“LA COSA PREZIOSA SE NE VA PRESTO”

Antonio Greco

Recensione de La grazia della fragilità di Franco Arminio

La grazia di essere fragili o la disgrazia di essere forti?

Ho letto con questo interrogativo l’ultimo libro (nov. 2025) di Franco Arminio, La grazia della Fragilità[1], dedicato “a tutti quelli che provano a ingentilire il mondo quanto più il mondo è brutale”.

Franco Arminio, scrittore e poeta, impegnato politicamente con “la Rete a difesa dei piccoli paesi”, ha ideato “La casa della paesologia” e il festival “La luna e i calanchi” ad Aliano in Basilicata. Vive a Bisaccia (Av) e ha scritto più di 30 libri, fra i più noti, Cedi la strada agli alberi[2].

Scrivo essenzialmente di due cose: del mio corpo e del mio paese. Ipocondria e paesologia” (9). Arminio dà voce ai paesi e alle emozioni trascurate delle persone.

La grazia della Fragilità è un testo formato da otto capitoli, così intitolati: 1) Biografia di un’inquietudine; 2) Guarire è uscire fuori; 3) L’agonia ciarliera; 4) Se arriva una guerra; 5) Ci salverà la poesia; 6) Per un ritorno della teologia; 7) Desiderio e rivoluzione; 8) Il mistero di questi anni. Termina con un’appendice finale: È tutto un fiorire.

C’è un filo rosso che collega gli otto capitoli ed è il valore simbolico della fragilità che Arminio dà sia a ciò che è corpo, sofferenza, solitudine e sia a ciò che è paesaggio.

Un libro dai molteplici registri

il libro è un’opera intimista e filosofica, in grado di parlare dei dilemmi umani con tono meditativo e un linguaggio al tempo stesso semplice e profondo.

La scrittura di Arminio è intensa. È una scrittura ibrida in cui prosa e poesia convivono. Con un linguaggio metaforico carico di lirismo, il poeta invita il lettore a rallentare, a guardare con occhi più attenti la realtà, a meditare.

Ricco di stimoli e suggestioni, possiamo dire, in sintesi, che, anche se i temi trattati sono tanti (psicologici, filosofici, storici e perfino teologici), è un’indagine sulla contemporaneità e sulla vita interiore condotta con lessico studiato e con riferimenti colti.

Secondo Arminio la contemporaneità è soggetta a una “bancarotta antropologica” (Pasolini parlava di “mutazione antropologica”): una depressione di massa e un impressionate dissesto emotivo riguarda milioni di italiani. “È vero che la vita si allunga e molti sembrano giovani anche a sessant’anni. Ma è uno splendore di superficie. Tutti provano a fuggire dal dolore, ma il dolore sembra diventato la prigione da cui non si riesce a uscire. (…). La miseria delle anime è arrivata in mezzo a noi (128). Donna e uomo del nostro tempo, per mettersi al riparo dai mali ineludibili e concreti della vita, traslocano nell’irreale. Vivono nei social ma comunque continuano ad ammalarsi, a morire e a dover fare i conti con la brutalità del mondo. I social promettono connessioni, in realtà essere connessi è mettere acqua in un secchio rotto. Così la novità sconvolgente di questo tempo è che siamo tutti più soli. Questo esodo dal reale all’irreale congeda la politica, la letteratura e la religione. “E’ in corso un esodo dal reale all’irreale, dal sacro di essere sulla Terra al profano di essere sulla Rete” (38).

Sulla vita digitale, Arminio scrive: “Spesso ci arrivano notifiche da uno che non c’è più. Se ogni profilo è un loculo, poco importa se contiene un vivo o un morto, quello che conta è che da ogni luogo esca un ronzio, il ronzio planetario in cui la crisi climatica e le guerre a volte sono figura e a volte sono sfondo, come le nostre fragilità a volte sono figura e a volte sono sfondo, come il nostro essere soli, che contrasta con una scienza che rivela i nostri nessi, con il mondo digitale che ci dice iperconnessi” (33).

Non manca però anche un barlume di luce: “in Italia, specialmente nel Sud, l’epoca presente in fondo è meno sfinita che altrove. Qui c’è palpito, c’è ancora un’agonia, anche se è un’agonia ciarliera. (…). Il centro non è quello che viene confezionato nei giornali e alla televisione e ora anche nella Rete. L’Italia non è stata tutta arata dall’irrealtà” (35).

Ma non è solo il tema dei social che sta più a cuore ad Arminio.

Oggi ho sulle spalle tutta la questione meridionale (109); “siamo oltre le categorie di destra e di sinistra, siamo comunque dentro una logica di contestazione alla visione capitalistica, alla religione del capitalismo e dunque alla mercificazione dei luoghi (110); “la globalizzazione è finita da tempo, forse non è mai cominciata” (113); “il provincialismo è la grande patria di tutti in un mondo che non ha più centro. Un mondo che finge di muoversi per seguire il grande fiume della storia e invece è ridotto a una piccola palude” (113); “quella che chiamiamo vita ormai è solo un’isteria corale, tutti a volere di più” (124), “ubbidiamo allo spirito del tempo come soldati nella caserma” (125): è questa una breve sintesi delle ragioni dell’attuale bancarotta antropologica.  

Fra le tante suggestioni del libro soffermo la mia attenzione sui temi della guerra, sullo stupore della pace (cap. IV) e sul ritorno di una nuova teologia (cap. VI).

Se arriva una guerra

Il quarto capitolo, in posizione centrale nel libro, ha soltanto tre pezzi in prosa, che separano diciotto composizioni in versi: undici poesie prima e sette poesie dopo le tre prose.

“Se arriva una guerra in qualunque angolo

del mondo, il mondo deve fermarsi,

deve togliere il muso dal piatto sporco.

Se arriva una guerra bisogna

mettere un vaso di fiori sul tavolo,

scrivere una lettera

a una zia lontana, chiamare un amico,

aprire un libro.

Forse la pace si fa così:

si comincia dalla propria stanza,

dal modo di piegare le maglie,

dalla voglia di uscire, dal sorriso che facciamo

al primo che passa” (55).

La riflessione di Arminio corre subito a Gaza:

“…Dal cuore di Gaza

c’è qualcosa che non arriva

alle nostre città senza cuore.

È ora di amarsi con più forza,

togliere forza al disincanto.

Gaza è lì, ma va difesa ovunque,

bisogna lottare, resistere…” (56).

E ancora:

“Quello che accade a Gaza

Ha un padre sionista

E una madre americana.

Poi ci sono i fratelli europei.

Una ricca famiglia colonialista” (57).

“I bambini di Gaza hanno gli occhi

Colorati dalle bombe.

Non sappiamo che dolore

Avranno a quarant’anni (…)” (62).

Ma una mattina di ottobre le piazze italiane, “pietose e accaldate”, si riempiono di “un fuoco di gioventù” per far “risplendere la bandiera delle vittime”. A costoro, scrive Arminio, bisogna dire grazie.  Nelle piazze che trasudano la mitica bellezza dei nostri monumenti, altri monumenti umani sono presenti.

(…)

 “sfilano in piazza forse non visti

Rocco Scotellaro e Cristina Campo,

Gaetano Salvemini e Aldo Moro,

Giacomo Leopardi e Antonia Pozzi

e poi Antonio Gramsci e Dino Campana,

Giordano Bruno e don Milani,

gente che mai si è vista, con il pane della giustizia che passa

di mano in mano.

(…)

C’è anche Dio nelle piazze

stamattina, è il più nascosto,

il più smarrito”, (69) scrive Arminio.

Lottare contro il tramonto dei diritti, abbracciare gli oppressi, fare spazio alla poesia e alla furiosa dolcezza di fermare la produzione di armi e di piantare alberi al posto di bitume e cemento, diventare formiche della carità, riaccendere l’astro del sacro: ecco le fondamenta per uno splendore vero della pace. Dove sono poste queste radici?

L’autore mette a confronto un luogo, una periferia di Milano, dove “la società dell’inconsistenza rivela la sua normalità”, dove “la vita scorre vagamente sfinita e interlocutoria” e da dove “visto da qui l’Occidente da carro funebre pieno di merci ora diventa un carro funebre pieno di cadaveri”. “Si muore a Gaza, ma quel luogo è vivo e le tante Cologno dell’Occidente sono morte”. Il nostro, in Occidente, è “un tempo senza politica e senza religione e senza ebbrezza. Solo merci”. “Un tempo senza epifanie”. (…). “Non sappiamo cosa accadrà a Gaza e nel resto del mondo, è come immaginare che la morte possa fare marcia indietro e in questo moto sia destinata a ravvivare ciò che si è spento da quando si è spento l’astro del sacro, l’unica stella che non era in cielo, ma nella nostra testa” (61).

La sacra secolarità

Ma quale è questo astro del sacro? Arminio è per un ritorno della teologia.

Con otto brani di prosa, che spesso si tinge di poesia, chiarisce quale è il suo teo-logos?

Parlo spesso del sacro. Lo chiamo sacro minore perché non credo abbia a che fare con il sacro delle chiese. Io parto da qui: ogni cosa che ha un corpo ha anche un’anima. Se ci crediamo davvero, la nostra vita diventa meno solitaria, ci è sorella ogni presenza: la rana nello stagno e la foglia, il termosifone e l’armadio, la nuvola, il vento, la neve.

La nostalgia di Dio non è mai un brutto segno. Mi piace chi parla dell’invisibile, chi non è accanito al contingente, chi è gentile con questo mondo ma non smette di volerne un altro: un mondo costruito con la scandalosa novità della gentilezza e non coi ferri vecchi del rancore, con l’idea di federare le nostre ferite più che di metterle sul conto degli altri.

La nostalgia di Dio per me è avere questi slanci in cui mi accorgo che sto in mezzo ai vivi e mi sembra un bene enorme. La vita è stretta e piccola e breve. Ogni tanto arriva un soffio che la fa più larga. Puoi chiamarlo Dio, amore, poesia, puoi chiamarlo come vuoi, quello che conta è restare aperti, farsi attraversare da questo soffio (87).

Oggi noi siamo in una fase della cultura occidentale nella quale “Dio” è stato posto ai confini del mondo.

C’è una sola religione nel mondo davvero attiva, davvero capace di muovere la vita degli umani: questa religione si chiama capitalismo o anche la religione del denaro (58), che vive di “nichilismo bulimico” (124). La religione del Dio dei dogmi e dei filosofi sembra fallita nel contrasto a questa religione del denaro, se non dobbiamo pensare, come sostiene qualcuno, che sia stata questa religione a dare le radici alla religione che oggi domina.

Però ancora oggi si predica “dio” come “tappabuchi”, in quanto risposta alle questioni insolubili, soluzione delle domande senza risposta: ovvero, si ricorre a questo “dio” ai confini dell’esperienza, quando le risorse dell’esperienza sono state esaurite o quando sono impotenti. Rimane quindi veramente il “deus ex machina”, al quale si ricorre per trovare una soluzione a una situazione intellettuale irrisolta, o una risposta alla malattia, al cancro e al dolore innocente. La fragilità apre spesso l’uomo comune alla invocazione o alla bestemmia del “dio che può tutto” o a qualcuno dei suoi sostituti, i santi.

Dopo il tramonto di questo Dio della metafisica (avvenuto nel corso della filosofia e della cultura moderne), Arminio sembra sostenere che non può tramontare il Dio dell’«interiorità», che va cercato proprio nelle esperienze limite dell’uomo: la morte, la sofferenza e il male.

Anche per Arminio il Dio della religione e della metafisica è morto. Ma il posto non è vuoto. «Dio è morto» non è la stessa cosa di «Dio non esiste». Perché “togliere Dio dalla scena mettendoci al suo posto l’economia è una scelta da mediocri affaristi. Il mondo non è solo un luogo per gli acquisti” (92).

Il nostro tempo può essere quello ove l’insieme degli uomini è in relazione con Dio attraverso la via della profondità interiore che non è “sigillarsi nel centro di sé stesso” o “nascondersi dagli insulti del tempo” ma è “rinascere, come se ognuno a un certo punto dovesse partorire sé stesso” (88).

Il sacro non deve essere steso in grandi discorsi. Il sacro è un incontro, raro e imprevisto, raro e irripetibile. Può essere umile come una finestra rotta o solenne come un’alba. Il sacro è uno scalino, un momento raro che arriva da un luogo, da un volto, da qualcosa che sta fuori di noi. Il sacro è un profumo, una scia, un agguato. Il sacro è come se fosse un incidente, un imprevisto, un prolasso dell’ovvietà del reale. Il sacro è il momento in cui ravviso un coraggio improvviso delle cose. Il sacro è una scossa di terremoto, è la luna quando si appoggia ai tetti delle case, è nella voce di una donna che rinuncia a tenerti lontano” (89).

Per il poeta anche “la questione digitale è diventata una questione teologica: Dio è morto, ma ci ha lasciato il mouse, la tastiera, la password” per raccontarci l’inganno di ciò che non avviene: una vita che non esiste, battaglie finte, amori mai nati che finiscono, fake news.

La teologia di Arminio è un nuovo umanesimo fondato sull’imparare dalla fragilità e dalla morte, l’eterna fragilità, il mistero della vita.

La cosa preziosa ti visita quando arriva il dolore. È il bene, è un Dio umile che sa del dente che ti duole, della scivolata, della parola brutta che qualcuno ti ha detto senza farci caso. La cosa preziosa se ne va presto. Tienila al caldo dentro di te, accarezzala anche se ti fa male” (21).

Tutto questo che il poeta chiama “misticismo non deve essere una fuga dalla politica e la politica non deve essere tutto ciò che non è mistico” (94).

Questo ritorno a una nuova teologia, prospettata dal poeta, non è aproblematico e non è scontato. Come tanti uomini del nostro tempo, siamo di fronte a due vie: in un orizzonte teistico, ingenuo, c’è chi ancora sostiene e pensa che si esce dal buco del male e della finitudine umana invocando e attendendo la salvezza dall’Altro e dall’Alto. Ma è sterile attendere irruzioni miracolistiche del divino e, quando non interviene, rosolarci nella delusione. In una prospettiva post-teistica o trans-teistica, invece, se non vogliamo cedere alla disperazione dell’impotenza di fronte alle guerre, all’odio, alle violenze e alla “vita che facciamo e quella che ci rimproveriamo di non riuscire a fare” (138), dobbiamo intendere l’apporto del Trascendente/Fondamento come l’offerta di una proposta, di un seme, di una piccola luce. In questa prospettiva spetta a noi rendere attuale “una nuova genesi”, spetta a noi non dimenticare che “che il semplice, l’ordinario è la casa della grazia, dell’infinito”, spetta a noi imparare dalla fragilità e dalla morte, eterna fragilità, il mistero della vita.

Allora, la grazia di essere fragili o la disgrazia di essere forti?

“Ho sempre creduto che il mio problema fosse la paura della morte, solo adesso sto capendo che forse è la vita la mia questione, che poi è la questione di tutti, in tutti i nostri anni, in tutti i nostri giorni” (138). Da vivere con “furiosa dolcezza” e con “resa attiva”.

16 dicembre 2025


[1] Franco Arminio, La grazia della fragilità, Chiare Lettere, Milano, nov. 2025, pp. 140.

[2] Franco Arminio, Cedi la strada agli alberi. Poesie d’amore e di terra, Chiare Lettere, 2017, pp. 160.

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