
Grazia Lupo Pendinelli
La consulenza filosofica è un mestiere senza attrezzi, è un artigianato a mani nude, è una perizia dello sguardo, è una maestria della pelle.
È un evento di relazione e per darsi presuppone, in coloro che si prestano alla ricerca filosofica, consapevolezze attraversate e vigilate.
Si tratta di una libera professione perché libera è la filosofia, ma la responsabilità è che si tenga in stato di libertà colui o colei che la propone e la esercita.
Il paesaggio presente in cui è convocata e aperta la possibilità per l’esperimento filosofico ha caratteristiche sempre più irregimentate e inamovibili. Nel libro La consulenza filosofica può curare, Pier Aldo Rovatti, si spinge in un’analisi sincera e impopolare per svelare i modi da cui la filosofia deve dissociarsi e distinguersi al fine di conservare e tutelare la possibilità di esprimersi come cura di sé e pratica di libertà, in un accurato e meticoloso esercizio critico sulla realtà.
La consulenza filosofica è indisciplinata, non soggiace alle norme riconoscibili nelle imperanti pratiche di cura in cui “il soggetto terapeutico si esprime passivo e slegato e nella relazione terapeutica la malattia è la medicina e la cura è il persuadersi di essere malato.” Passivo perché accoccolato in “una crescente inadeguatezza personale di fronte alla gamma dei problemi reali” perché privo dello spazio agonistico del conflitto in cui esprimere fino allo stremo, per poi ricominciare, l’esercizio critico e il domandare.
Passivo perché spiegato all’imperativo dell’individuo che può farsi da solo – il self made man – e se non accade, il più delle volte in verità, è inabile al cambiamento perché slegato dai legami quale traduzione concreta del vivere sociale. È un individuo che può tutto, se fallisce è colpa sua.
La società disciplinare di Foucault a cui fa riferimento Rovatti nel suo libro, è soppiantata dalla società della prestazione come sostiene il filosofo coreano Byung-Chul Han.
Il soggetto, meglio l’individuo, non è stretto dalla coercizione ma assunto in una finzione che concede l’effimero di una fasulla libertà, comprime la propria esistenza nella esposizione prestazionale liberamente ostentata nei luoghi paralleli degli spazi virtuali, nei social.
Il soggetto prestazionale naviga nel mondo parallelo, così nominato da un gruppo di ragazzi di 14 anni nel raccontarsi in dad, con la letizia del ristagno e il gaudio della monodimensionalità.
Il dispositivo del like non prevede, infatti, il suo contrario ma la ricerca ossessiva e l’attesa spasmodica dei like in un movimento binario 0 1, 0 1, senza l’inciampo del suo contrario, del non mi piace, del negativo. In metodica rimozione di ogni finitudine.
Un mondo parallelo in cui ci si esprime con la propria individualità, con la libertà incorporata, per lo più irresponsabile, con il clic univoco ed esclusivamente senza storia.
Senza narrazione, in una espansione prevaricante del presente e in un processo del pensiero sempre più corto e stitico. I social più frequentati prevedono un esclusivo utilizzo dell’immagine fotografica prodotta in modo bulimico e in pieno analfabetismo della grammatica della fotografia.
“Nella fotografia digitale ogni negatività è cancellata. Non ha bisogno né della camera oscura, né dello sviluppo. Nessun negativo la precede: è un punto puro positivo. Il divenire, l’invecchiare, il morire sono cancellati:
non solo essa (la foto) condivide la sorte della carta (è deperibile), ma, anche se fissata su dei supporti più solidi, è pur sempre mortale: come un organismo vivente, essa nasce dai granuli d’argento che germinano, fiorisce un attimo, poi subito invecchia. Attaccata dalla luce, dall’umidità, essa impallidisce, si attenua, svanisce.” (Roland Barthes in La camera chiara)
Roland Barthes associa alla fotografia una forma di vita, per la quale è costitutiva la negatività del tempo. Essa, però, è vincolata alle sue condizioni tecniche, in questo caso il suo essere analogica.
La fotografia digitale coincide con una forma di vita totalmente diversa, che si svincola sempre più dalla negatività. È una fotografia trasparente, senza nascita né morte, priva di destino e di eventi. Il destino non è trasparente. Alla fotografia trasparente manca la concentrazione semantica e temporale. In questo modo, non parla.” (Byung-Chul Han, La società della trasparenza)
Nella società prestazionale l’individuo non è in obbligo, sente invece su un piano emotivamente dominante di fruire di spazi in cui può esprimere le proprie potenze e trarne il riscontro orgasmico dei like, in crescendo. Il soggetto prestazionale è illusoriamente libero, nuovamente passivo è invece annichilito nella perdita della pratica di un pensiero critico; gravemente slegato perché svuotato della sua medesima corporeità, quindi di ogni corpo a corpo con l’alterità, anche la propria, quella del perenne stato dialogico che, nel Socrate, Hannah Arendt riconosce come distintivo dell’umano.
La consulenza filosofica per mettere al mondo, nell’infra dei corpi, perché siamo ancora corpi, una possibilità di cura deve proporsi come un viaggio contromano e inaugurare, una volta per tutte e ogni volta, la lotta per una politica delle soggettività, uniche e plurali.
Lo spazio fisico, carnale della relazione duale per la consulenza filosofica o del cerchio evocativo di un originario utero materno per le pratiche filosofiche di gruppo, deve configurarsi come lo spazio singolare e collettivo di resistenza.
La consulenza filosofica è inaddomesticabile. Si tratta di un processo in cui la potenza della cura dischiude, per coloro che sono nel dialogo aperto, l’esperienza del rischio e la condizione dello spaesamento. L’individuo che incontra e chiede il contatto con la consulenza filosofica non può accarezzare l’attesa e la pretesa di ingegnare forme di supplenza per le proprie carenze. Al contrario, il primo atto della ricerca filosofica è quello di aprire scenari critici, di rinnovarsi nella fastidiosa e urticante funzione di tafano.
Nella visione che tento di parteciparvi, esprimo con chiarezza una predilezione per le pratiche filosofiche di gruppo: in esse può esprimersi il bisogno singolare di affondare lo scavo in una relazione dialogica duale, nella consulenza filosofica. Favorire lo scorrere di scosse telluriche, promuovere il contraddittorio cruento nel conflitto, abitare la situazione come teorizza Michele Benasayag e riconoscerne tutti i tropismi e le molteplici pieghe è possibile, desiderabile nelle pratiche di gruppo. Può avvenire in una collegialità che, nel precipitare sul limitare dell’abisso, osa guardare quel che c’è, si fida di sbirciare e scrutare i mondi nella luce aurorale che conserva imperfezione e fuori controllo. Le pratiche filosofiche trattengono il facilitatore, la facilitatrice in una postura di allerta, di responsabilità, di messa in gioco; nella consulenza filosofica, nella dualità e in un setting in cui una parte ha manifesto bisogno o vulnerabilità può affacciarsi la minaccia di ostentare un ruolo con ammennicoli di potere.
Rovatti nel suo libro ricordava gli esiti sociali e psicologici dell’attentato alle torri gemelle del 2001, quale evento inaugurante un tempo di stress da trauma, di usura certosina delle risorse individuali, di corrosione fondamentale delle potenze politiche socialmente legate.
Il fatto straordinario avvenuto nel 2001 con il portato di trauma è diventato, evidentemente, lo stato ordinario: l’espressione stato di eccezione, largamente usata per la pandemia, è un confusivo linguaggio che perpetua il trauma a favore di una sempre più radicale esautorazione della presenza e della partecipazione delle soggettività alle proprie vite e alla vita politica. In uno scenario siffatto gli individui implorano consolazione e convalidano la relazione terapeutica che ratifica le impotenze e conserva la cecità a difesa dall’angoscia, quale primario portato di un rischio oramai strutturale. L’angoscia originaria, la morte, se pur nella rimozione metodica e sistemica è presente e determinante, consustanziale al potere e linfa delle sue determinazioni.
L’angoscia primigenia e ineluttabile, l’alfa e l’omega, la presenza materica di ciò che portava i greci a nominarsi con il nome proprio dell’angoscia: la morte. Da fuggitivi della mortalità si può osare un’esperienza di libertà soltanto se generata nella pratica politica quale spazio in cui i mortali esprimono la loro unicità nell’essere pluralità in relazione e capaci di aprire nuovo inizio, la natalità, con il discorso e con l’agire. È Hannah Arendt.
Nel libro dal titolo Per gioco di Pier Aldo Rovatti e di Alessandro Dal Lago c’è un capitolo dedicato al rischio analizzato in un percorso storico in cui si osservano la genesi e la fenomenologia connesse alle esperienze economiche.
“Ci siamo svegliati, per così dire, dal sonno della sicurezza e ci siamo ritrovati in un mondo divenuto globalmente integrato e proprio per questo globalmente insicuro. Paradossalmente, l’unificazione spaziale e temporale dei nostri orizzonti non ha ridotto i rischi ma li ha moltiplicati. Una lontana speculazione fallita alla borsa di Chicago è come un impulso che si propaga istantaneamente fino alle piccole esistenze, bruciando i risparmi di una vita o minacciando dei posti di lavoro. Così, l’incertezza cognitiva, che aveva ridotto un tempo i rischi della vita materiale a semplici alternative (il profitto o la perdita, il successo o la mediocrità, la fama o l’anonimato) si ritira oggi di fronte all’immanenza del rischio. I giochi dello scambio sono ridivenuti pericolosi.
Si può affrontare razionalmente il rischio? Esistono intere biblioteche che lo affermano, ma mi si consenta di notare che spesso l’ottimismo di queste risposte riposa su una premessa sbagliata. Se gli scopi ultimi di tutto l’affanno umano possono anche essere considerati convenzionalmente razionali (la sopravvivenza materiale, il prolungamento della vita, il benessere, perfino la “felicità”), le condizioni in cui esso si esercita sono troppe, e troppo contraddittorie, per essere considerate razionali. Perché l’essere umano non è solo un homo oeconomicus, ma un essere fabulatorio – un essere che non solo calcola ma sbaglia ed elabora complicate giustificazioni dei suoi errori. Un essere, oltretutto, che è molto più disposto a morire per le proprie favole (la religione o la nazione, l’amore o il profitto), che per le proprie ragioni. Qui è la fonte di ogni rischio, ma qui anche l’origine della varietà dell’esistenza. (Pier Aldo Rovatti, Alessandro Dal Lago in Per gioco)
La consulenza filosofica è inaddomesticata perché, nella tensione di una pratica autentica, osa il rischio per risimbolizzare categorie disperse. Quella del “credito”, ad esempio, fondativa del rapporto tra esseri umani e del rapporto economico. Il dialogo si inaugura sul sentiero del credito, della fiducia, su una affidabilità e un affidamento che scaturiscono dai corpi in presenza, accesi al rischio quale ferita fessura originale della varietà dell’esistenza.
Soltanto ponendo in tutela la indocile disobbedienza filosofica per mantenere la pratica filosofica indisciplinata e inaddomesticata si può concepire una pratica che sia anche potente sovversione, una pratica politica minoritaria che riguarda pochi soggetti ma è in grado di narrarsi a tutti e a tutte.
La sovversione è il movimento contromano, il cambiamento concreto che può un corpo. È l’azione circoscritta di cui scrive Benasayag, è ciò che può un corpo situato e in relazione; è contatto con il limite e incarnazione dei possibili contro la vacuità di una anelata rivoluzione.
L’essere umano può il cambiamento, nelle potenze di una misura di greca memoria, nella ideazione e nel costruire – in collegialità – un’azione circoscritta. Non può cambiare il mondo, può agire nella potenza del proprio corpo e realizzare in una dimensione ristretta ciò che sa parlare a tutti e a tutte. La sovversione è, anche, nell’attraversare il rischio, sostare nell’angoscia, trattenersi nella complessità incontrollata di una globalità che rinnova le memorie di fragilità e di dipendenze e promuoversi luogo in cui si può dire il vero su di sé. Il dialogo, quindi, luogo di parresia.
Dire il vero su di sé, come sostiene Foucault in una lezione del 1 febbraio 1984, in una pratica di affidamento e di consegna di sé ad un soggetto che non ricade nelle istituzioni di controllo, quella cattolica o quella psi, ma ad un soggetto che in sé e da sé esprime il rischio del gioco parresiastico: dire la verità e sentire la verità. Il dire il vero su di sé ha il presupposto faticosissimo di portare attenzione alla parola, l’attenzione che Simone Weil dichiara essere la forma più rara e più pura della generosità. L’attenzione alle parole è il gesto di relazione mentre la parola costituisce la politica, quindi la libertà.
Il dire il vero su di sé non è unilaterale, univoco e unidimensionale. Non interessa soltanto il consultante o il gruppo, non è il portato di una sola voce o di una sola biografia, è duale e collettivo in ogni situazione.
Il dire il vero su di sé è ciò che può avvenire nelle pratiche filosofiche se si intende e si interpreta il costante esercizio del partire da sé, nella relazione. Il partire da sé è una espressione distintiva e cara ad altre pratiche storicamente prossime, attualmente rimosse che ritengo, invece, fortemente affini alle pratiche filosofiche. Si tratta delle pratiche femministe.
I soggetti coinvolti nelle pratiche femministe erano donne, perché nelle donne nasceva la insurrezione necessaria per mettere al mondo il cambiamento.
La proposta e la richiesta di sperimentarsi nelle pratiche filosofiche deve attraversare il setaccio della verità della insubordinazione, chiara o implicita, a ciò che c’è.
Tale condizione, a mio parere, dovrebbe essere il presupposto di qualsiasi pratica di ricerca. È l’insubordinazione, la ribellione che accende il movimento della ricerca; le facce della rivolta sono molteplici e soltanto un partire da sé coraggioso può affinare l’attenzione e rendere possibile quella parresia che solleva il velo su ciò che c’è: inaugura lo svelamento.
Il partire da sé è un darsi dentro la relazione come soggetto e come soggetto nascere nel discorso, nel mondo e nel cosmo in un esperimento maieutico che abita il passo razionale stringendo la irrequieta vivente molteplicità dei corpi.
Il partire da sé era postura necessaria per entrare nella pratica femminista dell’autocoscienza.
“Il piccolo gruppo di autocoscienza fu per molte donne il luogo sociale in cui poterono per la prima volta parlare apertamente della loro esperienza e questo parlare aveva un valore riconosciuto. Prima, essa era materia umana invisibile e dispersa che il corpo sociale consumava quasi senza saperlo e alla quale non si dava prezzo, dis-prezzata. … All’interno del gruppo era sostenuta la tesi di una intrinseca autenticità del vissuto personale e quindi della parola che lo significa. L’autenticità era assolutizzata, nel senso che non ci sarebbe altra possibile autenticità per le donne che riferirsi a ciò che vivono in prima persona.” (Non credere di avere dei diritti, Libreria delle donne di Milano) Il partire da sé è riconoscersi corpo situato, groviglio di biografie e di geni e contiene, sempre, quella materia umana coacervo di storie di immaginazione e di viventi vissuti da svelare: è il dire il vero su di sé. L’esposizione del soggetto al proprio inferno, allo sguardo e alla parola dell’altra.
Il partire da sé, inizio e movimento, delle pratiche femministe ha caratterizzato la pratica dell’autocoscienza ritenuta da una bell hooks, filosofa attivista, un passaggio imprescindibile nei processi di cambiamento personale e politico. L’autocoscienza che nasce come pratica separatista, per bell hooks doveva essere promossa anche tra gli uomini invece l’assorbimento della ricerca femminista nei contesti accademici con gli studi di genere, e lo stigma perdurante del mainstream sul movimento femminista etichettato ostile agli uomini, ha interrotto una pratica che, altrimenti, avrebbe
favorito un inizio di riflessione e di nominazione di quel che c’è anche per gli uomini.
Da DALLA MAIEUTICA DEL LOGOS ALL’ABORTO DEL PATRIARCATO per un filosofare generativo di cuori pensanti in relazione di Graziella Lupo Pendinelli – Venezia Cà Foscari, 2 luglio 2022 – Master in Consulenza Filosofica

