La comunità cristiana di base di Conversano è stata una delle più note e più longeve esperienze del dissenso cattolico negli anni ’70 al Sud. Nessuna eresia, solo uno stile evangelico, distante dal potere e vicino alla gente semplice. Ma questo bastò nel 1970 al vescovo di allora, Antonio D’Erchia, per reprimerla duramente sfoggiando autoritarismo e rifiuto del dilaogo. Ora che la diocesi di Monopoli-Conversano ha chiesto al Comune di Monopoli di intitolare a “don Tonino Bello e a Mons Antonio D’Erchia” due strade della città e l’Amministrazione Comunale ha avviato le relative procedure, qualcuno ricorda come si comportò il vescovo di allora, di cui pochi hanno memoria. Il Gruppo di Preghiera don Salvatore Carbonara contesta l’intitolazione.
Il 6 giugno scorso, Vincenzo D’Aprile, il parroco del Carmine in quel 1970, ingiustamente rimosso, ha diffuso un suo personale ricordo di quella esperienza che pubblichiamo con molto piacere di seguito. Quando qualche anno fa siamo entrati in contatto con Vincenzo ci soprese una sua frase: “Non so se tu credi alla Provvidenza, io sì e l’ho sperimentata nella mia vita fino ad oggi”. Infatti il suo lungo scritto si conclude con questa frase: ” Ora a conti fatti, per un insieme di fortuite circostanze favorevoli, posso ritenermi un uomo fortunato: famiglia, lavoro, figli, quattro nipoti, tanti amici. E da una ventina d’anni riesco a godermi anche la pensione!”
Che si intitoli o meno la strada di Monopoli al suo dimenticato vescovo degli anni ’70, è molto interessante ricordare questa storia da cui emergono molti personaggi dell’epoca, come l’On Peppino Di Vagno sindaco di Conversano e come don Cosmo Ruppi divenuto poi arcivescovo di Lecce che mostrava già allora, come si coglie da queste brevi battute di D’Aprile, i caratteri del suo futuro episcopato.
Prima di lasciargli la parola vogliamo riprendere un brano da un libretto sulla comunità di base di Conversano relativo proprio a Vincenzo.
« Un altro personaggio della vicenda è don Vincenzo D’Aprile, trentunenne parroco del Carmine in Conversano, sensibile alla problematica del Concilio che cerca gradatamente di passarla alla sua gente. Uomo dallo spirito di iniziativa molto vivo, si sente in dovere di far rivivere nella sua situazione le letture progressiste italiane e straniere (messe a disposizione di tutto il clero da un’attenta editoria).
Egli anche segue con attenzione quel gruppo di preti chiamati solidali i quali si pongono come forza di contestazione nella struttura rigidamente gerarchica della Chiesa, rifiutandosi contemporaneamente di fare neoclericalesimo di sinistra, ma presentando esperienze condotte con la loro base.
Don Vincenzo, è però soprattutto attento al popolo della parrocchia a lui affidata. Perciò insieme con la gente sente la necessità di abolire le tariffe obbligatorie nelle funzioni religiose, causando la reazione rabbiosa dell’« altro » clero, contestato non solo da un proprio collega di casta, ma daisuoi stessi fedeli che vogliono capacitarsi del differente comportamento.
Vincenzo, davanti alla reazione, cerca un dialogo con i colleghi, causando così il sospetto del vescovo.Ma l’atteggiamento del clero, anche quello strettamente servile al vescovo, sarà in tutta la vicenda molto ambiguo o perché non sufficientemente coraggioso o perché continuamente minacciato di rappresaglie attraverso trasferimento o privazione della scuola di religione e altra forma di taglieggiamento di viveri. Don Vincenzo invece continuerà per la sua strada aprendosi sempre più alle esigenze dei giovani, facendosi portavoce delle nuove esigenze della Chiesa, introducendo nella propria parrocchia le riforme liturgiche più moderne, come la messa dei giovani. Senza dubbio niente di speciale per ambienti più preparati, ma nel Mezzogiorno e in Conversano è il finimondo.
È un uomo che crede al dialogo a tutti i costi.
La struttura gli mette in mano questo strumento in cui lui crede per convinzione. Perseguendo fino in fondo questa strada con tenacia ammirevole, costringe la struttura a scoprire le sue armi, fino al punto di schiacciarlo e di rivelare che non crede al dialogo.
Lo schiaccia con i mezzi più meschini a sua disposizione: non solo attraverso intimidazioni per-sonali, violentando la sua coscienza con minacce canoniche sproporzionate, ma forzando i sentimenti familiari con pressioni verso la vecchia madre, alla quale presentano il figlio come un « eretico ».
Attorno al giovane prete si fa nascere un muro di boicottamento attraverso alcuni suoi colleghi, che cresce fino alla calunnia pubblica. L’ambiente meridionale sfodera tutte le sue armi, affinate dalla perversia di una malintesa « fedeltà » religiosa ».
Conversano, il sistema contro una comunità cristiana. Di Mario Papadia, Qualecultura 1972
IL NOSTRO SESSANTOTTO
Note di Vincenzo D’Aprile
Esigenza di rinnovamento
Il nostro Sessantotto? Tanti sogni, aspirazioni, vivo desiderio di rinnovamento, di aria nuova. Un periodo della nostra vita vissuto nella speranza di un mondo nuovo, migliore. <<Fate l’amore, non fate la guerra>>: era uno slogan semplice e ingenuo; ma tanti di noi lo hanno fatto proprio senza riserve. Il Sessantotto: un’entusiastica attenzione e discreta partecipazione specie da parte dei giovani alle domande della società del tempo, comprese quelle provenienti dalla chiesa come comunità di cristiani e quelle proposte alla chiesa come gerarchia ecclesiastica, soprattutto. Sì, la chiesa. La nostra chiesa e il nostro Sessantotto. Ci sembrava ormai ineludibile e imminente l’esigenza di disincrostarla da ignoranza, ipocrisia, vecchiume, arroganza, superstizioni. Cominciavamo ad amare la “chiesa dei poveri”. Ci attendeva quindi un lavoro esaltante, ed auspicavamo risultati ricchi e soddisfacenti. E’ andata così? Solo in parte. Ognuno con la propria esperienza.
Cercando di mantenerne un certo distacco, provo a riavvolgere il nastro della mia esperienza personale in quel periodo storico. Purtroppo, prendevo atto che talvolta, anche proponendo nella mia chiesa locale obiettivi e strumenti operativi già validati favorevolmente in altre situazioni simili, il mio impegno non approdava agli obiettivi da raggiungere e risultava per lo più vanificato; un po’ come quando ci si mette di buona lena per raggiungere risultati positivi ormai a portata di mano, e invece per motivi ineluttabili la vita ci porta a sbattere sistematicamente contro un “muro di gomma”. Che delusione! Arrendersi? No. Si lotta: riproviamo. La lotta ci esaltava. In quegli anni per tanti fedeli, proprio gli insegnamenti del Vangelo erano di stimolo alla lotta per un mondo migliore. Percepivamo come irrefrenabile “il bisogno del cambiamento”. Bisogno di aria più pura per “una chiesa del rinnovamento” aperta al dialogo con tutti, con un’attenzione particolare ai più bisognosi; così come suggerito dal Vangelo e dal Concilio Vaticano II voluto da Papa Giovanni, il Papa Buono.
Dando uno sguardo al un segmento della storia locale nel Sessantotto, purtroppo, la tenace ritrosia a collaborare per realizzare questo cambiamento, soprattutto in alcuni ambienti ecclesiastici, provocò poi profonda delusione in particolare in tante persone della “Comunità Cristiana di Base del Carmine” in Conversano, sorta spontaneamente nella primavera del 1970, quando d’autorità fu chiusa la parrocchia del Carmine. Per un insieme di circostanze la richiesta di rinnovamento da parte della Comunità si esplicitò in questo grido: <<Vogliamo dialogare col vescovo! Vogliamo Giustizia!>>. A quel grido, vago ma sincero, tante persone di varia estrazione sociale si svegliarono dal loro atavico torpore e cominciarono a prendere coscienza dell’importanza per sé e i loro figli dell’ineluttabile esigenza di “rinnovamento” per il nostro paese, per la nostra società. Rinnovamento: l’anima del Sessantotto.
Trascorso ormai oltre mezzo secolo da quegli avvenimenti, sorge spontanea una domanda: perché sospinti dallo spirito del Sessantotto in quegli anni abbiamo sprecato tanto tempo e notevoli energie per cercare tenacemente di “dialogare” con il nostro vescovo? Per non dimenticare il nostro Sessantotto a Conversano, riteniamo utile ripercorrere alcuni frammenti di storia locale relativi a quel periodo.
In attesa del Sessantotto
I quattro anni trascorsi a Napoli (1959 / 1962) alla Facoltà Teologica di Posillipo gestita dai gesuiti, per me, senza averne piena consapevolezza, hanno anticipato le aspirazioni, i sogni, i principi ispiratori del Sessantotto. In quel periodo a noi studenti venivano proposte varie occasioni per operare scelte autonome e responsabili, pur sempre con il discreto controllo dei “prefetti”. Ricordo a tale proposito quanto fosse stimolante e formativa – per esempio – la giornata di “vacanza libera” di cui disponevamo noi studenti ogni mese: in gruppi di tre o quattro amici, avevamo la facoltà di organizzare in piena autonomia una giornata al di fuori dei soliti ambienti di studio. Nell’appunto che sottoscrivevo per il rettore prima di partire in gita, come meta del giorno in genere annotavo: <<Napoli e dintorni>>. Dalla stazione centrale di Napoli, con la circumvesuviana facilmente si raggiungevano gli Scavi di Pompei. Ho respirato a pieni polmoni aria di libertà, ma di una “libertà responsabile”; al termine della giornata, su richiesta, c’era sempre un padre gesuita con cui “dialogare” su eventuali problemi di comportamento, su situazioni nuove, impressioni particolari, incontri non programmati, ecc.
Quegli anni per me furono prodighi di pregnanti esperienze formative. Mi sembrava normale collaborare per realizzare un “mondo nuovo”: purificato da tanta ipocrisia e ignoranza. E chi non auspicava questo? Erano sogni e aspirazioni che annunciavano il Sessantotto, appunto. Erano molte le occasioni per vivere il mio Pre-Sessantotto con entusiasmo e una specie di euforia; gustare tutto il gustabile con diligenza, a goccia a goccia. Un luogo per me emblematico per la mia formazione socioculturale è stata la Biblioteca di Facoltà. La frequentavo con una certa assiduità e bramosia di apprendere. Una ricca e aggiornatissima biblioteca, fornita delle più importanti pubblicazioni nazionali e internazionali di teologia, filosofia, scienze umane; ma anche di altre riviste di argomenti vari di attualità, quelle che ordinariamente si acquistano nelle edicole.
Il contatto con la gente
Terminati gli studi alla Facoltà di Posillipo, nel luglio del ’62 il mio primo incarico lo ricevetti da Mons. Falconieri: fui mandato come assistente presso una colonia estiva di ragazzi baresi ospitati nell’Edificio Scolastico di Conversano. Di seguito, sempre nell’ambito ecclesiastico, mi furono assegnati altri incarichi: viceparroco in cattedrale con Don Aldo Bacchi, docente di matematica alla media e al ginnasio nel seminario diocesano; docente di religione presso alcune scuole pubbliche di Conversano, assistente al C.T.G. e F.U.C.I.
Pur non avendo mai preso tessera di partito politico, e neppure di sindacato, molte furono le occasioni di vita reale condivisa con i miei amici di Conversano, a cominciare dal mio interesse personale a recuperare dalla cultura popolare i canti dialettali conversanesi; col mio registratore Geloso ero sempre benaccolto dalle contadine che mantenevano ancora la tradizione di alleviare le fatiche del lavoro in campagna cantando. Coincidenza del tutto casuale: negli stessi anni Giovanna Marini girava la nostra regione dal Gargano fino a Santa Maria di Leuca, fermandosi qualche giorno anche a Conversano, per ampliare e approfondire la sua ricerca sui canti popolari pugliesi. Talvolta, nelle pause delle registrazioni delle loro ballate e stornelli, con queste signore mi capitava di trattare argomenti tra i più disparati; e in momenti di particolare confidenza mi trovavo a proporre consigli utili per avviare a soluzione anche delicati problemi di famiglia; e alcune di quelle signore erano più inclini a parlare di certi argomenti col prete aperto e comprensivo, piuttosto che con lo psicologo. Ce n’erano a Conversano? Non mi fu quindi difficile improntare i miei rapporti interpersonali al rispetto reciproco, all’ascolto, alla formazione di una coscienza critica, al senso di responsabilità, con un’attenzione particolare ai bisogni dei più sfortunati.
La parrocchia del Carmine
Nel giugno 1967 il Vescovo Mons. D’Erchia, succeduto a Mons. Falconieri, mi nominò parroco del Carmine a Conversano. Un gesto indubbiamente di grande stima e fiducia nei miei riguardi. Avevo appena 28 anni. Un ragazzino.
Mi dedicai subito al mio nuovo lavoro da un lato tenendo presente l’esperienza di vice parroco maturata in cattedrale, ma soprattutto seguendo la falsariga dei miei predecessori al Carmine: messe, novene, processioni, catechesi, Azione Cattolica, suono delle campane nelle ore stabilite, nonostante il discreto risentimento di alcuni fedeli che almeno la domenica mattina non gradivano assolutamente essere svegliati da quel suono, ecc.. Ero ligio a seguire anche con rigore formale perfino nel portare la talare piuttosto che il clergyman, così pure la tonsura. Mi attenevo con scrupolo a tutte le disposizioni liturgiche. Fu comunque per eccesso di zelo se, nell’organizzare un campeggio estivo per i ragazzi del C.T.G. al Gran Sasso, intendendo celebrare la messa al pianoro della Madonnina, nel rispetto rigoroso degli antichi sacri canoni, mi premurai di procurarmi da un altare minore del Carmine perfino una “pietra sacra” – una mattonella 25 X 25 – con al centro le prescritte reliquie di non so quale santo. Ero davvero questo il comportamento di un “rivoluzionario”, come fui apostrofato da qualcuno?
Disponendo la parrocchia di uno spazio recintato all’aperto, comprai alcuni giochi e li misi a disposizione dei ragazzi della zona. Come pure: presi a rate un biliardino dal Bar Muccino e lo sistemai nel coro absidale del Carmine, raccomandandone l’uso lontano dalle funzioni sacre. Con un gruppo di ragazzi più grandicelli riuscimmo a livellare il campetto dei giochi e a sistemavi anche due porte: fu così possibile usarlo per partitelle di calcetto.
Novità epocali
Ma intanto nella chiesa cattolica si registravano novità epocali: coloro che celebravano la messa o altri riti sacri, ormai non avrebbero più dato le spalle ai fedeli: nel celebrare l’Eucaristia i ministranti dovevano di norma essere rivolti verso i fedeli, perché la comunità ecclesiale diventasse più dialogante e partecipativa. Queste erano disposizioni che venivano direttamente da Roma; e non per poche comunità, ma per tutti i fedeli attenti al “rinnovamento”. Era evidente che anche nella chiesa si cominciava a respirare l’aria del rinnovamento del Sessantotto.
Altra validissima novità per le chiese: le liturgie, le preghiere, il rosario, la messa, i sacramenti non più in latino, come si era soliti fare da tempo immemore, ma in italiano, la lingua del popolo. D’altronde, che capiva della messa in latino la gran parte dei fedeli, che ad esempio a stento parlava correttamente l’italiano? Due formidabili rivoluzioni accettate di buon grado dai fedeli, a parte sparuti gruppi dei cosiddetti “tradizionalisti”. Il Sessantotto, intanto, faceva percepire ai fedeli più vigili e sensibili i suoi effetti di fresco rinnovamento anche nella nostra parrocchia.
In questa atmosfera di grandi novità sia nell’ambiente ecclesiastico che in quello civile, ritenni normale proporre – non obbligare – non più di fare la solita domanda al celebrante: <<quant’è la messa?>> o <<quant’è il matrimonio?>>. Avendo provveduto a sistemare in fondo alla chiesa una capace cassetta per l’obolo verso i bisognosi, a chi comunque mi faceva quelle domande in genere rispondevo: <<se lo ritenete utile, mettete un’offerta libera in quella cassetta>>. Per mia formazione, infatti, ritenevo poco idoneo celebrare un matrimonio, o un battesimo, o un funerale, o un sacramento in genere collegandolo ad un compenso in moneta.
I tradizionalisti
Ovviamente per alcune vecchiette, le quali magari avevano assistito ad un matrimonio con gli sposi che attendevano pazientemente da vari minuti l’inizio del rito in chiesa finché il celebrante non fu soddisfatto col pagamento anticipato della relativa tariffa, quelle mie considerazioni erano uno “scandalo pubblico”, e da brave cristiane esse sentirono il dovere di riferirne all’autorità costituita: il vescovo. E certamente gli parlarono anche della messa beat al Carmine. Ricordo che in un’omelia lessi dalla cattolicissima rivista Famiglia Cristiana, peraltro molto diffusa anche fra i miei parrocchiani, un breve quesito sulla gravità delle colpe dei cristiani da purificarsi col sacramento della confessione; lessi anche la risposta del direttore della rivista, precisando per onestà intellettuale che personalmente condividevo quella risposta, pur essendovi tra i teologi opinioni non univoche sull’argomento. Anche di questo particolare fu edotto il vescovo.
La Comune
Era ineluttabile: a piccoli passi anche da noi soprattutto tra gli studenti e gli operai si avvertiva il gusto della ventata di aria nuova sessantottina. Il bisogno di rinnovamento, l’anelito libertario, le prime gite miste, l’esperienza della Comune, no all’autoritarismo dei docenti…
Da un’indagine necessariamente superficiale, ho costatato che ormai sono pochissimi in Conversano coloro che ricordano l’esperienza della “Comune” tra gli anni ’70 e ’71 da noi. Forse perché ebbe vita breve. Una quindicina di ragazzi e ragazze si organizzarono per individuare una masseria piuttosto ampia e comoda; la trovarono nella zona di Monte Poli, nel circondario di Conversano. Il fitto era accessibile e si avviò la nuova esperienza della Comune: ciascuno contribuiva secondo le proprie disponibilità. Indimenticabili le lunghe serate estive seduti sul bordo dell’aia. L’amicizia semplice e sincera e la condivisione generosa dei propri “averi” provocavano un’intima gioia finora non gustata in pieno; appunto, il gusto della “vita in comune”, allietato anche dall’immancabile suono della chitarra, magari sotto un cielo stellato. Come non sognare “un mondo migliore”? Un mondo migliore era possibile. Senza ipocrisie. Senza lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Si era amici amici. Comunque l’esperienza di questa “Comune” durò solo pochi mesi: un gruppo affiatato di ragazzi che mettevano tutto in comune doveva fare i conti inesorabilmente con le sempre più limitate risorse finanziarie, nonché con alcune incomprensioni caratteriali. Un’esperienza breve, ma intensa. Unica per Conversano.
E comunque un’esperienza nella quale non ci fu spazio per alcuna bega chiesastica. Evviva!
Il Concilio Vaticano II
Nello stesso tempo il desiderio di un’autentica e profonda rivoluzione per la chiesa in quanto “popolo di Dio in cammino verso la salvezza” si cominciava a percepire anche a Conversano. Era la rivoluzione indicata negli atti del Concilio Vaticano II, che per tanti aspetti sembrava dispiegarsi parallelamente ad alcuni principi ispiratori del Sessantotto.
In pochi anni, si sono registrati cambiamenti di fondamentale importanza anche per la morale cattolica. La catechesi per prepararmi alla prima comunione e alla cresima la seguii con scrupolosa assiduità nella seconda parte degli anni ’40 nei locali di San Giuseppe in Conversano. Le mie catechiste erano le maestre Sorressa e Piccininno. Ricordo il terrore che ci hanno inculcato fin nel profondo del nostro animo quando ci hanno parlato della pena dell’inferno nel quale chi moriva in peccato mortale precipitava per rimanerci a bruciare in un fuoco eterno. Sì, bruciare nel fuoco eterno dell’inferno, proprio con Lucifero il capo dei demoni! Eravamo, comunque, bambini fragili e molto recettivi; e a quei tempi mettevamo tutto il nostro impegno per essere “buoni”; e facevamo anche tanti “fioretti” secondo gli insegnamenti del catechismo. Purtroppo, però, la casistica dei peccati mortali era molto lunga ed era piuttosto facile cadere nel maledetto peccato mortale; per esempio, era sufficiente non ottemperare a questi precetti per cadervi: non mangiar carne il venerdì, obbligo della messa la domenica e nei giorni festivi, essere digiuni dalla mezzanotte prima di farsi la comunione, non votare partito comunista, non leggere l’Unità il quotidiano comunista…… Lungi da me, quindi, morire in peccato mortale; ecco perché quando passavo da piazza XX Settembre ero tentato di leggere qualche notizia dell’Unità esposta in bella vista nella bacheca sistemata all’esterno della sezione del P.C.I. di Conversano; non so perché, ma proprio l’Unità attirava la mia curiosità, ed io allora giravo alla larga per non commettere peccato mortale; e se fossi morto proprio quella notte senza essermi confessato e quindi non ancora purificato dal peccato mortale – lo diceva la parola stessa – sarei precipitato dritto dritto nel fuoco eterno dell’inferno? No, no; mai peccato mortale! Al massimo avrei potuto arrivare a commettere qualche peccato veniale; nel qual caso sarei rimasto solo un po’ di anni in purgatorio, ma poi… via in paradiso. In realtà com’era possibile per un bambino normale essere santo come San Luigi Gonzaga? Meglio, poi, stendere un velo pietoso sulla precettistica attinente al sesso. <<Dovevi andare al cinema? Prima passa dall’angolo della Frassati e prendi nota dei film “per tutti”; se infatti vedevi un film “per adulti”, commettevi un altro peccato mortale>>.
Gli psicologi e i pedagogisti hanno mai analizzato e stigmatizzato i gravi traumi provocati nella psiche dei bambini in tenera età a causa delle obsolete precettistiche del catechismo cattolico sui peccati mortali?
A proposito di peccato veniale e di anni di pena da scontare nel purgatorio, ricordo che avevo già chiari i principi basilari di economia; pure se piccino, infatti, avevo imparato a fare i conti al risparmio, giocando con le giaculatorie e relative indulgenze. Mi era stato insegnato che se avessi recitato alcune giaculatorie mi sarebbe stato abbonato una parte del tempo da passare eventualmente nel purgatorio per via dei peccati veniali. Ecco un esempio: se avessi recitato <<Gesù, Giuseppe e Maria vi dono il cuore e l’anima mia>> mi veniva abbonato un anno di purgatorio; dicendo, invece, la giaculatoria: <<Gesù mio misericordia!>> me ne venivano abbonati addirittura sette. Ragionai: <<mi conviene recitare la seconda giaculatoria, perché è più breve e mi rende un abbuono sei volte superiore alla prima!>>.
Evidentemente ero assiduo e disciplinato nel frequentare le lezioni a San Giuseppe, e avevo imparato bene a memoria le risposte alle domande del catechismo, perché nel settembre del 1949 mi fu assegnato il “Premio Roma”: insieme a tanti coetanei da mille città italiane ebbi l’onore e il privilegio di raggiungere Roma per vedere il Papa.
Tornato a casa da questo viaggio-premio, un pomeriggio mio padre mi disse: <<poco fa ho parlato col rettore Mons. Boccuzzi e dal primo ottobre frequenterai il seminario; per la divisa: giacca e pantaloni neri, camicia bianca e basco nero in testa>>. A quella comunicazione era presente anche mamma, la quale molti anni dopo mi confidò: <<papà non solo non aveva chiesto che ne pensassi tu per frequentare così piccolo il seminario in vista della carriera ecclesiastica, ma non ne aveva parlato neppure con me; e quando sentii quella decisione, mi rinchiusi in camera e piansi a lungo>>! Forse mia madre istintivamente aveva cominciato a respirare da tempo anche lei l’aria del dialogo e della corresponsabilità tipica del Sessantotto?
Il 17 novembre
Il 17 novembre del 1969 nel primo pomeriggio, senza avermelo annunciato, venne a farmi visita al Carmine il vescovo in persona; arrivò accompagnato da un dirigente dell’Azione Cattolica locale. Ci impegnammo in una chiacchierata aperta e franca; ad un certo punto ricordo che mi propose questo sillogismo: <<Il vescovo deve aver fiducia nei suoi parroci, ma se la perde nei tuoi confronti, è il caso che tu lasci la parrocchia>>; <<Perché lei non ha più fiducia in me? Parliamone. Se qualcosa non va sono pronto a ravvedermi. Ritengo di essere una persona razionale, aperta al dialogo, remissiva, docile. E lei ne ha preso atto in più occasioni. Sbaglio? Se sbaglio, certamente posso correggermi, magari seguendo i suoi consigli>>. D’Erchia fece cenno al trafiletto di Famiglia Cristiana che lessi ai fedeli in un’omelia, al tariffario diocesano per il servizio ministeriale dei preti, alla “messa beat”, alla partecipazione ai convegni dei preti solidali, dei preti operai, ecc. senza una puntuale disamina dei vari argomenti, e senza un serio approfondimento per individuare gli errori nel mio lavoro al Carmine, magari per poterli correggere. Non eravamo lui ed io della stessa chiesa del dialogo e della misericordia? In effetti per me quello era un periodo di un’adesione piena e addirittura entusiastica ai documenti del Concilio da poco concluso. Alcuni testi conciliari li avevo fatti talmente miei da citarli a memoria. Mi era rassicurante e stimolante ispirare il mio lavoro in parrocchia, e in particolare le mie brevi omelie, alla luce di quei testi. Mi fu spontaneo, perciò, quel pomeriggio proseguire il colloquio col vescovo riferendomi agli atti del Vaticano II: <<Eccellenza, ecco cosa dice il Concilio su questo argomento…>>; all’improvviso D’Erchia mi strappò di mano quel testo e me lo scaraventò per terra con stizza. Non credevo ai miei occhi. Il mio dialogo con lui si concluse sostanzialmente con quel gesto; e si accomiatò con la seguente profezia: <<che giorno è oggi?>; <<17 novembre>>; <<ti porterà sfortuna>>.
Un mio vecchio amico di Altamura volle incontrarmi per una confidenza e un incoraggiamento. <<Ciò che stai patendo tu – mi disse – l’ho patito pure io prima di te a causa dei soprusi e della cattiveria di D’Erchia quando era nostro Amministratore Apostolico. Con lui ci ho rimesso la salute. Per lui ora mi sento il cervello a colabrodo>>. Un’altra testimonianza diretta di traversie subite ad opera ancora di D’Erchia verso un prete di Cisternino l’ho ascoltata dal diretto interessato: <<Per lui sono stato un mese in coma al Policlinico di Bari>>, aggiungendo che il suo non era un caso isolato di sacerdoti tormentati da quel vescovo nella diocesi di Monopoli.
Spie e dintorni
Ma come potevo non entusiasmarmi, per esempio, alla lettura del testo conciliare Lumen Gentium sulla chiesa della comprensione, dell’amore reciproco, del dialogo anche con chi è fuori della chiesa? Sì, anche con chi non frequentava la chiesa cattolica. Avevo 30 anni, e mi ribolliva dentro questo desiderio di rinnovamento anche della mia chiesa. L’entusiasmo giovanile aiutava a superare le inevitabili difficoltà per realizzare in concreto quel progetto. Onde evitare situazioni incresciose sarebbe stato preferibile essere meno ingenuo e più furbo? Col senno di poi indubbiamente sì.
Un pomeriggio in parrocchia ricevetti una telefonata strana. Una voce femminile mi parlò di vari suoi problemi, e dal canto mio cercai di confortarla come meglio potevo, sempre con buone maniere e il dovuto rispetto. Proseguendo nella conversazione, però, mi accorsi che stavo parlando con una ragazza che conosceva parecchi particolari di me, anche riservati. E qualcosa di simile mi capitò anche un po’ di tempo dopo. Un vecchio amico di Noci mi chiese la cortesia di dialogare di tanto in tanto al telefono con una sua parrocchiana, ma nel totale anonimato. Accettai. Si parlò del più e del meno, con particolare riferimento ai problemi dei giovani! Certo, non avevo nulla da nascondere a chicchessia, ma come mai non mi è venuto subito il sospetto che nel Sessantotto e dintorni la Digos operava attivamente anche in terra di Bari? Ero troppo ingenuo. Quale fondamento aveva la notizia di 200 militari che un giorno furono visti stazionare nei pressi dell’Isola, sulla via Conversano-Rutigliano?
Lettera al Vescovo
Il 24-3-70, intendendo porgere gli auguri di Pasqua al mio vescovo e sollecitato dallo spirito del Concilio, avendo anche notato alcuni comportamenti bruschi e poco rispettosi nei miei riguardi da parte di D’Erchia, ritenni opportuno inviargli una lunga e articolata lettera in cui gli ribadivo i punti programmatici che orientavano il mio lavoro in parrocchia allo scopo di ricevere eventuali suoi lumi e suggerimenti su possibili correzioni di rotta da concordare insieme. Il risultato? Mai ho ricevuto risposta alcuna a quella lettera per me molto importante. Anzi, alcune problematiche ivi trattate divennero disinvoltamente altrettanti atti di accusa nei miei riguardi, quasi fossero prove inconfutabili per punirmi. Appresi che questa mia lettera privata e personale fu resa nota dal vescovo senza il mio consenso a un gruppo di preti e laici, sottolineando soprattutto la parte in cui gli ponevo una domanda su un argomento piuttosto controverso nel dibattito teologico del tempo, quello del “celibato ecclesiastico” come libera scelta per tutti i chierici Questa mia lettera fu addirittura pubblicata integralmente su un giornale locale, ma non fu mai oggetto di sereno dialogo tra me e il mio vescovo, come io esplicitamente avevo auspicato.
“Le libere dimissioni”
E pochi giorni dopo – si era verso metà aprile del 1970 – ricevetti una formale richiesta di presentarmi in Curia. Vi trovai i quattro preti “consiglieri” di D’Erchia. Mi lessero un’ingiunzione che concludeva così: <<Entro otto giorni dai liberamente le dimissioni da parroco del Carmine>>. <<Quali le motivazioni?>>. <<Obbedisci e basta>>. Firmai. Chiesi una copia dell’ingiunzione, ma mi fu rifiutata. Mi fu vietato addirittura di prendere appunti personali. Quanto diversi i principi ispiratori del Sessantotto e del Concilio Vaticano II sui rapporti interpersonali!
I social, Facebook, Instagram, i cellulari allora non esistevano. Eppure la notizia delle prossime mie dimissioni da parroco si diffuse rapidamente e non fu presa di buon grado da tanti miei parrocchiani. Si formarono allora spontaneamente dei gruppi operativi per ovviare a queste dimissioni improvvise e immotivate, soprattutto perché esse avrebbero provocato un prevedibile notevole disagio tra i fedeli; si aveva sentore che alcuni esagitati avrebbero potuto favorire anche gesti inconsulti. Intanto, su suggerimento del vescovo, per qualche giorno mi allontanai da Conversano per gli “Esercizi Spirituali”. Un gruppo volle discutere direttamente con D’Erchia la situazione che iniziava a ribollire, ma non gli fu concesso; un altro si incaricò di raccogliere firme di protesta, e se ne raccolsero circa 3000 in quattro giorni, e Conversano allora non raggiungeva neppure i 20.000 abitanti; un gruppo di ragazzi dell’Azione Cattolica parrocchiale stese una formale e accorata petizione al vescovo contro la mia prossima rimozione da parroco.
Nella mia vita, poche volte mi sono trovato ad un bivio così angosciante: se avessi accettato la libera rimozione, prima o poi mi avrebbero affidato una “parrocchia a Latina o a Terracina”, come promesso dal vescovo, ma i miei parrocchiani del Carmine mi avrebbero trovato in piena contraddizione con lo spirito del Concilio cui frequentemente facevamo riferimento. Questa, invece, la possibile seconda via: rispondere in piena coscienza: <<è più opportuno che io non dia “liberamente” le dimissioni, ma mi atterrò a qualsiasi decisione che il vescovo prenderà nell’interesse dei fedeli>>. Optai per la seconda: mi appariva molto reale la previsione che senza un dialogo sereno col vescovo, interrompere bruscamente e immotivatamente il lavoro di compartecipazione avviato con la gente specie con i ragazzi del Carmine, orientati da alcune indicazioni del Concilio su libertà di coscienza, obbedienza responsabile, comunità dialogante, obiezione di coscienza, avrebbe creato grave turbamento tra i parrocchiani. Per quale valido motivo si deve obbedire ad ordini non compartecipati e palesemente inopportuni e ingiusti? Allo scadere degli otto giorni, quindi, sostanzialmente risposi così al vescovo: <<ho pregato, mi sono consigliato, ho riflettuto e le rispondo che “liberamente” non intendo abbandonare il mio ministero di Parroco del Carmine anche per non creare una ribellione popolare>>.
Per la cronaca: quando nel pomeriggio di quel giovedì mi recati dal vescovo per consegnargli la mia risposta scritta, all’ingresso del palazzo mi sorprese trovare in attesa di eventi un nutrito numero di curiosi di varia estrazione sociale. Finora tanti di loro si erano interessati a diatribe tra vescovi e preti? Il Sessantotto aveva stimolato in loro anche questo tipo di compartecipazione? Di curiosità?
L’occupazione del Carmine
Collegate al Sessantotto italiano si ricordano le occupazioni studentesche (per esempio: Ateneo di Trento, la Cattolica di Milano, Architettura di Torino) e quelle delle chiese (l’occupazione del Duomo di Parma). Qualcuno ricorda l’occupazione della parrocchia del Carmine a Conversano?
Lunedì 27 aprile 1970: una giornata normalissima. Terminati gli impegni istituzionali, raggiunsi Bari per delle compere. Verso le 17 casualmente telefonai ad un amico di Conversano e lui subito mi supplicò: <<torna immediatamente: la gente ha occupato la chiesa del Carmine>>. Non era possibile! Ma lui insisteva nella supplica. Era vero allora. Mi crollò il mondo in testa. Che fare? Anzitutto chiesi consigli al vescovo. Quando finalmente riuscii a contattarlo telefonicamente gli chiesi: <<che fare?>>, <<Don Ruppi ti verrà incontro e ti consegnerà i miei ordini scritti>>. Perché dei fedeli tranquilli e pacifici avevano occupato la loro parrocchia?
Ecco cosa mi fu raccontato. Quel mattino, prima di mezzogiorno, arrivarono alcune auto e parcheggiarono nei pressi della porticina posteriore del Carmine. Oltre ad alcuni preti, scesero da una macchina anche dei carabinieri. Queste presenze improvvise, inattese e inquietanti suscitarono nella gente testimone della scena, curiosità, sospetto, timore per qualcosa di preoccupante. Inavvedutamente qualcuno insinuò: <<Come mai quei carabinieri in chiesa? Sono venuti per arrestare il nostro parroco? Non lo consentiremo; vogliamo giustizia; occupiamo il Carmine>>. In piccoli gruppi la gente entrò in chiesa e occupò diligentemente i banchi in attesa degli eventi.
Quali erano gli “ordini” impartiti per iscritto dal Vescovo e consegnatimi da Don Ruppi? <<Da oggi tu non sei più parroco, non puoi più predicare, non puoi amministrare i sacramenti, non puoi celebrare messa…>>. Quando raggiunsi Conversano vidi effettivamente la mia parrocchia gremita di gente. C’erano molte persone anche sul sagrato. Quelli consegnatimi da Don Ruppi erano gli ordini per acquietare i fedeli inferociti? Sicuramente no. Quelli erano i meno opportuni in quella circostanza. Le indicazioni del mio vescovo erano in realtà solo delle ben assestate legnate che, comunque, non indicavano affatto ad un povero e inesperto ragazzo cosa fare concretamente in quella drammatica situazione che rischiava di degenerare da un momento all’altro per un pur minimo gesto sconsiderato di uno squilibrato. La situazione era decisamente tesa. Come comportarmi allora? Don Ruppi mi riferì che gli occupanti la chiesa, non erano stati convinti né dai monsignori e neppure dalla forza pubblica a lasciare libera la chiesa. Lui, invece, era certo in un esito positivo qualora avessi convinto io quei fedeli con “belle parole” a liberare la chiesa… <<Ma il vescovo nei suoi ordini scritti non mi aveva proibito di prendere la parola in pubblico? Perché non viene qui lui con la sua autorevolezza a risolvere il problema?>>. Avevo notato di fianco all’altare maggiore un gruppo di uomini che confabulavano tra loro; avevano le idee ben chiare: <<continuiamo l’occupazione finché non viene il vescovo a dialogare con la gente>>. Se avessi letto ai fedeli l’elenco delle “pugnalate” che il vescovo aveva inferto per iscritto a me che, invece, chiedevo dialogo, concordia, ascolto, amore reciproco, ecc., sarebbe successo il finimondo. E allora, come sbloccare quella situazione molto delicata e grave nello stesso tempo? Feci ricorso a tutte le mie risorse di buon senso frammisto ad una certa audacia. Afferrai il microfono. Si fece silenzio. <<Purtroppo, c’è tanta esasperazione. Voi chiedete di dialogare col vescovo. La vostra richiesta è anche la mia. Dialogare con rispetto reciproco è sempre positivo. Ma il vescovo ora non è in sede [questa era una mezza bugia]. Gli chiederò di venire a parlare con noi non appena possibile. Ora, però, è tardi. Tornate a casa. Non appena il vescovo accoglierà la nostra richiesta ve lo comunicherò: ve lo prometto>>. Piano piano la chiesa fu sgomberata.
A quel punto Don Arganese, evidentemente per ordini superiori, chiuse la porta principale del Carmine dall’interno e con l’aiuto di un fabbro cambiò la serratura dell’accesso in chiesa dalla parte posteriore. Di lì a poco il dott. Amodio, un parrocchiano dal cuore d’oro, mi riferì che il vescovo desiderava incontrarmi. <<Nella mia villa a Cozze>> precisò. Con un gruppetto di amici mi precipitai a Cozze. Ma dopo un’ora di attesa, D’Erchia ci fece sapere che l’incontro si sarebbe tenuto non a Cozze ma a La Scala di Noci, presso i padri benedettini. Di corsa da Cozze a Noci. Anche qui: attesa di un’altra ora, ma vana. La situazione era drammatica e qualcuno voleva prendersi gioco di noi?
A mente più serena pensai: <<E se arrivato quella sera nella chiesa del Carmine occupata da centinaia di persone, invece di convincere la gente a liberare la chiesa con plateali bugie, avessi tirato dalla tasca la lettera del vescovo, avessi letto loro i vari punti, cioè le varie pugnalate, magari scandendo i singoli punti e illustrandoli nella loro cruda atrocità uno per uno, fino alla minaccia di affamarmi togliendomi il pur misero sostentamento che mi proveniva dall’insegnamento della religione nell’I.T.C. Pinto di Castellana; e se al termine, di quei chiarimenti mi fossi unito ai miei fedeli, occupando anch’io la chiesa del Carmine al grido “Vogliamo Giustizia!”, cosa sarebbe successo?>>. Non so. Sono nato a Conversano, e so che al grido “vogliamo giustizia!” il 20 maggio del 1886, sobillati da alcune “teste calde”, i miei concittadini saccheggiarono e incendiarono il Comune. Come pure: al tempo del Fascismo diverse volte fu assaltata e incendiata la Camera del Lavoro nella mia città. Senza dimenticare l’assassinio dell’On. Di Vagno ad opera dei fascisti locali.
La nascita della Comunità
La chiesa del Carmine per disposizione vescovile rimase chiusa per alcuni mesi; e intanto i fedeli ogni sera si raccoglievano spontaneamente nell’ampio sagrato per la recita del rosario, per lo più seguito dalla lettura di un brano del Vangelo e un breve commento. Assidua la presenza del colonnello Grido che dirigeva la compagnia dei carabinieri di Monopoli. E la domenica si partecipava alla messa, celebrata a turno da preti provenienti da varie parti d’Italia. Io, infatti, pur avendo piena coscienza che il divieto di celebrare messa fosse del tutto immotivato e immorale – come mi sarà riconosciuto ufficialmente dal Vaticano purtroppo soltanto due anni dopo – mi sono scrupolosamente e ingenuamente attenuto a tutte le disposizioni che mi venivano impartite. Anche a quelle sbagliate, appunto. Erano gli anni in cui Don Milani, impegnato nell’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia, aveva scritto “L’obbedienza non è più una virtù”. Comunque, dopo ogni batosta, sistematicamente chiedevo <<perché?>> a chi di dovere. Risposte? Mai una risposta razionale, possibilmente scritta e ispirata allo spirito evangelico.
In Italia in quel periodo nascevano e si affermavano le Comunità Cristiane di Base. Ben presto la stampa riportò anche l’esperienza spontanea che si viveva nella nostra Comunità. La Comunità del Carmine. E già all’assemblea pubblica del due maggio ‘70, indetta soprattutto per offrire al vescovo l’opportunità per un pubblico dialogo chiarificatore col suo popolo, parteciparono anche preti e laici provenienti da varie città d’Italia, anche dall’Isolotto di Firenze. La stampa parlò della partecipazione di duemila persone a quell’assemblea spontanea al Cinema Norba di Conversano; purtroppo però, la sedia riservata al vescovo rimase sempre vuota.
L’invasione nell’Episcopio
Per lunedì 11 maggio 1970 fui invitato in Curia per la formale “consegna delle chiavi”. Con mia somma sorpresa, all’ingresso della Curia notai anzitutto la presenza di una camionetta dei carabinieri e lì intorno una folto numero di persone: muratori, casalinghe, operai, calzolai, pensionati….<<Oggi non si fa alcuna consegna di chiavi; il funzionario prefettizio di Bari è in sciopero>> mi precisò il maresciallo dei carabinieri. Perché il vescovo fece quella comunicazione alla forza pubblica e non anche a me che ero il più diretto interessato alla consegna? Ad ogni buon conto, puntuale alle 10.30 raggiunsi gli uffici curiali. Di lì a poco arrivò il cancelliere: <<Tutto è rinviato a data da destinarsi>>. Sentii il dovere allora di notificare questa circostanza anche agli amici che stazionavano curiosi e sempre più numerosi sotto gli uffici della curia. Mi affacciai alla finestra e mostrando le chiavi riferii loro di stare tranquilli: <<Tutto è stato rinviato. Le chiavi le ho ancora io>>. Comunque le chiavi in mio possesso non erano idonee ad aprire la nuova serratura messa dal vescovo al Carmine. Per uscire dal palazzo vescovile il cancelliere mi accompagnò al portone che dà sulla Piazza Castello. Qui un redattore del giornale La Gazzetta del Mezzogiorno mi invitò a prendere una boccata d’aria al mare di Cozze. La chiacchierata si protrasse per poco più di un’ora. Nel frattempo si verificò il cosiddetto “assalto all’episcopio”.
Col passare del tempo, i curiosi intendendo capire meglio come si evolveva la situazione, vollero raggiungere gli uffici della Curia peraltro aperti al pubblico a quell’ora, e, trovandoli chiusi, proseguirono lungo la scalinata arrivando agli appartamenti del vescovo. Quando me ne riferirono mi sembrava inverosimile che persone normalissime, padri di famiglia, artigiani, “donne di chiesa”, al grido <<vogliamo giustizia, vogliamo parlare col vescovo, vogliamo Don Vincenzo parroco>>, non vedendomi più uscire dalla porta della Curia, esprimessero così il loro timore che in Curia qualcuno mi stesse facendo del male. E, purtroppo, alcuni facinorosi andando di stanza in stanza ebbero modo si esternare la loro rabbia spostando sedie e suppellettili varie. La novità della situazione e l’emozione nell’ammirare l’eleganza dei mobili del vescovo pervase quella povera gente di un’improvvisa e inattesa euforia. Una signora che sospinta dalla calca delle persone curiose di “vedere” se non il vescovo, almeno il palazzo vescovile, fu avvicinata da un ragazzo sui trent’anni mai visto prima – un agit-prop? – il quale la incitò a fare qualcosa che lei non avrebbe mai fatto in vita sua: <<vedi quella tenda alla finestra? Perché non la strappi?>>. Un’altra signora, avendo notato in un armadio un bustone di caramelle, lo afferrò, quindi si affacciò alla finestra del secondo piano e a piene mani distribuì quelle caramelle al grido: <<Viva gli sposi!>>, alla gente che sostava in strada trepidante in attesa di buone notizie dalla curia. <<Viva gli sposi!>>, così come si è soliti omaggiare gli sposi quando escono di chiesa al termine della celebrazione del loro matrimonio. Di lì a poco, anche per l’intervento di alcuni carabinieri, l’episcopio fu sgombrato.
Non appena venni a conoscenza dell’invasione in episcopio, cercai di telefonare al vescovo. All’epoca niente smartphone: funzionavano soltanto i telefoni fissi. Il telefono in episcopio squillava, ma nessuno rispose. Il vescovo, avendo avuto notizia di una bomba ad orologeria nei pressi del suo palazzo, notizia subito smentita dai carabinieri, in gran fretta lasciò Conversano e per un certo periodo si trasferì Monopoli. Il mio rincrescimento per l’accaduto glielo espressi perciò con una lettera. Neppure a questa D’Erchia mi ha mai risposto. Soprattutto in quegli anni, il vento sessantottino rendeva alcuni di noi più pensosi: a ben guardare nel vissuto di ciascuno di quegli uomini e donne che quell’undici maggio gridavano alla massima autorità ecclesiastica locale <<Vogliamo Giustizia!>> non si può non ricordare quanti soprusi, quante angherie, quante ingiustizie, quante vessazioni essi hanno dovuto subire nella vita dall’autoritarismo, dall’egoismo, dalla grettezza mentale dei potenti di turno, i “padroni”, “i signori” non solo nella società civile, ma anche nel mondo ecclesiastico!
La giustizia
Era noto che talvolta anche persone innocenti erano state condannate, e magari avevano passato anche qualche anno in carcere per poi finalmente risultare del tutto “estranee ai fatti”. Sì, la gente gridava <<Vogliamo giustizia>>, ma sicuramente non quel tipo di “giustizia” vessatoria e quindi ingiusta. Soprattutto in quegli anni, era frequente usare comunque anche “la giustizia” per reprimere e colpire qualsivoglia movimento popolare che tentava di contestare il “potere” per un mondo più giusto. Ricevuta nelle sue mani la notifica ufficiale di così gravi miei “misfatti”, mio padre mi cacciò di casa. Era esacerbato, poverino.
La Comunità in crescita
Il giorno 30 giungo 1970 si presentò a casa mia l’ufficiale giudiziario della pretura di Rutigliano. Aveva una notifica del pretore per me. Essendo io assente, la consegnò nelle mani di mio padre. Mi venivano notificati ufficialmente ben sei capi d’imputazione: <<violazione di domicilio; resistenza a pubblico ufficiale; invasione; danneggiamento; radunata sediziosa; istigazione a delinquere>>. Per la precisione, gli imputati per “i fatti dell’undici maggio” a Conversano furono 48. Notevole lo scompiglio in tante famiglie a Conversano, già solo per recarsi al Tribunale di Bari per rispondere ai chiarimenti richiesti dal Pubblico Ministero dott. De Marinis. Perché anche io che ero chiaramente del tutto estraneo a quegli atti fui incriminato? Perché diversi altri dei “48” furono anch’essi incolpati di gravi misfatti, mentre in realtà quel giorno erano fuori Conversano?
Con la chiesa chiusa per disposizione del vescovo, la Comunità del Carmine si riuniva il giovedì in un garage di Via Massimo D’Azeglio 22 in Conversano, locale messo a disposizione dal buon cuore di una carmelitana. Sorprendente la partecipazione all’assemblea della Comunità da parte di gente comune che magari non entrava in chiesa da anni e non aveva mai ascoltata la lettura di passi del Vangelo. Nelle assemblee si faceva il punto della situazione; si decidevano collegialmente le azioni più consoni per i singoli problemi. Ma anche si coglieva l’occasione per leggere un passo del Vangelo e in piena libertà molti comunicavano alla “comunità” (appunto: Comunità Cristiana di Base) loro riflessioni personali o anche esperienze di vita vissuta collegate al passo letto dal Vangelo. Per quelle persone sempre emarginate dalla società e dalle istituzioni, era evidente il bisogno di protagonismo: parlare in piena libertà, esternare il proprio disagio, prospettare eventuali soluzioni a problemi reali di vita vissuta. Tutti erano liberi di esprimere la propria opinione. Si cresceva già solo nell’ascolto rispettoso anche di opinioni diverse dalle proprie. Tema ricorrente in quel periodo per la Comunità era in particolare il desiderio di “dialogare con l’autorità”.
Devo riconoscere anche a distanza di molti anni che la mia linea d’azione concreta era contraddittoria; spesso non corrispondeva al convincimento profondo sulla “libertà dei figli di Dio”: per un aspetto le letture di cui mi nutrivo alimentavano le mie convinzioni sull’obbedienza responsabile che ci rende liberi, per un altro temevo che se avessi adeguato la mia “prassi di vita” a quei dettami, avrei incontrato ancora mille altri ostacoli da sormontare. La mia vita in continuo conflitto? Non era affatto questo il mio ideale di vita. Bisognava avere la scorza dura, ed io non avevo affatto la vocazione all’eroismo. Anzi, a livello caratteriale ritengo di amare fondamentalmente “il quieto vivere”.
Per la mia formazione ancorata ai principi del Vangelo e della libertà di coscienza mi sono stati di valido supporto le letture di vari autori italiani e stranieri, specie se di commento ai documenti conciliari. Nonostante il divieto del vescovo a leggere le riviste Concilium e il Regno, sono sincero: le consultavo con avidità insieme agli scritti di Mazzolari, Rosadoni, Mazzi, Balducci, Milani, Kung, Boff . ….. In quegli anni soprattutto tra i docenti passava di mano in mano il testo “Lettera ad una professoressa” di Don Lorenzo Milani. Sì, ero certo, profondamente certo, che diversi ordini dei miei superiori erano ingiusti, immotivati e immorali. Ciononostante obbedivo fedelmente. Ma nello stesso tempo in modo ossessivo chiedevo sempre a voce e soprattutto per iscritto <<Perché?>>. Ero davvero molto ingenuo: ero convinto che prima o poi gli autori di quegli ordini ingiusti e fasulli, avrebbero riconosciuto l’infondatezza e l’incongruità di quelle loro disposizioni. Mi pareva assurdo che la chiesa del dialogo, della fratellanza, dell’amore, della comprensione reciproca, per i comportamenti di alcuni autorevoli suoi rappresentanti fosse nella realtà chiesa autoritaria, ipocrita, disumana, senza cuore. Una chiesa tenacemente carnefice nei riguardi di alcuni suoi figli; e quindi, molto lontana dallo spirito evangelico.
A tale proposito, dopo 50 anni da quei fatti, in modo casuale ho appurato che l’editrice Queriniana pubblica ancora la rivista internazionale di teologia Concilium, proprio quella che D’Erchia mi aveva proibito di leggere. Evviva! Non solo, ma facendo capolino in alcune realtà ecclesiali di oggi, ho avuto sentore che il fermento del Sessantotto continua a produrre altri frutti, se è vero che si diffondono in tutta Italia le “Comunità Cristiane di Base”, l’associazione Viandanti, il Movimento “4 ottobre 2014”, i Gruppi Sinodali, ecc.
Quale è la chiesa di Cristo, quella che non ha mai voluto dialogare con la Comunità di Base di Conversano sorta spontaneamente 50 anni fa in un paesino della Puglia, oppure quella che ascolta, aiuta, dialoga con tutti, e anche con le Comunità di Base sparte in Italia e nel mondo? È anche questo frutto del Sessantotto?
Il Vaticano
Nel garage della Comunità si alternavano a costo di notevoli sacrifici diversi preti provenienti anche dalla Lombardia, dalla Romagna, dalla Toscana per celebrare l’Eucaristia (e anche un matrimonio e due battesimi); io però, pur potendolo fare, mi astenevo in attesa di altre disposizioni da parte del Vescovo. <<Eccellenza (sì, gli davo sempre dell’eccellenza, come da prassi all’epoca) perché il divieto di celebrare?>>; <<Vai in Vaticano e lì ti daranno tutte le risposte del caso>>. E diverse volte con un gruppo di amici – Cristoforo, Franco, Vito, ecc. – si partiva in auto verso il tramonto da Conversano, si viaggiava tutta la notte e puntuali all’ora stabilita eravamo a Roma in Piazza Conciliazione 3 per incontrare il Card. Wright allora Prefetto della Sacra Congregazione del Clero. Secondo D’Erchia, infatti, il cardinale avrebbe dovuto rispondere ai nostri <<Perché?>>. E D’Erchia che era nostro “pastore” non aveva proprio nulla da chiarirci? Il nostro vescovo in realtà non si benignò neppure di rispondere con un semplice “grazie” agli auguri onomastici del 13-6-70 che come Comunità gli inviammo per telegramma. In Vaticano il Card. Wright in persona nel primo incontro del 6-5-70, come pure i suoi collaboratori Mons. Bovone, Mons. Palazzini, e Padre Piazzano negli incontri successivi, per lo più mostravano interesse e una garbata attenzione ad ascoltare i nostri problemi, il nostro desiderio di “dialogare” con l’autorità ecclesiastica; al termine di siffatte chiacchierate eravamo sinceramente contenti che i nostri incontri si concludevano con questa rassicurazione, pur se generica: <<tornate a Conversano e quanto prima risolveremo questi problemi>>.
Anzi, Mons. Palazzini – vice prefetto del Card. Wright – si mostrò alquanto più efficiente dello stesso cardinale: nel colloquio avvenuto a Roma il 20 giugno 1970 infatti, gli esponemmo ancora una volta il nostro desiderio di un “dialogo costruttivo” con la gerarchia ecclesiastica, gli precisammo anche che era gradita la presenza del nostro vescovo alla prossima assemblea della Comunità fissata per il giorno 23, e al termine del colloquio a nome del cardinale egli mi autorizzò a riprendere in pieno le funzioni di prete; ovvia la mia e nostra grande soddisfazione per quella notizia; finalmente si tornava da Roma con un gesto concreto di “buona volontà” da parte delle autorità ecclesiastiche. Tutta la Comunità ne fu felice. Comunque, a ben riflettere c’era qualcosa di paradossale e assurdo in questa situazione: uno può essere prete oppure no solo per la parola di un monsignore del Vaticano? Povera chiesa del Sessantotto! Lo stesso Monsignore – circostanza di cui venni a conoscenza casualmente solo a distanza di oltre 50 anni, nel 2022 – aveva inviato a D’Erchia indicazioni precise per come comportarsi nei miei riguardi: “mi avrebbe punito adeguatamente solo se io organizzassi i fedeli della Parrocchia del Carmine per fini non cristiani”. Ma i fini della nostra Comunità Cristiana di Base, come di tutte le altre sparse in Italia e nel mondo, erano certamente improntati ai valori del Vangelo e del Concilio Vaticano II. Cioè per fini sicuramente cristiani. Il risultato dei nostri incontri in Vaticano? Purtroppo, sistematicamente tornati a Conversano dovevamo constatare che D’Erchia era come un muro di gomma: “beati i perseguitati per amore della giustizia!”. Sì, beati; ma quanta sofferenza inutile costa questa beatitudine!
A distanza di tanti anni ora mi sorprende non poco ricordare l’impegno di tutta la Comunità nel tentare con ogni mezzo di “dialogare” col vescovo. Ma non era dovere del “buon pastore” cercare le pecorelle smarrite? Nel nostro caso, invece, erano tante pecorelle che chiedevano di parlare col loro pastore. E purtroppo, invano. Negli anni passati risulta che quegli operai, contadini, casalinghe, artigiani, medici, avvocati di Conversano avevano lottato in modo così deciso per “dialogare col proprio vescovo”? Non risulta. Perché ora sì? E questo impegno non fu solo della Comunità Carmine. Ecco altri movimenti spontanei ostacolati in quegli stessi anni nella loro crescita soprattutto ad opera dell’autorità religiosa: il gruppo di Metanoia di Triggiano, la Sveglia di Mola, Politeia di Bari, “piccola parabola di chiesa” con Gianni Novello e Salvatore Carbonara a Monopoli…
La “sospensione a divinis”
Anche il Movimento Laureati Cattolici di Bari tentò di collaborare cristianamente perché si ripristinasse il dialogo Comunità-Vescovo a Conversano; ma anche loro furono clamorosamente buggerati dalle alte cariche ecclesiastiche. Il presidente Avv. Tanzarella e l’assistente Don Ardito il 30 luglio del ‘70, infatti, in occasione della Settimana Teologica di Martina Franca, chiesero e ottennero di parlare della grave e ormai insostenibile situazione della Comunità di Base del Carmine direttamente col Card. Wright, arrivato in Puglia appunto per il convegno di Martina: e da lui in persona ricevettero ampie assicurazioni per una soluzione evangelica dei problemi prospettati. E invece, tre giorni dopo, e precisamente domenica 2 agosto 1970, “La Gazzetta del Mezzogiorno” – il quotidiano più diffuso in Puglia – uscì con il seguente titolo in prima pagina: <<Don Vincenzo D’Aprile è stato sospeso a divinis>>. Ma la notifica ufficiale a firma di D’Erchia mi fu recapitata il giorno successivo. La notizia quindi fu passata prima ai giornali e poi all’interessato. E’ questa la chiesa del Vaticano II? Il vescovo mi precisava nella nota che la Sacra Congregazione del Clero con lettera del 27 luglio 1970 mi comminava la “Sospensione a Divinis”, ingiungendomi di non portare più né talare, né clergyman; e per qualsivoglia dilucidazione mi sarei dovuto rivolgere a Roma, al Vaticano.
Mi sentii annichilito, come mi fosse stata strappata l’anima di dentro! Che cosa c’era di peggio di questa ulteriore pugnalata alla schiena da parte della “chiesa di Cristo Misericordioso” nella quale e per la quale avevo dedicato con entusiasmo tutta la mia giovane vita? Un amico mi fece notare che nessuno dei preti italiani che aderivano alle Comunità Cristiane di Base, o ai preti operai, o ai preti solidali, a cominciare da don Mazzi dell’Isolotto era stato “sospeso a divinis”; mentre un pretino di Conversano sì. Un mese prima il Vaticano con Palazzini mi dice “riprendi a dire messa”; un mese dopo: “non sei più prete”. C’era da impazzire, ma evidentemente avevo una buona tempra se non ho sentito il bisogno di ricorrere alle cure di un ospedale psichiatrico. Obbedii anche a questo ennesimo ordine immotivato, immorale e assurdo. E, come al solito, riorganizzai subito le idee e chiesi spiegazione con raccomandata alla Congregazione del Cleto e allo stesso Papa Paolo VI. Neppure in questa circostanza ricevetti risposta ai vari quesiti che educatamente, ma con tanta rabbia dentro, ponevo alle autorità vaticane, peraltro su indicazione precisa del mio vescovo. Purtroppo si era nel pieno dell’estate, e bisognava rispettare la prassi consolidata del periodo di ferie estive anche negli uffici del Vaticano! Il Card. Wright era tornato in America per le vacanze… Nessuna risposta, né alle raccomandate e neppure ai telegrammi per sollecitare almeno un chiarimento sulla “sospensione a divinis”. La situazione era decisamente grave. C’era ancora posto nel mio comportamento per un briciolo di entusiasmo supportato dallo spirito del mio Sessantotto? Forse sì.
Il sistema educativo
Negli anni passati avevo già fatto un buon allenamento al sacrificio, a sopportare anche le punizioni più degradanti e insulse. Erano gli anni Quaranta e alla scuola elementare nelle mie classi si rafforzavano certi insegnamenti anche con l’ausilio delle sonore spalmate alle mani con “la Santa Caterina”. Poi nel seminario per la scuola media e il ginnasio, per punizione a causa di qualche marachella, mentre gli altri amici allegri e spensierati erano in ricreazione, il malcapitato doveva stare 10 minuti in silenzio con la fronte appoggiata al muro e le mani sulla nuca. O addirittura, nei casi più gravi, impegnato nella pulizia di un lurido WC alla turca, usando l’asfissiante e pericoloso acido muriatico; non basta: scontata la punizione ci si doveva recava dal prefetto per baciargli la mano e dirgli anche “grazie”. Che crudeltà! “Ma si mangiava bene e si giocava al pallone!”. Quando in chiesa si passava davanti al “Santissimo”, il rituale prevedeva da noi chierichetti la genuflessione; e la stessa genuflessione si doveva fare allorquando ci si avvicinava al vescovo celebrante il pontificale. C’era una certa omologazione Santissimo-Vescovo? Senza dimenticare il baciamano al vescovo prima di ogni operazione liturgica. E nel corso del liceo: per regolamento la corrispondenza privata in uscita e in entrata doveva prima passare dal controllo del rettore; “ma si mangiava bene e si giocava al pallone!”. Quando il 2 agosto del ’70 arrivò “la sospensione a divinis”, nonostante fossi temprato con mille altre dure prove, mi sentii le ossa rotte come avessi ricevuto una sonora bastonata; ma strinsi ancora una volta i denti, e a mio modo cercai di superare anche quest’ennesima prova. La più crudele e disumana della mia vita.
Sì, ho temuto seriamente un crollo psicofisico. Anzi, ho intima certezza che ancora oggi, a distanza di mezzo secolo, a causa di quella terribile esperienza, qualcosa di profondo abbia scalfito la mia psiche. Ritenni opportuno, perciò, recuperare qualche giorno di relax, cercando di dimenticare le legnate. Mi offrì ospitalità il mio vecchio amico Don Auro Giubbolini a Poggibonsi, in provincia di Siena; lui già in due circostanze si era sobbarcato ad un non comodo viaggio in auto per essere vicino alla Comunità del Carmine di Conversano. Il mondo è piccolo!
“Le temporalità”
Un bel giorno, ma in forma meno eclatante del fatidico “undici maggio”, ci fu la “consegna delle temporalità”; più comunemente detta “consegna delle chiavi” della parrocchia, alla presenza di un funzionario della prefettura di Bari. In realtà, da quando cambiarono la serratura al Carmine, il 27-4-70, mi fu impedito di accedervi, neppure per prelevare i miei effetti personali. Di questa “consegna” conservo un ricordo piuttosto vago. Mentre passeggiavo a ridosso dell’altare maggiore con Don Luca Innamorato, alcune persone, presumo incaricate dalla prefettura di Bari, nella sagrestia esaminavano i registri della parrocchia che, comunque, risultarono corretti e in ordine. Terminato il loro lavoro raccolsero alla rinfusa tante carte sparse e documenti miei personali e li rinchiusero in un bustone per me. Espletato ogni adempimento, firmai il verbale e ne chiesi copia; neppure di questo caso ricevetti copia per me. Questo era il Sessantotto anche per i funzionari prefettizi? Solo a distanza di vari lustri, bloccato in casa per il lock down dovuto al Covid, ho ritrovato quel bustone dove evidentemente nel tempo avevo infilato parecchio altro materiale: documenti, lettere, raccomandate, ritagli di stampa, telegrammi, notiziari Comunità, fotografie, ecc.
Per mia comodità ho ritenuto opportuno digitalizzare un po’ tutto quel materiale in oltre 500 file PDF, affidando tutto – compresi i documenti originali – alla Fondazione Di Vagno di Conversano, a disposizione di chiunque avesse interesse a visionarlo.
Perplessità nella Comunità
Come reagì la Comunità alla inattesa pugnalata della “Sospensione a Divinis”? Fu uno shock collettivo. In maniera del tutto spontanea e sicuri della loro efficacia, diversi fedeli inviarono delle petizioni scritte non solo al cardinale Wright, ma anche direttamente al Papa perché intervenissero a riportare pace e serenità in tante famiglie conversanesi scombussolate da questi eventi. Ancora una volta: nessuna risposta. Delle disumane traversie della Comunità Carmine di Conversano, invece, si era interessata anche la stampa e non solo quella nazionale. Naturalmente, ogni testata dava il proprio taglio di lettura di quelle vicende. Fu in quel periodo che un’associazione culturale locale raccolse un buon numero di ritagli di stampa e li riordinò in una pubblicazione che in pochi giorni andò a ruba. Alquanto più articolata e organica fu un’altra pubblicazione: “Il Sistema contro una comunità cristiana” di Mario Papadia. Molti espressero la propria solidarietà ai soprusi sulla nostra Comunità: da Firenze, Milano, Ravenna, Genova, ma anche dalla Spagna, dalla Francia, dall’Olanda. E addirittura dal Cile: il Vescovo Oviedo Cavada mi invitò a Conception, precisandomi che per me c’era a disposizione una cattedra all’Università locale…
Quando ricordo questo allettante invito di Mons. Cavada mi torna in mente l’amena favoletta raccontatami da un amico addentro a certi meccanismi sull’arrivismo dei preti. Come far carriera nella gerarchia ecclesiastica? Ecco: aver frequentato una prestigiosa facoltà; aver ricevuto incarichi di rilievo in curia; aver organizzato qualche manifestazione eclatante in parrocchia con una netta visibilità per il vescovo; nelle riunioni tra confratelli condividere sempre l’opinione dell’autorità; riferire al vescovo qualche pettegolezzo riservato sui tuoi colleghi, meglio se gli si sottolineano i particolari più piccanti; profittando delle festività fargli pervenire qualche bel cesto di roba buona, o altro regalo di un certo valore; ma soprattutto, non dimenticare di dargli “per le opere pie” una busta ben pingue ogni volta che lo si invita per una cerimonia. Se poi ci si riesce a farsi amico qualche pezzo grosso del Vaticano, il gioco è fatto!
Osservato speciale
Nell’evoluzione delle vicende legate alla Comunità negli ultimi mesi del ’70 un ruolo rilevante l’ebbe Padre Mario Piazzano, Consultore del Vaticano per la Sacra Congregazione del Clero. Fu un tenace tessitore di una trama che poi portò al compromesso barese del 13 dicembre 1970. Ricordo uno dei primi incontri a Bari. Il 9/6/70 ricevetti da lui un telegramma che sulle prime mi sembrava incomprensibile: <<Pregola trovarsi mercoledì 10 giugno ore 17 presso suore via Camillo Rosalba 42 Conversano>>. Ma a Conversano non mi risultava ci fosse quella strada. L’indomani mi aspettava forse a Roma in via Camillo Rosalba? Risolsi il problema perché un amico mi assicurò che quella via, invece, a Bari c’era. E infatti il giorno dopo con una delegazione della Comunità – Liuzzi, Sportelli e Di Maggio – incontrai Padre Piazzano.
Nel corso della conversazione lui proponeva il mio allontanamento da Conversano perché in Vaticano si stava cercando un’altra chiesa che mi avrebbe accolto in un’altra regione italiana. <<Perché? Come giustificare questo allontanamento dalla Comunità?>>. Padre Piazzano aveva portato con sé da Roma il dossier che mi riguardava, e mentre lo sfogliava in cerca di non so quale documento, mi accorsi che in quel contenitore c’era anche la copia di una minuta di una lettera scritta di mio pugno. Si trattava della fotocopia di una mia lettera privata inviata ad una mia amica, minuta che conservavo con cura. Quella lettera era mia e soltanto mia; come e perché una copia della stessa era arrivata in quel fascicolo in Vaticano?
Un bel giorno riuscii a fare mente locale. Dopo aver insegnato per diversi anni al Magistrale di Conversano, per l’anno scolastico 69-70 la Curia mi affidò l’insegnamento della religione all’ I.T.C. Pinto di Castellana Grotte. Il preside era tale Vito Sante Longo che mi fu presentato come “sant’uomo” perché recitava il rosario ogni giorno, e pregava con i salmi del breviario. Con fare molto dolce e suadente, più volte ebbi modo di scambiare delle opinioni con lui, anche su argomenti controversi di morale e teologia. Con un amico così rassicurante non ritenevo potessero esserci riserve mentali o remore particolari a confidarsi. E quel “sant’uomo” mi sembrava un amico fidato. E invece mi sbagliavo, ma purtroppo ne ho avuto consapevolezza troppo tardi. In realtà, il mio preside nei miei riguardi ha fatto la spia per conto del vescovo. Di tanto in tanto entrava nella mia classe nel corso delle mie lezioni, anche per futili motivi. Ricordo in una mia classe di quinta un suo intervento dimostrativo relativamente alla modernità o meno dei giovani rispetto agli anziani. Lui, vibrando una barretta di gesso bianco si avvicinò alla lavagna e disse: <<Ragazzi, voi scrivete così “caxxo”, io invece lo scrivo anche con tre “z”. Vedete? E ora ditemi: chi è più moderno?>>. Un altro giorno io avevo poggiato sulla cattedra il registro di classe, quello personale, il libro di testo e distrattamente anche la minuta di una mia lettera per una mia amica. Il preside l’adocchiò e me la chiese. Gliela consegnai perché non avevo nulla da nascondere ad un amico fraterno. Me la ridiede l’indomani. Ma nel frattempo, non so per quali vie misteriose e a quale scopo, una copia di quella mia lettera – non certo indirizzata a Wright – la vidi appunto nel dossier che quel giorno Piazzano consultava nel salotto delle suore in Via Camillo Rosalba 42 in Bari.
Democrazia Cristiana
Con il preside Prof. Matteo Fantasia dell’Istituto Magistrale di Conversano, dove avevo insegnato negli anni Sessanta, ci si poteva capire subito e sempre nel massimo rispetto reciproco. Il nostro sindaco, l’On. Peppino Di Vagno nella primavera del ’66 fu invitato dai padri gesuiti dell’Istituto Di Cagno a Bari per una conferenza sui rapporti dell’amministrazione civica con la gerarchia ecclesiastica. Ritenni opportuno parteciparvi; sarebbe stata l’occasione anche per salutare miei vecchi amici di studi a Napoli. Di Vagno fece solo un cenno ad un recente screzio istituzionale a Conversano: se fosse o no consentito che il sindaco socialista sorreggesse per un breve tratto di strada, come da tradizione, il Crocifisso nella processione dall’Isola in città. Qualcuno riferì della mia presenza a detta conferenza al mio preside, il quale mi prese sotto braccio e con tanta delicatezza mi fece capire che non era dei buoni cristiani seguire il socialista On. Di Vagno anziché la Democrazia Cristiana.
Ho tenuto presente le sue raccomandazioni, ma ogni volta che ho votato, l’ho fatto alla luce delle indicazioni del mio Sessantotto: seguendo sempre la mia coscienza.
Servizi e agenti
A proposito di spie, servizi segreti, “agenti” della Digos o dei carabinieri. Quelli che ho conosciuto personalmente io nel mio “Sessantotto” in genere erano in coppia e poco loquaci. Ma ormai li si riconosceva facilmente perché assidui frequentatori delle nostre assemblee di Comunità; e talvolta ci seguivano anche per un bel tratto di strada quando ci si dirigeva per una riunione organizzativa in una casa privata di uno di noi. <<Male non fare, paura non avere>> dice un proverbio. Ma questo è valido almeno finché non si ha a che fare col Capitano Grillo della sezione carabinieri di Monopoli, di cui dopo alcuni anni parlò la stampa in quanto probabilmente implicato nel complotto Gladio. Per nostra “ingenuità” non eravamo sufficientemente vigili e attenti per proteggerci da normali malevoli “rapporti” sui comportamenti dei membri della Comunità da parte di individui prevenuti.
A proposito di riservatezza della corrispondenza personale ricordo che, nel breve periodo in cui svolsi le mansioni di capo del personale della fabbrica Camart in Via Iatta a Bari, venne a trovarmi in ufficio un postino di Conversano: <<Ti devo confessare che qualche volta alcune lettere indirizzate a te, le ho recapitate a un prete. Fu lui che me lo chiese con insistenza. Ti scongiuro: non esporre denuncia ai carabinieri>>. Glielo promisi e mantenni la parola data.
Non so come, ma tra tante cianfrusaglie tirate fuori dal mio “bustone-archivio” trovai un foglio di appunti scritto a mano e in fretta con diverse annotazioni piuttosto disordinate relative a persone, sigle, citazioni, avvenimenti, date, ecc.; per alcuni piccoli ma significativi riferimenti, quel foglietto mi pareva sfuggito o a un giornalista o ad un dipendente dei “servizi”. Per pura cronaca aggiungo un altro flash che ho memorizzato su questo argomento. Il mio condominio dove risiedo a Bari ha quattro scale. La mia è la A. Dalla scala B di frequente vedevo che a intervalli regolari un signore già avanti con gli anni portava il suo cagnolino per una passeggiatina in strada. Un bel giorno, al di là dei soliti saluti, lui sentì il bisogno di farmi la seguente confidenza: <<Sono un carabiniere in pensione. Mi chiamo Silvio, ma non sono di quel partito. Ai tempi della Comunità di Conversano diverse volte il mio comandante inviò anche me di pattuglia>>. Che strana e fortuita coincidenza!
La riabilitazione
Padre Piazzano soprattutto nell’autunno del ’70, intensificò la sua presenza alle assemblee della Comunità il giovedì nel garage di via Massimo D’Azeglio. Era evidente che volesse raggiungere un preciso obiettivo: cercare l’occasione propizia per convincere la Comunità che l’allontanamento del suo leader avrebbe portato maggior serenità nel paese. In realtà la Comunità era ormai adulta: stilava anche un Bollettino che periodicamente informava degli avvenimenti passati, ma anche dei programmi di massima da raggiungere; aveva organizzato anche un doposcuola gratuito aperto a tutti; manteneva i contatti con altre Comunità di Base e col Vaticano. E appoggiata alla Comunità, con l’impegno soprattutto della Prof.ssa Maria Teresa Pace dell’università di Bari, per un po’ di tempo si organizzò una Lega a Conversano: “la Lega dei Muratori”.
Un bel giorno Padre Piazzano arrivò con una proposta operativa nuova e concreta: nel colloquio con la Comunità del 12/10/70 per la prima volta, infatti, si parlò della mia piena riabilitazione. Però non a Conversano, ma a Bari. Nonostante la perplessità di alcuni, i più in Comunità tirarono un sospiro di sollievo per questa mezza marcia indietro del Vaticano. E questo fu il senso della lettera che inviai al card. Wright il 19 ottobre. Dopo circa un mese mi pervenne la comunicazione ufficiale da parte di D’Erchia. Sebbene fosse una comunicazione capestro, l’accettai. Perché capestro? Perché mi riconosceva sì prete, ma prete a metà: a prescindere dal fatto che il mio vescovo non mi aveva rinnovato l’incarico di insegnante di religione che in soldoni significava: <<io ti affamo>>, mi comunicava che nella diocesi di Bari sarei stato prete a tutti gli effetti, invece in quella di Conversano sarei stato sempre “sospeso a divinis”, vale a dire: non prete. Dovevo diventare “prete a metà”, appunto. Unico caso in Italia! Pure se assurda e incoerente, accettai la proposta; anche perché l’arcivescovo di Bari Mons. Nicodemo mi aveva rassicurato: <<Vieni a Bari. Vedrai, tra sei mesi tutto sarà risolto>>. La data fissata fu per domenica 13 dicembre del 1970.
Padre Piazzano per quella data mi chiese di adempiere a due piccole formalità scritte: affermare di aderire al “Credo” e impegnarmi a non avere rapporti con gli abitanti di Conversano. Mi fu facilissimo recuperare una copia del Credo di Santa Romana Chiesa Cattolica e Apostolica che ho declamato per tanti anni senza mai cambiarne una virgola, e la sottoscrissi. Poi, pur consapevole di tradire il senso di stima e affetto di tanti amici di Conversano, sottoscrissi perfino questo disumano impegno: <<non avere rapporti con gli abitanti di Conversano>>. Era tutto ok per Piazzano; ma il giorno seguente lui stesso mi chiese di correggere il secondo impegno in questi termini: <<Mi impegno a non avere più rapporti né diretti né indiretti con Conversano>>. Un impegno che solo un matto avrebbe potuto sottoscrivere. Ed io sottoscrissi anche questa seconda versione del mio impegno da “matto”, pur di diventare “prete a metà”!
Comunque, dalle ore 18 di domenica 13 dicembre 1970 nella parrocchia San Pasquale di Bari ero in realtà ridiventato prete vero. Alla messa serale di quella domenica, a mia insaputa, gli amici di Conversano allestirono addirittura un pullman di fedeli per assistere alla mia prima messa nella parrocchia di San Pasquale! Sotto la saggia guida del parroco Don Milella, noi suoi collaboratori lavoravamo con diligenza ed entusiasmo. Non stentai molto a riprendermi dalla situazione decisamente assurda in cui mi trovavo mio malgrado; fino al giorno 12-12-70 non lo potevo, ma dal giorno dopo sì. Potevo. Potevo dire messa, battezzare, confessare, predicare, insegnare, celebrare matrimoni, funerali, ecc. Ricordo che per essere ligio all’impegno sottoscritto da “matto”, non raggiunsi i miei genitori che abitavano a Conversano neppure per gli auguri di Natale 1970!
I giorni scorrevano tranquilli a San Pasquale quando un bel giorno fui chiamato da Mons. Nicodemo: <<Mi dispiace che non mantieni i patti>>. Aveva tra mano una lettera della Curia di Conversano in cui D’Erchia mi accusava di essere andato a celebrare in una chiesetta di campagna nei pressi del Lago Padula a Conversano e che mi ero recato a Turi a dare fastidio a D’Erchia. Bugie inventate di sana pianta. Un vescovo può raggiungere siffatto livello di indecenza? Vergogna! Io, intanto, lavoravo tranquillo e pacifico a San Pasquale, con la prospettiva che verso giugno sarei tornato a Conversano tra i miei parrocchiani a lavorare con altrettanta serenità.
I Passionisti
Nel mese di marzo del 1971 il vescovo D’Erchia invitò a Conversano dei Padri Passionisti per una Missione. Ne venni a conoscenza da due raccomandate che mi spedì mio padre a Bari, rispettivamente il 15 e 18 marzo 1971. Quale lo scopo di questa Missione? Purificare il mio paese da tutte le eresie diffuse a piene mani da “un diavolo di prete”. I passionisti per una settimana percorsero in lungo e largo Conversano, soffermandosi a predicare in tutti i luoghi di aggregazione. Per esempio, nella prima lettera mio padre faceva riferimento all’ efficace lavoro di purificazione fatto da un missionario nella Sezione dei Combattenti e Reduci, accusandomi di tanti gravi misfatti ed eresie. Tutte fandonie.
Qualche volta ripensando a questa missione purificatrice mi son chiesto: che sarebbe successo se mi fossi mescolato agli uditori di quelle prediche e alla fine avessi confutato ad una ad una tutte le bugie dette nei miei riguardi da quei padri missionari? Nonostante l’appassionato invito di mio padre a tornare a Conversano per discolparmi, scelsi la strada del silenzio, proseguendo il mio lavoro a Bari come ho sempre fatto a Conversano. Perché a Bari nessuno si è mai sognato di proporre una Missione Cittadina per purificarla dalle mie “eresie”?
“Mai sospeso a divinis“
Nel mese di giugno dello stesso anno, incontrando l’arcivescovo Nicodemo gli ricordai la promessa dei “sei mesi, e poi…”. <<Due o tre mesi ancora, e risolveremo la situazione>> mi precisò. Ritenni razionale questa prospettiva: a settembre, ottobre con la ripresa delle attività parrocchiali e scolastiche, le autorità avrebbero risolto più agevolmente il problema “D’Aprile”. E invece passò settembre, passò pure ottobre ma non arrivò nessuna novità. Anche nei mesi successivi: nulla di nulla.
Di giorno in giorno si faceva più concreto il sospetto che quel “problema” fosse stato rimosso. Finché un giorno della primavera 1972 mi chiamò in episcopio l’arcivescovo Mons. Nicodemo: <<Ho ricevuto dal Vaticano una comunicazione per te, in risposta alle varie volte che chiedevi “Perché? Perché?”>>. Me la lesse alla presenza di Don Milella il parroco di San Pasquale: <<Vincenzo D’Aprile non è mai stato sospeso a divinis>>. Evviva! Finalmente la risposta che attendevo da tanto tempo! Ovviamente ero felicissimo che anche il Vaticano dichiarava ufficialmente quello di cui io ero certo da sempre: la “sospensione a divinis” era un bluff di D’Erchia. Firmai anche questo documento e naturalmente ne chiesi copia. <<Per disposizioni superiori non posso dartela>> mi precisò l’arcivescovo. Lo scongiurai. Gli promisi che l’avrei fatta leggere solo ai miei genitori e mai avrei passato quella notizia alla Gazzetta. Nulla da fare. E questa fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Fino a quando la mia salute avrebbe potuto reggere a questa già lunga serie di situazioni stressanti? E’ davvero evangelica una vita persa per rincorrere preti, monsignori, vescovi, arcivescovi, cardinali, papi? Io ho una sola vita da vivere. “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”.
E la Comunità? Dopo la mia promessa formale a non avere più contatti coi conversanesi, un validissimo aiuto la Comunità Carmine l’ebbe da un bravissimo e stimatissimo sacerdote del napoletano che addirittura trasferì la sua residenza a Conversano, ottenendo ottimi risultati lavorando in particolare nel sociale.
Ovviamente, io ho dovuto riprogrammare la mia vita.
Ora a conti fatti, per un insieme di fortuite circostanze favorevoli, posso ritenermi un uomo fortunato: famiglia, lavoro, figli, quattro nipoti, tanti amici.
E da una ventina d’anni riesco a godermi anche la pensione!
Grazie “Sessantotto”.
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Bari, 6 giugno 2023

