):la giustizia e la pace».

Ora, ci dice Arturo – e lo sappiamo anche noi –, la Chiesa passa inevitabilmente attraverso momenti di crisi «che sono spazi di tempo che si aprono sulle sue successive rinascite».

Il tempo di rinascita che stiamo vivendo oggi, grazie a papa Francesco, Arturo lo ha appena intravisto, come il vecchio Simeone, e come lui ha potuto dire: «Ora lascia che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi han visto la tua salvezza».

Ma nella sua esperienza di vita, trascorsa in gran parte in America Latina (dal 1960 al 2005), Arturo è stato testimone e artefice di un’altra luminosa primavera, quella delle comunità di base nate dalla teologia della liberazione. «Questo tipo di teologia apparve come la prassi pastorale che lo Spirito Santo affidava alla Chiesa in un momento storico che esigeva una particolare attenzione alla liberazione. Il Concilio coincideva con l’inizio di un periodo storico in cui l’idolo mercato stava affermando la sua monarchia assoluta. Gesù ha lanciato alla storia la sua sfida: o Dio o mammona. La teologia della liberazione faceva dei poveri il soggetto di questa liberazione che si doveva realizzare nel tempo non attraverso la violenza ma attraverso l’unione: era una attualizzazione dell’esodo».

«Se […] il progetto di Gesù [è] il Regno di Dio, come si può dubitare che non abbia come obiettivo principale la liberazione? Una liberazione umana, totale da tutto quello che sia ostacolo all’amore, e le due componenti dell’amore sono la giustizia e la pace. Non sono queste le due colonne portanti della società umana? Per questo l’uomo deve essere liberato da tutto quello che mette disordine nell’armonia sociale».

E poi Arturo afferma ancora: «La nostra fede cristiana oggi è sfidata su questi valori essenziali». E badate bene:«La scelta […] non è affidata alla gerarchia della Chiesa, ma alla generazione che è chiamata ad essere soggetto della storia». Ovvero ai giovani, ai poveri, ai diseredati, agli emarginati: in una parola, agli affamati e assetati di giustizia. In fedeltà alla scelta di Gesù che scelse «come luogo privilegiato non il tempio ma la strada, la casa dell’uomo, il luogo di lavoro dei pescatori e dei contadini perché lì c’è una vita da trasformare, da liberare».

Ecco allora il senso e il valore “dell’incidenza storica” della fede, il valore della cura verso ogni incontro perché diventi occasione di una relazione guidata dalla ricerca della giustizia e della pace. Ecco allora la necessità di prestare attenzione ai “segni dei tempi” annunziati dai profeti, tanto più quando appaiono contraddittori e violati come oggi. Ecco allora la necessità urgente di “essere pace” per “portare pace”: «Forse l’umiltà, virtù sconosciuta, potrà sorgere solo dalla coscienza [che potremmo], con le nostre sicurezze e con [la nostra forza], distruggere il pianeta».

Ecco allora l’attesa del “nuovo”. Il “nuovo che in questa società umana (scrive il sociologo Bauman) potrà giungere da «un qualunque Dio porti sulla terra e dia alla terra pace, lavoro, giustizia, amicizia». E dove possiamo trovare questo Dio che porta sulla terra pace, lavoro, giustizia, amicizia? qual è la religione migliore? «È quella che rende migliori», ha risposto il Dalai Lama alla domanda di Leonardo Boff. «E cosa è che mi rende migliore?», gli ha chiesto ancora. «La religione che ti rende più capace di compassione, di amicizia, di amore, è questa la migliore».

Il beato Charles De Foucauld – ispiratore della congregazione dei piccoli fratelli di Gesù e del Vangelo cui Arturo apparteneva -, convertitosi e diventato sacerdote «[capì] che prima di presentare il Gesù sacramento di salvezza era necessario presentare il Gesù fratello universale che ha portato fra gli uomini l’amicizia, il perdono reciproco e la sconfitta di quell’orgoglio individualista che avvelena tutti gli incontri e fa triste la nostra storia».

Che cosa dobbiamo insegnare? chiedono gli apostoli a Gesù, che risponde con una sola parola: pace. La missione della chiesa in uscita.

E concludo, anche se molte cose ci sarebbero ancora da dire. Concludo con un’ultima frase di Arturo. Che scrive: «All’epilogo della vita vorrei lasciare una testimonianza. Noi che abbiamo percorso un lungo tratto nel tempo, possiamo parlare di molte esperienze vissute, almeno finché la stabilità della mente ce lo consente. Possiamo dare dei consigli a chi ce li chiede presumendo di avere raggiunto una certa saggezza.

Ma Gesù ci ammonisce che per entrare nel Regno dei cieli bisogna tornare bambini. E questa è una conquista o un ritorno al passato su cui non possiamo fare nulla con la nostra volontà. Se lo tentassimo cadremmo nel ridicolo. Eppure se crediamo e se [viviamo in una] buona relazione con il Maestro, questo dono discende in noi. E il risultato è di amare la vita e di attendere con gioia la morte».

«I giusti non muoiono, si trasfigurano – transitano», ha detto padre Cesare Falletti, abate cistercense di Prà d’Mill, nell’omelia del giorno dell’Assunta, il 15 agosto scorso. È proprio così, i giusti – gli assetati di giustizia – non muoiono. La loro testimonianza, la loro profezia non muore. E continua ad essere testimonianza e profezia di quella chiesa-comunità imperfetta, imprecisa, ma “saporita” e misericordiosa – “ospedale da campo” – di cui ci parla papa Francesco e che sentiamo essenziale per gli uomini e per le donne, cattolici e no, credenti e no, del nostro tempo. Oggi più che mai.

Silvia Pettiti

Fondo Documentazione Arturo Paoli (FBML)

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