QUANDO IL TEATRO RIVELA LA VERITA’ STORICA

Antonio Greco

Come scriveva Michel Foucault, «nell’arte… si concentrano, nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di un “dire il vero” che accetta il coraggio e il rischio di ferire» più ancora che nel giornalismo d’inchiesta o nell’inquisizione mediatica del “troncare e sopire” manzoniano.

Il pensiero di Foucault si può applicare a una ricerca sulle esperienze teatrali in Palestina? Un libro, sia pure impostato con un importante pensiero critico, può tenere il passo con ciò che viviamo ogni giorno, con questa Auschwitz in diretta del genocidio palestinese? Mentre a Gaza si muore di fame? Si uccide di fame, anzi. E siamo noi i carnefici, gli assassini: noi, alleati, di fatto, di Israele?

Provate a leggere il libro di Marco Monfredini, Il Teatro nei luoghi di conflitto, che la casa editrice Meltemi ha pubblicato il 5 settembre u.s.

Ancora un libro per tenere alta l’attenzione sulle vicende della striscia di Gaza?

Precisiamo subito che in questo libro non si racconta della Gaza di oggi: non si vedono le macerie, i corpi, i bambini, la fame. I sudari. C’è la Cisgiordania. Il focus è sulla realtà dei territori occupati palestinesi denominati West Bank, luogo lacerato da decenni dal conflitto arabo-israeliano con il quale le comunità locali vivono quotidianamente. E per questo, comunque, Gaza c’è. Drammaticamente, Gaza c’è tutta.

Sul titolo

Il Teatro è l’oggetto principale della ricerca. Ma non è un saggio per far conoscere il poco indagato rapporto, almeno in Italia, fra il teatro e la cultura palestinese. Non è nemmeno una riflessione sul teatro nei contesti di guerra.

A volte il teatro è stato usato come veicolo per la propaganda politica per esaltare la guerra, ma fin dalle sue origini, con la tragedia greca, ha piuttosto denunciato gli orrori della guerra e della violenza, in prima linea per far vincere la pace. È stato scritto che “mai come a teatro -basti pensare a Shakespeare- sono state indagate a fondo le ragioni dell’odio e della rivalità tra individui, comunità e nazioni”.

A Monfredini non interessa il teatro come osservazione passiva ma il teatro come pratica di riflessione, reazione, partecipazione, allo stesso tempo ascolto e azione, luogo di accoglienza e di trasformazione. Luogo di resistenza ma anche di costruzione.

Il termine “conflitto” viene, generalmente, utilizzato come se fosse un contenitore generale, una sorta di parola-scatola, che ne racchiude molte altre anche di significato completamente diverso, se non a volte addirittura contrastante. Nella cultura italiana, infatti, sempre più veicolata dagli strumenti mediatici, il termine conflitto presenta un range di significato molto ampio, che va dalla semplice discussione fino alla guerra o addirittura al genocidio, passando per il litigio, il contrasto e la prepotenza.

Nel libro il termine “conflitto” è riferito di più all’area della competenza relazionale. È urto, scontro, moto continuo. È distinto dalla violenza e dalla guerra che, invece, appartengono all’area della distruzione fine a sé stessa, cioè alla eliminazione relazionale.

Mi piace parafrasare il titolo del libro con: “Il teatro come arte del pensiero critico per costruire relazioni sociali in Palestina”.

Il libro, di 283 pagine, è diviso in due parti: una parte teorica e una seconda parte in cui sono raccontate le esperienze della compagnia Anticamera Teatro di Torino; segue una ricchissima appendice iconografica.

La parte teorica, dopo aver analizzato il rapporto tra cultura palestinese e teatro, studia quest’ultimo con duplice sguardo: “interno” ed “esterno”.

Il lavoro delle compagnie teatrali palestinesi, nella loro lunga storia, ruota soprattutto intorno a tematiche legate all’occupazione israeliana e agli scontri ricorrenti con i coloni ebrei insediatisi progressivamente in tutta la Cisgiordania. Il teatro palestinese è in prima fila per la liberazione della Palestina, è denuncia aperta delle ingiustizie, è sfida continua ai tentativi sionisti di descrivere i palestinesi attraverso stereotipi legati esclusivamente al conflitto. Ma non poche sono le difficoltà che il teatro palestinese incontra: dall’ovvio prevalere dell’attenzione ai bisogni primari rispetto alle discipline artistiche, dalla situazione geopolitica che lo costringe a fare i conti con la forte frammentazione sociale e con un contesto territoriale in continua mutazione, dalla difficoltà di far convergere le diverse esperienze artistiche e teatrali all’interno di un unico sistema culturale “nazionale”.

Monfredini, con riferimento a quattro “isole culturali” (e quindi anche teatrali) presenti in Palestina, va oltre la frammentazione e diversità delle esperienze artistiche e trova una sintesi in due elementi: la determinazione di opporsi all’oppressione e l’obiettivo di fare un teatro che sia manifesto della identità di un popolo.

Lo sguardo interno sul teatro palestinese si concentra, in particolare, nel racconto delle due compagnie teatrali: la Al-Harah Theatre (un teatro per lo sviluppo della comunità) e la The Freedom Theatre (arte, resistenza e libertà), che da anni operano in Palestina.

Nel quarto capitolo della ricerca è descritto lo sguardo esterno.

In uno Stato-non Stato come quello palestinese (senza un aeroporto internazionale, in cui manca la libertà e il controllo dei propri confini, con le enormi limitazioni imposte agli spostamenti all’interno della Cisgiordania) è resa drammatica non solo la sicurezza di milioni di persone, non solo è inimmaginabile la situazione reale economica, ma ancor di più è senza futuro lo sviluppo socioculturale e politico della Palestina. La situazione degli aiuti internazionali, in tutti i settori, è piuttosto articolata.

Con queste premesse, la ricerca di Monfredini racconta l’esperienza di Astragali Teatro di Lecce, guidata dal regista Fabio Tolledi, che, tra il 2009 e il 2010, ha realizzato il progetto denominato “Road and Desires: Theatre Overcomes Frontiers” e ha portato la sua compagnia in diversi luoghi della Cisgiordania. Ha scritto Tolledi: “La pratica culturale, chiaramente, rappresenta un elemento cruciale nell’affermazione di esistenza e di vitalità di donne e di uomini altrimenti condannati alla sparizione. […] è la principale forma di resistenza che rivendica a sé il diritto alla esistenza”.

Segue il racconto dell’esperienza del Teatro dell’Argine di San Lazzaro di Savena (BO). Si possono leggere le tappe più significative del Teatro dell’Argine nella West Bank, realizzate in collaborazione con la compagnia teatrale palestinese Al-Harah Theatre. Il regista Pietro Floridia con lo spettacolo Metamorfhosis del 2004 mette in scena che significa fare teatro in Palestina e il passaggio da un teatro con “uno spettatore stanziale” a uno con “uno spettatore in cammino”. Nel 2014 Floridia, partito per lavorare a un progetto che coinvolgeva Al-Harah Theater, Teatro dell’Argine e Oxfam Italia, co-finanziato dalla Commissione Europea, dal titolo Shakespeare’s Sister, per studiare la condizione della donna palestinese al di fuori del contesto familiare, all’aeroporto di Tel Aviv è stato fermato dalla polizia israeliana, interrogato ed espulso per cinque anni da Israele.

Il cuore del libro è il racconto dell’esperienza Anticamera Teatro di Torino.

Dopo un seminario residenziale del progetto Teatro ed arti multimediali. Strumenti di pace, promosso dal Consolato d’Italia a Gerusalemme, dal Ministero della Cultura e dall’Autorità Nazionale Palestinese e svoltosi a Polverigi (Ancona), Monfredini vive per quattro mesi, nel 2012, in Cisgiordania. Al rientro la sua compagnia Anticamera Teatro si dà l’obbiettivo di approfondire il tema della separazione e delle barriere. Il primo progetto impegna la compagnia per un intero mese di residenza (novembre 2012) nel campo profughi di Balata (Cisgiordania), una delle aree più densamente popolate al mondo: trentamila persone vivono in un chilometro quadrato. Da questa esperienza nascono uno spettacolo e un blog che raccontano il laboratorio teatrale con ragazzi e ragazze palestinesi. Nel blog raccontano il valore che essi attribuiscono al teatro e all’esperienza di vita all’interno del campo. Lo spettacolo, invece, va in scena a Balata e a Nablus. Il gruppo, rientrato in Italia, realizza un secondo tempo dello stesso spettacolo durante una residenza presso le Officine Caos di Torino.

Nel 2015 la compagnia parte per un nuovo mese di lavoro nei territori occupati a Balata. Ma svolge anche un workshop in un centro culturale con giovani di Gerusalemme.

Nel 2017, dopo una rigorosa selezione di due attrici e di un interprete, la compagnia studia un progetto di mini-workshop sul tema: “Quali conflitti genera il conflitto” da svolgere a Jala e a Ramallah in tre mesi. Dopo aver terminato i provini in Italia, la compagnia viene bloccata all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Direttore e Organizzatrice vengono reclusi in una cella detentiva con l’accusa di “considerazioni legate alla prevenzione di immigrazione illegale” ed espulsi da Israele con l’obbligo di non tornare nei territori occupati per un periodo di tempo indefinito.

La compagnia, non potendo più tornare in Palestina, ha continuato a dare seguito al progetto elaborato con un documentario, che è stato presentato in prima mondiale nel 2018 in Nicaragua, poi ai cineporti di Bari e di Lecce, al Salone Internazionale del Libro di Torino, al Cine Teatro Baretti di Torino, ecc..

Nel 2023, la compagnia, con un bambino piccolo, Leon, figlio della coppia fondatrice a cui è dedicato il libro, è riuscita a tornare in Palestina. Il rientro in Italia era previsto la mattina dell’ingiustificabile eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre. L’attacco blocca i tre all’aeroporto di Tel Aviv. Rientrano in Italia dopo un romanzesco giro dell’Europa. La compagnia non dispera di poter continuare il lavoro del teatro nel luogo di conflitto della Cisgiordania, in forme diverse e con maggiore determinazione.

Il diario delle quattro permanenze in West Bank che la compagnia Anticamera Teatro ha vissuto è pubblicato nella seconda parte del libro. Avvincente è la lettura del diario della espulsione del 2017 e ancora più avvincente il racconto del 7 ottobre vissuto nell’aeroporto di Tel Aviv in contemporanea con l’orrendo massacro di Hamas.

L’autore o meglio gli autori

Un libro, oltre che su un titolo, è centrato anche sull’autore. A leggere questo testo attentamente, a partire dalla dedica e finire ai ringraziamenti, gli autori sono tantissimi. Mi sembra un libro di compagnia e non d’autore. Come in un film: in cui, alla fine, tutti sono abituati a vedere decine e decine di nomi di cui nessuno riesce esattamente a scindere cosa ha fatto ognuno (regista, soggettista, dialogo, fotografia, musica, costumi, attori…). Si ricorda forse il nome del regista, ma è pacifico che il soggetto, cioè il contenuto, cioè talvolta il più, non è solo suo. Così è per questo libro.

Conclusioni

Il libro Il Teatro nei luoghi di conflitto, centrato su fatti vissuti prima del 2023, aiuta a capire e a dire il vero su una semplice considerazione: il 7 ottobre 2023 è solo un drammatico anello di una lunga storia ancora più drammatica subita dal popolo palestinese.

Quel “dire il vero” è ciò che i Greci chiamavano “parresia”: un dire la verità in pubblico il cui peso e la cui responsabilità venivano assunti tutti interi da chi lo praticava. Il libro non serve solo a porre più attenzione sulla Palestina, ma serve a far tornare il rimosso della storia palestinese così come si racconta in questi ultimi anni in occidente. Serve a far cadere il velo di tanta ipocrisia dai nostri occhi che guardiamo da lontano al dramma di un popolo e alla sua lotta per la sopravvivenza. A pagina 151, nel diario, si legge: “Dopo un po’ arriva il fratello di Rasmi. Ci racconta, con l’aiuto di Islam che traduce per noi, che è stato in prigione per quattro anni e mezzo. È stato arrestato quando aveva 15 anni perché era di fronte a una prigione israeliana sui monti di Nablus e aveva addosso una cintura esplosiva. Non lo hanno ucciso solo perché c’era la stampa che registrava. Ci mostra il video del suo arresto. Gli faccio diverse domande sul “perché”, ma la risposta è più o meno sempre la stessa. E non sono io a doverla giudicare. Cerco semplicemente di comprendere le ragioni. «Per la libertà. Perché il mio paese non è libero»”.

Inoltre, in un tempo e in una cultura occidentale in cui siamo inesorabilmente portati a pensare che l’arte, in particolare il teatro, sia una splendida superfluità, un bene di lusso riservato ai borghesi e super ricchi che stanno bene, un libro sul teatro nei luoghi di conflitto può aiutare a rovesciare queste fallaci certezze e a farci comprendere che anche il teatro può essere una cura: la cura per eccellenza, forse.

Infine, il libro toglie il “muto” sulla Cisgiordania, dimenticata rispetto all’abisso di Gaza ma parte di un unico disegno: cancellare il popolo palestinese.

Ma cosa può dire un libro per il futuro della Palestina? Forse nulla.

Ma può restituirci un modo concreto di stare al mondo dalla parte dei palestinesi e il desiderio di continuare a starci. Come hanno fatto gli autori di questo libro.

16 settembre 2025

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