
Antonio Greco
Ascanio Celestini, scrittore e autore di teatro, nel libro Poveri Cristi, pubblicato da Einaudi agli inizi del 2025 raccoglie, in tre distinte sezioni, i racconti che hanno strutturato i tre suoi spettacoli teatrali precedenti: Laika (del 2015), Pueblo (del 2017), Rumba (del 2023). Tre sezioni che si possono leggere in sequenza ma anche separatamente.
Nella prima sezione Laika (una randagia russa lanciata nello spazio, mai più rientrata a terra), “Storia di un giorno di sole”, il narratore racconta all’amico Pietro le storie di un’umanità che vive ai margini di un supermercato: il Barbone, la Vecchia saggia, la Prostituta, una Donna impicciata.
In Pueblo, “Storia di un giorno di pioggia“, il racconto continua con le sofferenze di nuovi personaggi: un piccolo Zingaro di 8 anni; la ragazza Violetta, che fa la cassiera; una donna, Domenica, che mette a posto i carrelli e pulisce il piazzale di un supermercato.
Nella terza sezione Rumba, “Storia di una notte stellata“, Celestini racconta i segreti di Giobbe1, analfabeta che ma sa tutto del suo lavoro di magazziniere; di Josef il seppellitore; del presepe di san Francesco nel parcheggio del supermercato; della profezia di santa Chiara che capisce come va a finire la storia del santo di Assisi.
Il racconto è ambientato nel quartiere Quadraro di Roma: “la città finisce due fermate di autobus prima della nostra borgata. Poi comincia il parcheggio, il magazzino pieno di schiavi che spostano pacchi, un supermercato che mette tristezza, un bar con quattro vecchi che non escono mai, un condominio di gente scannata” (207).
La trilogia fa riflettere sulla disperata grandezza di tante vite apparentemente inutili. Personaggi emarginati, rassegnati, che trascinano con sé un’esistenza ai margini della cosiddetta società civile, senza riconoscimenti, un’esistenza che non vedrà mai il barlume di una luce in fondo al tunnel.
Ho trovato difficoltà a collocare letterariamente questo libro. È molto lontano dal ciclo dei vinti di Verga e dal romanzo degli ultimi della storia (I Promessi Sposi) di Manzoni. In realtà le vite di poveri Cristi raccontate in questo libro sono molto vicine a quelle descritte dal poeta Pasolini, le stesse che rivivono in Accattone o in Ragazzi di vita: umili, deboli, timidi, infimi, colpevoli, sudditi e piccoli.
È un libro con uno stile volutamente incalzante, un fiume in piena, che travolge e incanta, che trascina il lettore a conoscere un microcosmo di periferia? Sì, ma non solo. È un libro sulla situazione politica attuale, sulla violenza fascista implicita nella realtà governata dalla prepotenza del capitale? Sì, ma non solo. È un libro con descrizioni così umane e cariche di simpatia per i poveracci, così pietose, oniriche ed appassionate verso quelli che al massimo godono di una insofferente tolleranza, da essere un libro di alta spiritualità? Sì, ma non solo.
Forse, è insieme tutte e tre le cose. È un libro poetico e politico. È un libro di alta spiritualità. In breve, somma un’armonia di fatti apparentemente irrilevanti alle ragioni più profonde dell’esistenza. Fa riflettere molto. Pone problemi che sembrano marginali ma che riguardano l’esistenza di tutti.
“Di questi personaggi mi interessa l’umanità. Voglio raccontare come sono prima della violenza che li trasforma in oggetto di attenzione da parte della stampa, ma voglio raccontare anche il mondo magico che hanno nella testa. Il mondo che li rende belli e che, solo quello, può aiutarli a non farli scomparire”.
Più che una recensione, questo scritto riporta solo alcune suggestioni che ho ricevuto nel leggere il libro, in particolare sulla spiritualità laica dei poveri cristi raccontati da Celestini. L’autore elenca, alla fine del libro, 51 personaggi, protagonisti dei suoi racconti. Mi soffermerò particolarmente sul personaggio “Dio”.
La spiritualità laica dei poveri cristi
Ascanio Celestini scrive: “Sono ateo, ma la trama del Vangelo mi piace” (pag. 218).
Provo a capire il suo pensiero religioso come si esprime in questo libro.
Il protagonista del libro, un narratore falso-cieco, racconta a Pietro, che ascolta, un rendiconto di qualche giorno e qualche notte passati in un monolocale di 35 metri quadrati con intorno due mondi: quello dei signori di un bar, quattro vecchi che non escono mai dal bar, e quello di un supermercato con un parcheggio che gli sta davanti e in cui vivono dei poveri cristi: il Barbone, la saggia Vecchia, la Prostituta, la donna impicciata, i facchini neri… Due mondi che si ignorano o si sopportano. I primi non riescono mai a imboccare la strada giusta per uscire dal bar ma non manca loro la curiosità di sapere quello che succede fuori dal bar. Il falso cieco, accolto dai signori del bar ed invitato a bere un bicchiere di sambuca con loro, inizia il racconto con “la storia di un giorno di sole”.
Dove comincia il mondo e come iniziano le storie
“Signori del bar, volete sapere cosa fa il Barbone o la Prostituta? Pronto al racconto, ma le storie dei poveri cristi non si capiscono se prima non vi parlo di un personaggio più importante”. Il giusto inizio, l’inizio epico di queste storie è raccontare dove inizia il mondo.
“In principio c’è Dio. C’è sempre Dio in principio. C’è lui. O in alternativa il Big Bang” (pag. 14).
“In principio era Dio” (Vangelo di Giovanni, 1,1) e in alternativa, “Dio non esiste” (tesi di Stephen Hawking).
La ragione e la scienza non consentono compromessi tra le due visioni. O si sta con Dio o con Hawking. “Ma potrebbe essere che è stato Dio che ha creato il Big Bang?”. Stefen ti risponde che non è possibile, che è un’ipotesi antiscientifica, controfattuale, che Dio non c’aveva il tempo per fare il Big Bang.
Non c’era il tempo per creare il mondo con gli animali, l’uomo, levargli una costola per fare la donna. Non c’aveva sei giorni lavorativi e non ci aveva manco cinque minuti per bersi un caffè o per farsi una pisciata. Dio non ce l’aveva quel tempo per creare le cose, perché non c’era il tempo prima del Big Bang. Non c’era in nessuna parte dell’universo. Non c’era proprio l’universo (pag. 15).
Il racconto, con lucide argomentazioni sulla non esistenza di Dio tratte dalla biografia di Stefen Hawking e di Steve Jobs, smonta le principali obiezioni opposte alla non esistenza di Dio dalla storica visione teistica, bagaglio della formazione adolescenziale parrocchiale di Celestini che, insieme ai racconti del Vangelo, sono rimaste nella sua testa.
“Stefen Hawking proclama l’inesistenza di Dio. E Dio gli toglie il saluto… nel senso che lo ammutolisce…In questa gara forsennata tra Dio e Stefen Hawking, lo scienziato immobilizzato e ammutolito chiede a Steve Jobs di fargli un computer per continuare a parlare. E Jobs glielo costruisce e glielo regala. Così Dio colpisce anche Steve Jobs e gli attacca il tumore. L’organizzazione Mondiale della Sanità chiede alla comunità scientifica di smetterla con questa guerra imbecille contro Dio che causa un aumento insostenibile delle spese sanitarie. E per ringraziarsi Dio riempie gli ospedali di crocifissi. Dio ringrazia la sanità facendo morire Steve Jobs così da toglierlo dalle spese sanitarie dell’America.
Dio è grande. Dio decide chi nasce e chi muore. Lui dà la vita, lui la toglie. (…)
Dio è potente, Dio è giusto. Alle volte è un poco incazzato, ma Dio è fatto così. Nessuno è perfetto. (…)
In principio è Dio, ma poi di seguito viene tutta l’umanità” (pagg. 15-16)
Il Barbone, La Vecchia e tutti gli altri poveri cristi che stanno nel parcheggio del supermercato … “sono tutta opera di Dio?” e “Stephen che ne pensa”, si chiedono i signori del bar.
Il narratore risponde che non lo sa. Sa solo che i poveri cristi esistono davvero. Stephen dice che “l’uomo è come una macchina che un giorno si rompe e si butta. Che non esiste il paradiso per le macchine rotte. Che Dio è una favola per persone che hanno paura del buio” (pag. 26).
E i signori del bar credono in Dio perché “noi abbiamo paura”.
I miracoli come si spiegano? “Se vuoi spiegare un fenomeno si chiama scienza. Se non c’è una spiegazione: allora è un miracolo” (pag. 27).
“Se Dio sa tutto … perché ha bisogno dei santi che lavorano per lui come gli elfi per Babbo Natale?” (pag. 29)
La conclusione del racconto del primo personaggio con cui iniziano le storie di Celestini è così sintetizzata.
“Pure la Signora delle slot [n.d.r: la proprietaria del bar] è sicura che Dio esiste. Ma si tratta di una divinità che produce una montagna di male e raramente qualche miracolo. È unico, onnipotente e soprattutto una maledetta carogna”.
“Un secondo scenario è quello di Stephen Hawking. Cioè Dio non esiste e non è causa di nulla. Né dell’universo né dell’alzheimer né dei peli nel naso” (pag. 30).
Su queste convinzioni-base si inserisce il mondo dei poveri cristi e la loro visione della religione.
La visione della Vecchia, la saggia
La vecchia non va in chiesa, come i signori del bar non escono nel parcheggio del supermercato. Non ci va perché non ci crede. E nemmeno prega.
“Non c’ho tempo. C’ho da fare la spesa…Beate le baciapile che ‘sto tempo lo trovano…Davvero io sto in cima alla lista dei pensieri di dio? Che quello sta a pensà a me? …Vengo prima delle guerre e delle malattie? (…) Si dice che la fede è un dono. Dico io che se te regalano un chilo di cozze, pure quello è un dono. Ma se c’hanno il vibrione te pija er colera” (pag. 43).
Il Padre nostro della Prostituta2
“Lo vede ‘sto poveraccio de Barbone che sta in mezzo alla strada? Il pane quotidiano se lo compra co’ l’elemosine. Non perde tempo a cercare la manna del cielo. Nel Vangelo se parla tanto dei poveri, del Gesù Cristo che sta coi poveri. Ma se Dio era il Dio dei poveri? I poveri non sarebbero più poveri, o no? Dio guarda solo ai ricchi. Pure i musei aprono gratis un giorno al mese. Sto Dio invece è solo a pagamento. Ventiquatt’ore su ventiquattro, come i supermercati.
Padre nostro che sei nei cieli? Segnati un giorno sul calendario, come faccio io. Sai fare una croce? Un giorno qualunque, a sorpresa, facci sopra una croce.
Quel giorno cerca di essere il Dio dei poveri.
Sia fatta ogni tanto pure la nostra volontà e non solo la tua.
Padre nostro, almeno un giorno al mese liberaci dal male.
Amen.
Il poeta dice che è solo da una scintilla di follia può scaturire la poesia e la verità politica (pagg. 58-59).
Commenta Celestini: “La prostituta forse è il personaggio che più degli altri rappresenta quello che avevo in testa da ragazzo quando andavo in chiesa. È scritto che i peccatori manifesti e le prostitute saranno i primi a entrare nel Regno dei cieli, figuriamoci al bar! Ho scritto. E questo è Matteo 21,28 -32. (pag. 218).
Ed è lei, la Prostituta che dopo aver assistito a un vero miracolo bussa a tutte le porte del suo condominio per raccontare il prodigio:
“Ha visto cosa è successo stanotte, signora? Menavano al barbone. L’hanno sderenato de botte. E quello manco strillava. Stava rannicchiato e se ne teneva la testa.(…)
Ha visto che è scesa la Vecchia? (…) S’è buttata addosso alle guardie. (…) Ma le guardie hanno menato alla Vecchia. (…) J’hanno rotto due costole. (…)
Avrà visto che è uscita un’altra donna? La conosce? Quella che ha la testa impicciata. (…)
Abbiamo sentito uno che scendeva giù dalle scale. Era un cieco. Lei lo ha visto, signora? (…) È andato incontro alle guardie per far smettere di massacrare il Barbone. C’ha rimediato pure lui ‘na bella scarica de schiaffi e de calci.
Signora, ha capito cosa è successo stanotte?
(…) Noi siamo state fortunate stanotte. Noi abbiamo assistito a un prodigio. Un Cieco, Una Vecchia e una Donna con la testa impicciata, tre persone nel cuore della notte, sono scese in strada per salvare la vita a un Barbone (pagg. 74-75).
È questo il messaggio forte del libro di Celestini: il prodigio di una drammatica solidarietà, la sola che salva.
La visione di una notte buia del mondo illuminata da poveri cristi trova conferma e autorevolezza nella terza parte del libro in ciò che scrive la Donna impicciata su uno dei suoi quadernetti che usa come esercizio per allentare la morsa dell’alzheimer: “San Francesco ammansisce il lupo e aiuta il povero…San Francesco aiuta l’ultimo. Perché è un povero cristo”. (pag. 181)
E il narratore incomincia a immaginare di raccontare le prove per la recita di San Francesco con la storia del santo per impressionare la gente a Natale: Francesco e l’abbraccio del lebbroso, Francesco che si spoglia dei vestiti, la storia del frate che trova un sacchetto di monete, Francesco che va dal Papa, Francesco e frate Leone, Francesco che parte per la Terra Santa, Francesco e il presepe.
E con quest’ultima idea di Francesco di fare un presepe a Greccio “si capisce tutto. Perché se i poveri stanno ovunque, Betlemme sta pure nella nostra borgata! E Gesù Cristo nasce davanti a un condominio di gente scannata. Perché no? Nel bar con quattro vecchi che non escono mai, tra le corsie di un supermercato che mette tristezza e pure in quel magazzino pieno di schiavi africani. Che spostano pacchi senza sapere quello che ci sta dentro. Questo dobbiamo dire ai pellegrini che vengono con il pullman.
Gesù Cristo nasce in questo parcheggio, di fianco a un barbone imbriaco che dorme tra i cassonetti della monnezza. E chi non ci crede, peggio per lui. Non scenderà dal cielo per farsi mettere il dito nella piaga” (185).
E provate a immaginare che il barbone sia il lebbroso che Francesco abbraccia, la donna impicciata sia il matto che si toglie il mantello per farci camminare Francesco, il bar coi signori del bar che non escono mai sia la Verna, il magazzino della logistica coi facchini africani sia l’Africa dove il santo è andato a fermare i crociati, il supermercato sia la basilica di Assisi, la cassiera della basilica sia Chiara d’Assisi, «pianticella di san Francesco», quella che per prima capisce come va a finire questa storia.
E come va a finire?
La mattina del 4 ottobre i frati smontano una grata e portano a Chiara il corpo di Francesco e lei per prima vede le stimmate che non sono buchi ma chiodi di carne. Ma non vede solo le stimmate. Vede di più.
E Celestini mette sulla bocca di Chiara una delle più belle pagine del libro:
“Maestro mio, madre mio. Mio tutto dopo Dio.
Io conosco la tua gioia, la povertà, il tuo ideale.
Questo non sembra il tuo funerale.
Questo funerale pare quello di tuo padre e di tutti i borghesi arricchiti. (…)
Tu sei l’unico vivo in questo corteo di scheletri. Tu sei l’unico fuoco acceso in questa sfilata di pezzi di ghiaccio. (…)
Ti chiudono nella Cassa di legno. La chiudono in un sarcofago di pietra. (…)
Che nessuno veda più Francesco com’era veramente”. (189)
Un bravo frate abruzzese scriverà la storia della tua vita, poi un’altra per accontentare anche gli scettici. Si chiama Tommaso, è nato a Celano. (…)
Dopo di lui arriverà un grande professore che insegna a Parigi. Uno che studia per diventare santo e c’ha una smania d’averci pure lui l’aureola come la lampadina in testa agli inventori di fumetti.
Scriverà di te e ti descriverà perfetto. Tana liberi tutti. Così perfetto che tutti diranno che sei inimitabile.
Diranno che Francesco camminava scalzo perché era perfetto, e si metteranno le scarpe perché Francesco è inimitabile.
Francesco andava a piedi perché era perfetto, e si faranno portare in carrozza…
Francesco dormiva solo nelle capanne e sopra un sacco di paglia perché era perfetto, e dormiranno in palazzi sfarzosi e su letti di piume….
Francesco non toccava mai denaro perché era perfetto, e si riempiranno le tasche di monete…
Francesco lavorava per guadagnarsi il pane perché era perfetto, e loro si faranno mantenere…
Francesco non era armato manco del coltello per il pane perché era perfetto, e faranno la guerra santa perché Francesco è inimitabile.
Maestro mio, madre mio. Mio tutto dopo Dio” (pag. 190).
A Celestini sorge un dubbio: serve raccontare la vita dei santi, anche quella di san Francesco, ai poveri cristi che vivono ogni giorno in questo parcheggio, a quelli che vivono a Roma, Parigi o New York? Forse no. Perché agli umili, ai poveri Cristi, basta essere solidali tra loro per essere santi.
“Voi siete tutti santi. Non c’è manco uno di voi ritratto con l’aureola nelle chiese di Roma. (…) Eppure, non c’è uno solo tra tutti voi che oggi non abbia compiuto un prodigio, a partire dal sacrificio di alzarsi dal letto stamattina per farsi umiliare su un marciapiede, in fabbrica o in galera.
Vi hanno schifato, menato, carcerato, schiavizzato, torturato, stuprato, ammazzato e poi dimenticato. E voi non siete stati capaci nemmeno a diventare cattivi. Ecco il prodigio.
A tutti voi Buon Natale. Questo è il vostro regalo. Guardate il cielo.
È pieno di stelle. Così tante che non si possono contare” (pag. 208).
Fin qui Celestini.
Dio-personaggio è morto nei campi di sterminio e nel genocidio di Gaza, nei miti falsi della patria e dell’eroe, nell’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai con il torto, nel benessere della società attuale, fondata esclusivamente su valori materiali, del denaro e del potere.
Nei titoli di coda del libro Celestini indica le fonti che lo hanno ispirato. Vi sono quattro lunghe pagine su sette in cui sono riportati brani del Vangelo e la storia delle biografie di san Francesco che sono entrate nel testo. Tanta è la consonanza tra l’essenza del Vangelo “sine glossa”, tra la parabola esistenziale di Cristo sulla terra, ultimo fra gli ultimi, e i poveri cristi del Quadraro di Roma. Celestini richiama in più occasioni le parole di Matteo quando apre le porte del regno dei cieli ai peccatori e alle prostitute (21,28-32), o quando richiama i passi di Giacomo nei protovangeli quando attacca i ricchi dicendo che l’oro che posseggono verrà mangiato dalla ruggine insieme alle loro carni (5,2-3).
Ma lo scopo del libro non è una apologia dello “spirituale”. L’autore dichiara di non avere competenze nel campo religioso. Si sente un laico. Laika è il nome del primo cane lanciato nello spazio, una randagia mai più rientrata a terra, la creatura lassù più vicina a Dio. Con un gioco di parole e uno scambio di consonanti (“laika” con “laico”), il laico Celestini sceglie di rappresentare, in questo libro, il suo Gesù dei nostri tempi. E così la parola “eretico”, che benpensanti conservatori anche cattolici gli hanno già affibbiato, può tornare a significare “libero”: libero dalla paura di disturbare il potere anche ecclesiastico, libero di difendere l’uomo prima di ogni ideologia.
La sua turbolenta rassegna di una disperata, dolce e spietata umanità in un microcosmo di periferia è molto più efficace di una grande teologia. È Vangelo e basta.
Le molte inquietudini sulla religione e la tanta simpatia per i poveri Cristi che popolano – da tempo – il suo personalissimo mosaico umano interrogano e sfidano una formazione teistica cattolica che oscura e tradisce il Vangelo.
Le storie di Ascanio Celestini e dei suoi eroi ci invitano a ripensare l’umanità in termini solidali e non di aggressione e sopraffazione dei forti sui deboli per il dominio. Forse siamo ancora in tempo per intraprendere scelte diverse, ma in ogni caso questo libro suona oggi come un grido d’allarme.
3 ottobre 2025
P.S. Sulla prossima festa nazionale del 4 ottobre
La festività di San Francesco, il 4 ottobre, era stata fortemente voluta dal Duce nel 1926, settimo centenario della morte del frate. Nel 1957 ci provò una parte della Democrazia Cristiana a rendere il 4 ottobre festa nazionale ma il Parlamento, dove pur la Dc la faceva da padrone, bocciò la proposta in un sussulto di laicità che oggi ci troviamo a rimpiangere.
Oggi, alla vigilia dell’ottavo centenario della morte del santo, i nipoti del fascismo, sono riusciti, in attesa del passaggio al Senato, a ripristinare la festa nazionale, peraltro, con voto bipartisan della Camera. Il titolo della norma: “«Giornata nazionale della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse». Una bellissima bugia, una frottola commovente.
L’idea di istituire oggi, in una società sempre più multiforme e multireligiosa, una festività di riferimento religioso per una parte soltanto della società, è lontana dal più genuino spirito francescano. Scrive Ascanio Celestini: “Francesco parte per la Terra Santa. Arriva in Egitto. I crociati non lo stanno sentire, conquistano Damietta, saccheggiano e stuprano. Allora se ne va a parlare con i musulmani e consultano al-Malik al-Kamil. Quello è disposto a regalargli Gerusalemme se i crociati sloggiano dall’Egitto. È una bella storia, ma il cardinale Pelagio, che parla a nome del Papa, rifiuta. Vuole vederli tutti morti ai musulmani. E invece saranno i cristiani a farsi ammazzare come mosche. Francesco se ne va via schifato” (pag. 184). Storia di ieri? No di oggi.
Noi in maniera ostinata continuiamo a credere, contro ogni evidenza, che il nostro è uno Stato laico e questa iniziativa ci appare come minimo fuori tempo.
1 Cfr. Estratto n. 1
I segreti di Giobbe
Ed ecco Giobbe, nella terza parte. È stato il primo a popolare il piazzale, è analfabeta ma sa tutto, sa dove trovare tutti prodotti sugli scaffali. Muore infine al cesso, solo come un cane: soltanto Domenica, la poveraccia, intona una lamentosa nenia funebre.
Giobbe ha un segreto che svela ai compagni una sera in pizzeria.
«Il caffè più buono del mondo lo fanno a Napoli», dice il Preposto della cooperativa. «Ma se hai assaggiato il caffè di Giobbe, sai che si tratta di una roba speciale».
Giobbe il caffè con la moka da quattro lo fa solo per il Preposto. Per i compagni fa quella da diciotto, ma solamente nel caffè del Preposto ci mette l’ingrediente segreto.
Una sera i compagni lo portano in pizzeria.
(…)
(Giobbe) Scompare dietro la scritta francese e quando torna dal gabinetto arriva pure il cameriere con i menu. Giobbe lo prende. I compagni so’ tutti imbarazzati, ma lui con serietà muove gli occhi a destra e a sinistra, poi con gentilezza chiude il menu, lo riconsegnò al cameriere, dice: «Una pizza margherita e una birra piccola, grazie».
Alla fine della cena: caffè e ammazzacaffè per tutti.
«Giobbe, visto che stasera sei in vena di confessioni ce lo puoi dire qual è l’ingrediente segreto del caffè che fai al Preposto?»
«S’arrabbiava con me perché diceva che gli fregavo il caffè, che il thermos suo si riempie preciso con una moka da quattro e invece io glielo portavo che mancavano sempre un paio di dita all’orlo. Mi diceva: “Se ne vuoi un goccio me lo devi chiedere”. Visto che non ci potevo aggiungere l’acqua che lo raffreddava, un giorno c’ho pisciato dentro. Allora ho incominciato davvero a faje la cresta d’una tazzina di caffè ogni volta che facevo la moka. Prima di pisciarsi, mica dopo il rabbocco. Tanto il mio ingrediente segreto come rabbocca due dita di thermos ne può rabboccare pure quattro. Ho calcolato che inoltre dieci anni di caffè ho bevuto almeno ottanta litri di piscio. Il mio. Non so se beve pure quello di qualcun altro» (pp.139-141).
Quello che racconta, alla fine del libro, chiede a Pietro, quello che ascolta, se i poveri cristi descritti nelle 220 pagine siano il pubblico giusto per raccontargli la vita dei santi. Manco di San Francesco.
“E Giobbe? Pure lui ci ha raggiunto nel parcheggio. Ha campato e lavorato tutta una vita in un mondo pieno di parole senza saper leggere manco la scritta sulla porta del cesso. Non è un miracolo?
C’è il Preposto della cooperativa. Mica gli posso fare la predica su Francesco che digiunava. (…) Francesco digiunava per imitare i poveri che mangerebbero la mela con tutto l’albero e il serpente, ma non c’hanno manco la fortuna d’essere cacciati dal giardino di Dio. «Caro Preposto, pure tu sei santo come lui. I facchini sono testimoni che ogni giorno hai bevuto piscio, o sbaglio?». (p.207)
Testo estratto, allegato alla recensione, dal libro di Ascanio Celestini, Poveri Cristi, Einaudi, Torino, 2025, pagg. 149-141, 207.
2 Cfr. Estratto n. 2
La Prostituta racconta come è finita in mezzo alla strada
È il racconto di una ragazza italiana, la Cenerentola sfortunata, orfana di madre e con un padre che la vorrebbe suora, «finita in mezzo alla strada dopo il suo primo amore», che le promette di sposarla, parte per il servizio militare per poi mettere incinta un’altra donna.
“Je dico: «Sposati la meridionale!»
E faccio bene. Perché io sono disonorata, ma penso a quella povera crista che c’ha bisogno di trovarsi un marito per quel figlio che deve nascere.
Nel tempo appresso me so’ trovata qualche altro fidanzato. Due erano pure seri, ma quando se parlava di matrimonio io li lasciavo (…) io me vergognavo de dire che non ero pura. Così ho cominciato la vita.
Le persone istruite dicono che serve l’educazione sessuale. Che bisogna studiarla pure a scuola da piccoli. Be’, senza saperne niente c’ho fatto un mestiere! Certo che se pensi che volevo fa la suora! Ma se dico che questa è una professione vera ci devi credere”.
Con un’etica, l’etica del lavoro. “All’inizio sgobbavo e basta, poi mi son detta che dovevo mettere un tetto. Non di soldi, ma di orario lavorativo” (…). Alle volte mi capita che arriva qualcuno facoltoso. Si fa avanti al termine del turno mio. Rispondo: «Non vengo co’ te manco se te presenti coi soldi in bocca». Io sono padrona de me stessa. E che faccio? Me sfrutto da sola?
Quello insiste (…)
Je rispondo: «Io c’ho solo due minuti».
E quello: «E che famo in due minuti?»
Je dico: «Damose i bacetti».
La Vecchia lo sa. È Una donna di larghissime vedute. Lei non giudica. Lei non sta a pensà al lavoro che faccio. Lei guarda solo alla persona. Il buono e il cattivo sta da tutte le parti. Ce stanno i preti pedofili, che Dio li stamaledica, e poi vanno sull’altare e giudicano e pregano.
(…)
La Vecchia mi ha fatto ragionare su tante cose. Chi c’ha tanto deve dare tanto.
Chi c’ha poco è già tanto che dà un pochetto. Lei c’ha una grande cultura e infatti je l’ho detto.
«Vecchia, tu c’hai una cultura che lévate…»
E lei: «E che la cultura?»
Dico: «Per esempio è quello che impari a scuola, per esempio so’ le poesie».
Me fa: «E tu la sai una poesia?»
«No, conosco le preghiere». E je dico l’Ave Maria.
Ma appena comincio me fa: «E che significa “Ave”?»
Dico che è un saluto, una maniera per presentarsi alla Madonna.
E lei: «E allora perché non saluti pure Dio quando reciti il Padre nostro? E poi perché una preghiera tutta in italiano deve comincià con una parola latina? Quando vai in macelleria che dici “Ave macellaro?”»
Vado avanti, «piena di grazia, il signore è con te».
«E quest’altro che significa?» me fa la Vecchia.
Dico: «Significa che la Madonna è molto graziosa e Dio je vòle bene».
Dico e ridico, ma me pare che ‘sta preghiera non l’ho capita per niente.
Non l’ho capita, anche se la ripeto a memoria da una vita, porcamadosca!
«Vedi», me dice, «la cultura non è sapere le cose a memoria. In chiesa e a scuola ti fanno credere che tu sei come una scatola vuota. Se ti impari quello che dicono loro, quella è la cultura. E invece no! La cultura significa che le cose le capisci e poi le sai fare per davvero. Quando vengo a mangiare a casa tua mica mi reciti le ricette a memoria. Mi cucini un piatto de pasta alla puttanesca co’ quello che ti è rimasto nel frigo. Giusto?»
A casa sua de libri ce ne stanno pochi. Lei dice che non c’ha i soldi per comprarli.
Però: «Li vado a leggere in biblioteca. Gratis», dice.
«E pure i quadri e l’estate li puoi vedere gratis», dice.
E infatti m’ha detto che i musei un giorno al mese aprono gratis.
Dice: «Perché anche il morto de fame c’ha il diritto de godesse il capolavoro!»
Hai capito?
Su ‘sto fatto ci ho rimuginato una settimana. Poi me s’è accesa la lampadina.
«Pure io voglio lavorare gratis una volta al mese», me so’ detta. Anche io so’ come la Venere de Botticelli che la puoi vedere gratis. O forse so’ una mummia egiziana, un pezzo vecchio qualunque da museo. Pure io voglio essere gratuita un giorno al mese, porcadosca! Ma non rendo noto er giorno, sennò verrebbero tutti quello lì.
All’inizio del mese faccio una croce sul calendario. Quando arrivano i clienti, me dicono: «Quant’è?»
Dico: «oggi è gratis, Ciccio. Come il museo».
Certi pensano di essere furbi. Se ricordano il giorno del mese precedente che non hanno pagato e tornano lo stesso giorno del mese successivo.
Chiedono: «E’ gratis oggi?»
Je dico: «No Ciccio, la vita è una ruota che gira. ‘Sto mese è uscito un altro numero».
Poi me trovo un uomo che s’è innamorato. Viene tutti i giorni. Un cliente. Non c’ha una lira.
Je dico: «Vieni a vivere a casa mia e ci smezziamo la pigione. Io risparmio co’ le spese e tu non spendi più per annà a mignotte».
Un bel giorno che arriva l’inverno mi dice che devo smettere di batte.
Dico: «Vabbè, ma perché? Sei geloso?»
Lui dice che no. «Per strada t’ho Incontrada, mica me ingelosisco degli altri clienti come ero io!» Però me dice: «Puzzi di copertone. Mi impuzzonisci il letto, mi pare di dormire con un copertone».
Dice la verità. Lui non tiene colpa a schifarsi. È un innocente.
Puzzo troppo e non riesco a dormì. Che la sera per strada fa freddo e io brucio i copertoni, punto e la puzza di copertone bruciato mi si appiccica addosso. E io puzzo talmente tanto di copertone che prima o poi divento un copertone pure io, punto. Se un’altra battona prenderà questo copertone che sono io e mi brucerà per scaldarsi.
(…) (pp. 52-55)
Testo estratto, allegato alla recensione, dal libro di Ascanio Celestini, Poveri Cristi, Einaudi, Torino, 2025, pagg. 52-55.

