
Considerazioni a margine di un’intervista a Massimo Cacciari
Maria Paiano*
Le settimane a cavallo tra la fine di un anno e l’inizio di uno nuovo sono spesso occasione di bilanci e di riflessioni sul presente e sul futuro. Tra le riflessioni, alcune hanno tratto sollecitazione dal Giubileo indetto da papa Francesco il 9 maggio 2024, in una congiuntura internazionale resa particolarmente drammatica dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Tale congiuntura si è aggravata negli ultimi mesi, fino a raggiungere tra Natale e l’Epifania – proprio nelle settimane delle diverse aperture della “Porta Santa” da parte del pontefice – livelli di violenza (perpetrata soprattutto ai danni di popolazioni civili) che hanno turbato (e continuano a turbare) almeno alcune delle coscienze di chi ha il privilegio di poterli soltanto osservare da lontano. È tuttavia un fatto che per molti (stando almeno alle informazioni e narrazioni divulgate dai media) quella violenza resti inevitabile e necessaria, nel nome di una lettura della teoria della “guerra giusta” che assegna un assoluto primato al principio della “giusta causa”, in particolare la difesa, soprassedendo sul fatto che quella stessa teoria prevede il contestuale rispetto della proporzione tra mezzi e fini (dunque dei diritti umani).
Quanti provano disagio di fronte a queste disinvolte legittimazioni morali delle guerre in corso e delle modalità con cui vengono condotte potrebbero dunque convenire con la tragicità dell’orizzonte nel quale il filosofo Massimo Cacciari, nell’intervista pubblicata sul «Corriere della Sera» del 24 dicembre scorso, inscrive la cultura contemporanea, rilevandone la diffusa distanza (anche con riferimento ad altri comportamenti) da elementari princìpi di umanità. Il contesto dell’intervista, centrata sul Giubileo e sul magistero di Francesco, spiega forse il fatto che Cacciari (intellettuale laico al di sopra di ogni sospetto di confessionalismo) abbia stabilito un nesso stretto tra deriva umanitaria, «scristianizzazione» ed eclissi dei principi del Vangelo. Il suo discorso sollecita tuttavia considerazioni più ampie sulla collocazione del cristianesimo nelle società multietniche e multireligiose contemporanee, come pure sul rapporto che esso ha avuto nel corso della storia con i princìpi inscritti nelle sue fonti, e in particolare nella predicazione della figura storica di Gesù (Cacciari richiama in particolare «le parole del Vangelo, le Beatitudini, il Samaritano»).
Riguardo la prima questione, si può forse osservare che la perdita di egemonia culturale del cristianesimo non si debba necessariamente tradurre nel venir meno di valori come la pace e la solidarietà, e più in generale di elementari principi di umanità. Questi valori e principi sono trasversali a diverse religioni, oltre ad essere presenti anche in culture che si professano atee. Nelle religioni che li professano (tra le quali mi pare di poter includere le tre religioni del libro: oltre al cristianesimo anche ebraismo e islam) hanno trovato, nel corso della storia, declinazioni diverse, dipendenti da una pluralità di fattori: dal metodo di lettura delle fonti nelle quali sono inscritti (letterale, allegorica, storico-critica) alle mediazioni trovate con le culture con cui sono entrati in rapporto, agli spazi di traduzione concreta consentiti da ogni specifico contesto. L’intreccio delle diverse variabili ha potuto tuttavia portare quelle stesse religioni, attraverso vari percorsi, ad elaborare discorsi che si allontanano anche significativamente dai principi che dovrebbero professare. Malgrado il Vangelo, ad esempio, la dottrina cristiana della guerra giusta ha dato un contributo quasi bimillenario alla legittimazione della violenza bellica, giungendo anche a sacralizzarla e ad emarginare e delegittimare, fino a tempi recenti, la nonviolenza come percorso alternativo alla soluzione dei conflitti. Analoghe dinamiche sono rinvenibili anche nell’ebraismo e nell’islam.
In generale, le religioni si configurano come tradizioni culturali nelle quali sono depositati princìpi che in senso ampio potremmo definire “di umanità”, ma che spesso hanno elaborato discorsi che hanno giustificato comportamenti e orientamenti ad essi contrari. Bisognerebbe forse riflettere maggiormente sul fatto che il loro ritorno nello spazio pubblico a livello planetario, dalla fine degli anni Settanta, non abbia portato ad un mondo più pacifico, tutt’altro. Il fenomeno sembra essere non senza rapporto con le declinazioni fondamentaliste spesso assunte da quel ritorno, all’insegna di un’intransigenza che difende l’ortodossia di elaborazioni dottrinali la cui origine è storicamente determinata e cerca di imporsi attraverso la conquista del potere politico, o il supporto a movimenti e partiti disponibili ad assumere le proprie rivendicazioni. Sembra esser questo il percorso attraverso cui il fondamentalismo religioso ha alimentato (e continua ad alimentare) il bacino elettorale delle destre politiche populiste nelle democrazie occidentali (pur senza esserne l’unica componente). In questo quadro mi pare possa collocarsi anche il progetto di neocristianità sotteso ai pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, oggi rievocato dai programmi dei partiti che sono tornati ad assumere il motto «Dio, patria e famiglia».
Negli stessi decenni, tuttavia, le stesse religioni hanno espresso anche sensibilità diverse, che hanno investito nell’impegno per la promozione di valori di fondo piuttosto che nella difesa di rigide elaborazioni dottrinali. Per questa via, hanno sviluppato una disponibilità all’incontro e alla collaborazione su terreni di impegno individuati come comuni, tra i quali quello della costruzione della pace. Su questo tema, in particolare, soprattutto dopo la giornata di preghiera convocata da Giovanni Paolo II ad Assisi il 27 ottobre 1986 – cui parteciparono 50 rappresentanti delle Chiese cristiane (oltre ai cattolici) e 60 rappresentanti delle altre religioni mondiali – si sono sviluppati diversi incontri di preghiera interconfessionali, talora poco evidenti e silenziosi. Essi hanno continuato a svolgersi anche dopo lo scoppio della guerra in Ucraina e l’attentato di Hamas del 7 ottobre 2023.
In effetti, guardando al di sotto del pur spesso strato di orrori quotidianamente riportatoci dai mass media, possiamo cogliere anche una mobilitazione per la pace, espressione dell’iniziativa di singoli e di culture di matrice religiosa e non religiosa, che ha assunto forme diverse. Accanto alle iniziative promosse da Pax Christi International (che su sollecitazione di Francesco ha recentemente fondato un Istituto cattolico per la non violenza) vi sono quelle del movimento non confessionale World beyond war, nato nel 2014, come si legge sul suo sito, con lo scopo di «creare un movimento globale per abolire l’istituzione della guerra stessa, non solo la “guerra del giorno”».
Al confine tra culture religiose e non religiose, sempre sul problema della pace, si può segnalare anche come in Medio Oriente esistano, già da tempo, organizzazioni di donne israeliane (Women Wage Peace, nata nel 2014) e palestinesi (Women of the Sun, nata nel 2021) che lottano insieme per la pacificazione del loro territorio, e che nel gennaio 2024 hanno lanciato, insieme, un “appello delle madri” che chiedeva il tempestivo avvio di colloqui e trattative di pace. Nell’appello si diceva anche: «Noi crediamo che la maggioranza dei popoli delle nostre nazioni condivida le stesse aspirazioni».
In effetti, il disagio per i livelli di crudeltà raggiunti dalle guerre contemporanee sembra essere più diffuso e profondo di quanto la propaganda a loro favore (di cui si fa spesso veicolo la narrazione dei principali organi di informazione) non lasci pensare. L’iniziativa di un gruppo di giovani ebrei americani di recarsi in Cisgiordania per piantare ulivi e cercare di aprire spazi di dialogo tra palestinesi e israeliani ne costituisce una significativa emergenza. Così pure, i suicidi dei soldati israeliani tornati da Gaza per quanto hanno visto e operato, attestano che anche in chi si rende materialmente responsabile di atrocità i valori di umanità non sono scomparsi. In varie forme, sono ancora oggi vivi e dolorosamente presenti in moltissimi, a prescindere da appartenenze religiose.
Confido che sia, o che possa essere, la maggioranza. È l’impressione che ho, a volte, quando ascolto le telefonate dei radioascoltatori dopo la rassegna stampa di «Prima Pagina» su Radio3. Ma anche nelle relazioni quotidiane con giovani, adulti e anziani, in diversi contesti. Il problema è che questi valori e prospettive alternative alle logiche che oggi presiedono alle scelte di politica nazionale e internazionale non riescono a farsi esse stesse progetto e forza politica.
Il primato assegnato da papa Francesco alle “periferie” sembra essere in rapporto anche con la percezione di queste ultime come luoghi marginali che, soprattutto quando esprimono disagio, possono ancora essere orientate verso attese di cambiamento sul piano individuale e collettivo coerenti con valori (per i cristiani radicati nel Vangelo) che il “centro” non è in grado di rappresentare, e ancor meno di promuovere e tutelare: soprattutto quando coincide con il potere politico. Si tratta, in ogni caso, di una scelta coerente con il convincimento, più volte manifestato dal suo magistero, che l’annuncio del Vangelo debba percorrere strade diverse dalla riproposizione del ritorno ad una qualunque forma di cristianità (dunque di ricostituzione di un potere cristiano).
Gli esiti di questa scelta sono difficilmente valutabili con i criteri quantitativi con i quali si è talora soliti misurare l’incidenza di una religione in una società (nel caso del cattolicesimo, ad esempio, i “messalizzanti”). Lo sono ancor più, almeno nel breve periodo, se si assume come indice la mobilitazione culturale e sociale su quei valori e la sua traduzione in un’opinione pubblica capace di incidere sugli orientamenti dei vari “centri” (in particolare quelli di potere). Gli attuali rapporti di forza su scala globale sono tali da far ritenere l’attivazione di tali processi un’impresa disperata, tanto più in quanto si inscrivono in un quadro di crisi dei valori liberali e democratici, inscindibili dalla promozione e dal rispetto dei diritti umani. Ci si può chiedere se Francesco abbia dedicato l’ultimo Giubileo del suo pontificato al tema della speranza non solo per la consapevolezza delle punte di drammaticità raggiunte dalle emergenze umanitarie negli ultimi anni (in larga parte per gli effetti diretti e indiretti delle guerre) ma anche per l’incertezza sulla capacità di incidere positivamente su di esse dalla formula, sotto molti aspetti inedita, del suo pontificato.
*Università di Firenze

